Ecco quello di cui il Pd di Matteo Renzi non parla
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Il commento
dell'economista Giuseppe Pennisi
La “triste scienza” (ossia la disciplina
economica) si interessa da decenni di come eventi che sembrano puramente ed
esclusivamente politici incidono sull’economia. E’ tema centrale, ad esempio,
della teoria delle scelte pubbliche (meglio nota come scuola del public choice) nonché della teoria economica dell’informazione. Un settore specifico di
quest’ultima analizza come l’informazione fornita dai media incide sulle scelte
e sulla decisioni dei soggetti economici (individui, famiglie, imprese,
pubbliche amministrazioni, governo, opposizione, e via discorrendo).
E’ singolare che dopo la direzione del
14 febbraio del partito di maggioranza relativo (e cioè il Pd) poche testate,
pur dedicando pagine e pagine a resoconti e commenti, ne abbiano trattato le
conseguenze economiche. Eppure, l’occasione veniva loro fornita su un piatto
d’argento dalla pubblicazione (in contemporanea) delle previsioni della
Commissione Europea per l’anno in corso e per il prossimo e di un acuto
commento del Commissario Europeo Pierre
Moscovici, secondo cui nodi economici italiani
sono essenzialmente politici.
Basta scorrere le previsioni per
accorgersi che sino al 2018 l’Italia si presenta come il Paese dell’Unione
Europea che cresce meno. Ed inoltre, pur avendo un’alta disoccupazione, la
riduce meno di tutti (un decimo della Spagna). Senza contare che – insieme
con la Spagna – è lo Stato ad alto debito in cui l’aumento continua a crescere
di più, al di là di componenti cicliche o di disastri naturali, e ad essere
rifinanziato principalmente grazie alla Banca centrale europea (perché gli
altri istituti italiani ed internazionali gli hanno voltato le spalle). Per non
parlare di banche, burocrazia, giustizia, elusione ed evasione: tutte aree che
necessitano urgente attenzione.
Chi guarda con il cannocchiale al
dibattito della direzione del principale partito politico italiano trae
l’impressione che tutti questi siano problemi secondari rispetto a quello della
data delle prossime elezioni. Un gruppo le vuole al più presto (dopo avere
preso due batoste: alle elezioni amministrative ed al referendum) nella
speranza di avere una rivincita e nel timore che il loro leader – il quale si
era impegnato a lasciare la politica ove il referendum costituzionale non
avesse portato alla vittoria del Sì – si logori nell’attesa (di qualche
mese). Gli altri intendono, in vario modo, seguire le procedure interne del
partito che, unitamente al lavoro di preparazione della nuova legge elettorale,
porterebbe la legislatura a sua naturale scadenza. Non so se in questa
“disfida” abbiamo ragione o torto i primi o i secondi.
Chi lo guarda con un cannocchiale più
lungo (internazionale) non può non considerare banale l’accento sulla data
delle elezioni, a fronte degli immensi problemi economici che l’Italia ha di
fronte a sé. La scuola del public
choice ci insegna che, nel breve periodo, un
gruppo compatto, tenace ed ostinato può averla vinta ma che si tratterebbe di
una vittoria di Pirro; l’aggravarsi della situazione economica, rispetto a
quella di altri Paesi, rafforzerebbe i gruppi del Pd oggi all’opposizione e
rappresenterebbe un regalo agli avversari esterni.
La teoria economica dell’informazione ci
insegna che la disattenzione giornalistica sulle conseguenze economiche di
eventi che paiono meramente “politici” sposta i lettori verso la
contro-informazione spesso online che influisce negativamente sui
comportamenti di individui, famiglie, imprese e pubbliche amministrazioni.
Aggravando il quadro economico a vantaggio delle opposizioni all’interno e
all’esterno del Pd.
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