Kát’a Kabanová
sulle rive del Po
sulle rive del Po
di Giuseppe
Pennisi
21 febbraio
2017CULTURA
Torino è
città adatta per mettere in scena Kát’a Kabanová di Leoš Janáček
(1854-1928), compositore moravo tra i più grandi dell’inizio del Novecento, pur
se l’Italia lo ha scoperto solo dopo la Seconda guerra mondiale. In Kát’a
Kabanová del 1922 (di cui si sono viste belle edizioni al Massimo Bellini di
Catania, a Firenze, a La Fenice in trasferta al Tronchetto ed alla Scala) ci
sono (nel terzo atto) veri e propri uragani. Sottolineo, Torino ha circa
900mila abitanti, è stata capitale di un Regno, principale città industriale
dell’Italia, città centrale nella moda e della cultura. Ha poco in comune con
il villaggio dove si svolge l’opera, se non le acque fluviali sempre presenti
in scena.
Kát’a
Kabanová è la più fragile di tutte le eroine di Janáček. La vicenda è tratta da
un romanzo, e da un dramma, di successo dello scrittore russo Alexander
Ostrovsky. In un piccolo centro bigotto, dove domina la suocera Kabanicha
(intenta, tra un paternostro e l’altro, in giochi sadomaso con il mercante
Dikoj), Kát’a Kabanová ha un marito imbelle e forse impotente, Tichon, ed è
amata in segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del villaggio, la
sua migliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione amorosa-sessuale
fresca e piena con il giovane professore di chimica Kudrjás. Durante un viaggio
d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát’a la chiave del luogo dove si incontra con
Kudrjás. Non sapremo mai se il rapporto tra Kát’a e Boris va al di là del
platonico. Il rimorso, però, è tale che al ritorno di Tichon, e nel corso di un
uragano, Kát’a si confessa adultera. Trova sollievo solo gettandosi nel Volga,
mentre Kabanicha ringrazia i presenti per la collaborazione data nel risolvere
il caso aperto dalla confessione della nuora. E il villaggio torna alla
bigotteria di sempre.
In Kát’a Kabanová, a 67 anni,
Janáček dimostra una grande capacità di sviscerare in musica l’animo umano (con
una scrittura spezzettata e continuamente ricostituita, raramente superata). A
Catania si è visto, vent’anni fa, un allestimento portato dall’Opera Nazionale
di Praga. La produzione scaligera (2006) proveniva dalla De Vlaamse Opera di
Anversa. La regia è stata curata dal canadese Robert Carsen, che cura pure
l’edizione di Torino. La scenografia, giocata sulla predominanza dell’elemento
acquatico che richiama l’incombente presenza del fiume, è opera, al pari dei
costumi, di Patrick Kinmonth. Uno spettacolo di grande livello che il Teatro
Regio di Torino mette in scena, in un programma in cui in sei anni proporrà, in
collaborazione con il Teatro di Anversa, tutte le opere di Janáček con la regia
di Carsen e l’apporto del suo team creativo (oltre a Kinmonth, Van Praet,
Giraudeau) Alcune parti del ciclo si sono già gustate in Italia: Jenůfa a
Palermo e Il caso Makropulos a Venezia.
Il 15
febbraio è stata la prima volta che Kát’a Kabanová veniva presentata a Torino,
dopo La piccola volpe astuta in scena nel gennaio dello scorso anno.
Come tutte le opere di Janáček, Kát’a Kabanová è breve (90 minuti); a volte i
tre atti (ciascuno di mezz’ora e diviso in due scene) vengono proposti senza
intervallo: ciò aumenta la tensione. Questa volta i primi due atti vengono
presentati come un blocco unico, scaricando la tragedia sul terzo. È un lavoro
complesso sia per la struttura orchestrale (Marco Angius ne ha mostrato tutta
la modernità) sia per la vocalità in cui la musica e le parole (il libretto è
in prosa) sono studiate perché l’una avvolga l’altra, facendo percepire ogni
sfumatura del moravo. Janáček ha poi una distinta preferenza per i soprani
drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro. La
protagonista è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita
interpreta Tichon Ivanyč Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca
de Pont Davies interpreta Marfa Ignatěvna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a,
l’ucraino Misha Didyk è Boris. Un cast impeccabile.
(foto: Ramella&Giannese
© Teatro
Regio Torino)
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