Vi spiego il subbuglio su taxi, Ncc e Uber
Il commento dell'economista Giuseppe Pennisi
Oggi 21 febbraio dovrebbe aver luogo il tanto atteso (dai tassisti )
incontro tra i rappresentanti della categoria e il ministro delle
Infrastrutture Graziano Delrio. Il condizionale è
d’obbligo non solo per gli impegni di governo e della situazione
politica in generale ma anche perché è difficilissimo che il ministro
sia pronto a fare marcia indietro su un comma di un decreto legge già
convertito in legge da un ramo del Parlamento per una categoria tutto
sommato minuscola e tutto sommato molto tutelata come documenta uno
studio specifico della Banca d’Italia (Chiara Bentivogli
“Il servizio di taxi e di noleggio con conducente dopo la riforma
Bersani. Un’ indagine nelle maggiori città italiane”). I tassisti hanno
perso gran parte del peso politico che avevano nel convogliare i voti
della categoria verso questo o quel partito poiché sono in gran parte
finiti i partiti strutturati e “il voto è mobile qual piuma al vento” ; i
tempi sono cambiati e col dissolvimento di grandi partiti strutturati è
difficile che qualcuno faccia proprie le loro istanze. A volte, le
organizzazioni dei tassisti hanno tentato di avere almeno un seggio al
Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro ma tutte le altre
categorie, sia datoriali sia sindacali hanno frapposto una cortina di
ferro insistendo che si tratta di una categoria minuta che si è sempre
interessata solo di interessi particolaristici e non attinenti a temi e
problemi generali del Paesi.
In effetti, i tempi sono cambiati grazie al progresso tecnologico e organizzativo. All’inizio degli Settanta ebbe un certo successo “Un taxi mauve” romanzo del narratore cattolico Michel Déhon. Si svolgeva nell’Irlanda, isola verde e allora a basso reddito. I taxi erano pochi, rigorosamente contingentati e tutti di colore nero. L’eccezione era il taxi color malva col quale i protagonisti attraversano il Paese alla ricerca di se stessi. Oggi in Irlanda il taxi color malva non c’è più. I taxi non sono più tutti neri. Sono numerosi, spediti e danno lavoro a tanti micro-imprenditori, anche immigrati. Ciò è avvenuto a ragione di una sentenza della Corte Costituzionale, nel 2000, dopo estenuanti (e inconcludenti) trattative tra le autorità (a differenti livelli di governo) e i rappresentanti della categoria. Le associazioni di tutela dei consumatori si sono rivolte alla suprema magistratura. Le motivazioni della sentenza e un’analisi delle sue implicazioni economiche sono riassunte nel saggio di Sean Barret dell’Università di Dublino pubblicato dal trimestrale Economic Affairs. Eloquente il titolo: “Regulatory capture, property rights and taxi deregulation: a case study” (Cattura delle regole, diritti di proprietà e deregolazione dei taxi: un caso di studio).
La Corte fa riferimento non solo al principio della non-discriminazione (analogo a quello sancito all’art.3 della Costituzione italiana) ma anche al “titolo”, per chi ne ha la formazione e capacità, di avere accesso al settore e a quello, speculare, dei cittadini di acquistare i servizi dal migliore offerente (se fornisce garanzie di professionalità): sono “titoli fondamentali”, tutelati dalla Convenzione dei diritti dell’uomo che ha da poco compiuto 200 anni e a cui Irlanda (e Italia) aderiscono. Leggi e regolamenti che limitavano l’accesso alla professione sono stati immediatamente abrogati, il numero di taxi è triplicato, l’occupazione nel settore quadruplicata (secondo alcuni, quintuplicata). A un’analisi dei costi e dei benefici sociali (relativa, quindi, al benessere della collettività e in particolare dei più poveri) la deregolamentazione risulta avere avuto un tasso di rendimento interno del 30%; tra i benefici, sono stati computati unicamente la riduzione dei tempi di attesa per gli utenti e l’incremento dell’occupazione. I vantaggi maggiori sono andati agli strati a più basso reddito della popolazione. Gli svantaggi finanziari a chi ha perso rendite di posizione. Dopo alcuni anni, nel mezzo della crisi finanziaria, si è tornati a una regolamentazione molto semplice: oggi nella Repubblica, la cui popolazione è analoga a quella di tutta Roma, ci sono 40mila taxi “autorizzati”, quattro volte il numero di quelli in circolazione nella nostra Capitale.
