IL CASO/ I nodi scomodi sulla
rete di Telecom
Uno dei nodi
importanti della prossima legislatura riguarda la politica industriale. E, di
conseguenza, il da farsi sulla rete di telecomunicazioni, spiega GIUSEPPE
PENNISI
21 agosto
2017 Giuseppe Pennisi
Lapresse
TELECOM. Uno dei nodi chiave della prossima
legislatura sarà la politica industriale. Anche il quotidiano più prossimo alla
Confindustria, Il Sole 24 Ore, il 17 agosto, commentando le statistiche
sul leggerissimo miglioramento della crescita, sottolineava, con un editoriale
che non potrà essere sostenuta senza un'adeguata politica industriale. A sua
volta, uno dei nodi chiave della politica industriale consiste nel risolvere il
problema chiave delle telecomunicazioni, tassello importante dell'aumento (o
meno) della produttività. È argomento su cui si sta ragionando all'interno di
Telecom (e degli altri principali gestori di telefonia), di Open Fiber, dei dicasteri
economici e di palazzo Chigi.
È un nodo
complesso. In primo luogo, nessuna compagnia telefonica si libera facilmente
della propria rete (specialmente se in condizioni di monopolio). Quando nel
2006 Angelo Rovati dell'Università Cattolica, consulente del Presidente del
Consiglio Romani Prodi, lo propose si levò un'ondata di vero e proprio furore.
Allora forse era troppo presto: non erano maturate le condizioni, oggi la
situazione è cambiata. Da un lato, a ragione della tecnologia. Dall'altro, a
motivo della situazione finanziaria di Telecom che agli occhi dei nuovi
azionisti di maggioranza appare meno rosea di quanto si pensasse.
Lo scrive
chiaramente uno dei maggiori esperti del settore su Teleborsa, Guido Salerno,
che è stato Segretario Generale del Ministero delle Telecomunicazioni e
Direttore delle Fondazione Ugo Bordoni, nonché ha rivestito diversi anni fa
incarichi di rilievo all'interno della stessa Telecom: si è sfruttata al
massimo la rete originale in rame, di cui oggi rimane praticamente inalterato
solo l'ultimo tratto che va dalla centrale o dall'armadietto di strada fino
alla casa dell'utente. Questo è ormai un collo di bottiglia se si vuole la
banda ultra-larga, quella che consente di avere a casa l'interattività
televisiva di alta qualità, con la possibilità del video-on-demand sulla lunga
coda. Serve portare la fibra a casa dell'utente, o almeno all'armadietto di
strada: la prima soluzione (Ftth) è quella che sta realizzando Open Fiber, la
società di Enel e Cassa depositi e prestiti che ha vinto le gare bandite da
Infratel per gli stanziamenti che il governo ha messo a disposizione per le
aree a fallimento di mercato; la seconda architettura (Fttc) è quella che sta
realizzando Tim, che consente di sfruttare ancora un pezzo della sua rete in rame.
Ma mentre la prima soluzione (Ftth) è completamente autonoma nell'accesso
all'utente finale rispetto alla rete di Tim, la seconda soluzione (Fttc)
vincola la concorrenza a usarne comunque l'ultimo tratto in rame. La nuova rete
a banda ultra larga finanziata dal governo italiano nelle aree a fallimento di
mercato, mediante i bandi di gara gestiti da Infratel, creerà una
infrastruttura pubblica in fibra ottica che arriverà a casa degli utenti e che
sarà accessibile da parte di tutti i concorrenti alle medesime condizioni:
eque, trasparenti, non discriminatorie, orientate ai costi.
Su posizioni
molto simile Maurizio Matteo Decina, consulente Tlc per Ernst & Young con
un passato nella controllata spagnola di Tim. Nel libro "Goodbye
Telecom?" ha ricostruito gli ultimi venti anni dell'azienda e realizzato
un modello di simulazione che prende in considerazione quasi 200 variabili
chiave suddivise in 10 gruppi da 20. Il risultato ha consentito di individuare
due scenari agli antipodi da qui a 20 anni. Uno denominato "Rame
persistente", nel quale una delle numerose ipotesi è quella di un
50% Fiber-to-the-node (in pratica la fibra fino alla centrale) e un 50%
Fiber-to-the-Home.
Qui si
inserisce la parte finanziaria. A un tasso di attualizzazione analogo a quello
raccomandato per gli investimenti in infrastrutture, il valore della rete in
rame si porrebbe sui 13-15 miliardi. Con qualche ipotesi aggiuntiva si
potrebbero sfiorare i 20 miliardi di cui parla la dirigenza di Telecom. Ove si
trovasse un acquirente od ove, più verosimilmente, se ne condividesse la
proprietà con le altre aziende di telecomunicazioni e la si aprisse al mercato,
ciò consentirebbe alla Telecom di ridurre parte importante del proprio debito
(32 miliardi lordo, 23 miliardi netto). Il debito è così elevato perché dalla
privatizzazione del 1997 tutti i passaggi di proprietà sono stati effettuati
con una forte leva finanziaria che ha poi costretto a limitare gli investimenti
(specialmente quelli sulla rete).
A questo
nodo, se ne aggiunge un altro, molto politico. Pochi ricordano lo stato della
telefonia in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, quando era difficile avere
un allaccio domestico. Venne varato (con la legge 1975 n. 227) un piano
straordinario per migliorare il sistema, facendo ricorsi ad "anticipazioni
della Cassa depositi e prestiti" anche trentacinquennali. Un eventuale
riacquisto di una rete che si è finanziata pone problemi? Varrebbe la pena
discuterne.
©
Riproduzione Riservata.
Nessun commento:
Posta un commento