Non sappiamo se le nostre associazioni dei consumatori sceglieranno la via giudiziaria (sino alla Corte Costituzionale) per risolvere il nodo dei taxi nelle grandi città italiane e in particolare a Roma. Non sappiamo se i giudici italiani seguiranno l’orientamento dei loro colleghi irlandesi (nonché di quelli di Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Benelux e dei nuovi Stati membri dell’Ue). È probabile che lo facciano. Siamo consapevoli del danno finanziario che una liberalizzazione dall’oggi al domani porterebbe a chi ha appena acquistato una licenza a caro prezzo (prassi frequente anche se, dicono i giuristi, illegale). Chi difende l’esistente perde, comunque, sempre. Chi guarda all’eterno passato perde male: in un bel libro sui Rajput, Luciano Pellicani ricorda cosa è successo anche ai valorosi principi indiani. Ci pensi chi è alla guida di un taxi bianco. Perché sono così attratti da un suicidio collettivo come quello di Jonestown?
In effetti, i tempi sono cambiati grazie al progresso tecnologico e organizzativo. All’inizio degli Settanta ebbe un certo successo “Un taxi mauve” romanzo del narratore cattolico Michel Déhon. Si svolgeva nell’Irlanda, isola verde e allora a basso reddito. I taxi erano pochi, rigorosamente contingentati e tutti di colore nero. L’eccezione era il taxi color malva col quale i protagonisti attraversano il Paese alla ricerca di se stessi. Oggi in Irlanda il taxi color malva non c’è più. I taxi non sono più tutti neri. Sono numerosi, spediti e danno lavoro a tanti micro-imprenditori, anche immigrati. Ciò è avvenuto a ragione di una sentenza della Corte Costituzionale, nel 2000, dopo estenuanti (e inconcludenti) trattative tra le autorità (a differenti livelli di governo) e i rappresentanti della categoria. Le associazioni di tutela dei consumatori si sono rivolte alla suprema magistratura. Le motivazioni della sentenza e un’analisi delle sue implicazioni economiche sono riassunte nel saggio di Sean Barret dell’Università di Dublino pubblicato dal trimestrale Economic Affairs. Eloquente il titolo: “Regulatory capture, property rights and taxi deregulation: a case study” (Cattura delle regole, diritti di proprietà e deregolazione dei taxi: un caso di studio).
La Corte fa riferimento non solo al principio della non-discriminazione (analogo a quello sancito all’art.3 della Costituzione italiana) ma anche al “titolo”, per chi ne ha la formazione e capacità, di avere accesso al settore e a quello, speculare, dei cittadini di acquistare i servizi dal migliore offerente (se fornisce garanzie di professionalità): sono “titoli fondamentali”, tutelati dalla Convenzione dei diritti dell’uomo che ha da poco compiuto 200 anni e a cui Irlanda (e Italia) aderiscono. Leggi e regolamenti che limitavano l’accesso alla professione sono stati immediatamente abrogati, il numero di taxi è triplicato, l’occupazione nel settore quadruplicata (secondo alcuni, quintuplicata). A un’analisi dei costi e dei benefici sociali (relativa, quindi, al benessere della collettività e in particolare dei più poveri) la deregolamentazione risulta avere avuto un tasso di rendimento interno del 30%; tra i benefici, sono stati computati unicamente la riduzione dei tempi di attesa per gli utenti e l’incremento dell’occupazione. I vantaggi maggiori sono andati agli strati a più basso reddito della popolazione. Gli svantaggi finanziari a chi ha perso rendite di posizione. Dopo alcuni anni, nel mezzo della crisi finanziaria, si è tornati a una regolamentazione molto semplice: oggi nella Repubblica, la cui popolazione è analoga a quella di tutta Roma, ci sono 40mila taxi “autorizzati”, quattro volte il numero di quelli in circolazione nella nostra Capitale.
Non sappiamo se le nostre associazioni dei consumatori sceglieranno la via giudiziaria (sino alla Corte Costituzionale) per risolvere il nodo dei taxi nelle grandi città italiane e in particolare a Roma. Non sappiamo se i giudici italiani seguiranno l’orientamento dei loro colleghi irlandesi (nonché di quelli di Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Benelux e dei nuovi Stati membri dell’Ue). È probabile che lo facciano. Siamo consapevoli del danno finanziario che una liberalizzazione dall’oggi al domani porterebbe a chi ha appena acquistato una licenza a caro prezzo (prassi frequente anche se, dicono i giuristi, illegale). Chi difende l’esistente perde, comunque, sempre. Chi guarda all’eterno passato perde male: in un bel libro sui Rajput, Luciano Pellicani ricorda cosa è successo anche ai valorosi principi indiani. Ci pensi chi è alla guida di un taxi bianco. Perché sono così attratti da un suicidio collettivo come quello di Jonestown?
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