Kát’Kabanová
approda a Torino
febbraio 7,
2017 Giuseppe Pennisi
Mercoledì 15 febbraio, il Teatro Regio mette in scena
Kat’ Kabanova, di Leoš Janáček, con la regia di Robert Carsen
Mercoledì 15 febbraio, il Teatro Regio mette in scena
Kat’ Kabanova, di Leoš Janáček, con la regia di Robert Carsen. Dopo La piccola
volpe astuta della Stagione scorsa, prosegue con Katia Kabanova il progetto
Janáček-Carsen, che prevede un titolo del grande compositore ceco riletto dal
più geniale dei registi contemporanei. Debutta, sul podio dell’Orchestra e Coro
del Regio, Marco Angius, direttore di riferimento per il repertorio musicale
contemporaneo. Katia Kabanova, in prima esecuzione a Torino, è una produzione
della Vlaanderen Opera, di Anversa e Gand, Belgio.
Durante le cinque recite dell’opera, dal 15 al 23 febbraio, un cast internazionale di artisti con grande esperienza nel repertorio di Janáček, affronterà la partitura. Interprete di Katia Kabanova è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyč Kabanov, il marito di Katia; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta Marfa Ignatěvna Kabanová, la cinica suocera di Katia. Il Coro del Teatro Regio è istruito da Claudio Fenoglio.
Durante le cinque recite dell’opera, dal 15 al 23 febbraio, un cast internazionale di artisti con grande esperienza nel repertorio di Janáček, affronterà la partitura. Interprete di Katia Kabanova è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyč Kabanov, il marito di Katia; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta Marfa Ignatěvna Kabanová, la cinica suocera di Katia. Il Coro del Teatro Regio è istruito da Claudio Fenoglio.
In
Kát’Kabanová (di cui si sono viste belle edizioni al Massimo Bellini di
Catania, a Firenze, a La Fenice in trasferta al Tronchetto ed alla Scala)
siamo, a pochi anni dalla fine della Grande Guerra, in un mondo dove non c’è
più spazio per le illusioni. Kát’ Kabanová è la più fragile di tutte le eroine
di Janáček La vicenda è tratta da un romanzo, e da un dramma, di successo dello
scrittore russo Alexander Ostrovky. In un piccolo centro bigotto, dove domina
la suocera Kabanicha (intenta, tra un paternostro e l’altro, in giochi sadomaso
con il mercante Dikoj), Kát’ Kabanová ha un marito imbelle e forse impotente,
Tichon, ed è amata in segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del
villaggio, la sua migliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione
amorosa -sessuale fresca e piena con il giovane professore di chimica
Kudrjásch. Durante un viaggio d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát la chiave
del luogo dove si incontra con Kudrjásch. Non sapremo mai se il rapporto tra
Kát’a e Boris va al di là del platonico. Il rimorso, però, è tale che al
ritorno di Tichon, e nel corso di un uragano, Kát si confessa adultera. Trova
sollievo solo gettandosi nel Volga, mentre Kabanicha ringrazia i presenti per
la collaborazione data del risolvere il caso aperto dalla confessione della
nuora. Ed il villaggio torna alla bigotteria di sempre.
In Kát’a Kabanová, a 67 anni, Janáček dimostra una
grande capacità di sviscerare in musica l’animo umano (con una scrittura
spezzettata e continuamente ricostituita raramente superata). A Catania si è
visto, vent’anni fa, un allestimento portato dall’Opera Nazionale di Praga. La
produzione scaligera (2006) proveniva dalla De Vlaamse Opera di Anversa. La
regia è stata curata dal canadese Robert Carsen, che cura l’edizione di Torino.
La scenografia, giocata sulla predominanza dell’elemento acquatico che richiama
l’incombente presenza del fiume, è opera – come i costumi – di Patrick
Kinmonth. Sul podio, il britannico John Eliot Gardiner. Completavano il cast
tecnico le coreografie di Philippe Giraudeau. Gli interpreti: Janice Watson è
Kát’a, Vladimir Ognovenko S. P. Dikoj, Peter Straka Boris Grigorjevic, Judith
Forst Kabanicha, Guy De Mey Tichon. Uno spettacolo di grande livello.
Nei miei ricordi, il più struggente, ed il più
disperato, è Kát’Kabanová messa in scena al Tronchetto nel 2003. I 90 minuti
dei sei quadri e due intermezzi si snodavano senza interruzione in un’atmosfera
scura dominate dalle acque del Volga – una grande piscina sul boccascena.
Perfette le scene (semplici ma efficacissime) di Ralph Koltai ed i costumi di
Sue Willmington; tesissima la regia di David Pountey (la sua più riuscita dopo
quella di Inquest of Love di Jonathan Harvey che ha meritamente fatto il giro
del mondo, pur senza mai approdare in Italia). Ottimo il cast (che richiede tre
tenori di livello). Kát’a era Gwynne Geyer, che già mi incantò in Jenufa al San
Carlo; Kabanicha era Karen Armstrong, che dimostra come, scegliendo i ruoli
adatti, si può restare bravissimi (e bellissimi) con 40 anni di carriera sulle
spalle; Julia Gertseva era una sensuale Varvara. I tre tenori erano Clifton
Forbii (un Boris aitante), Peter Straka (un Kudrjásch appassionato), e
Christoph Homberger (un Tichon cappone). Ben scelti i numerosi caratteristi del
borgo selvaggio e bigotto in cui si svolge il dramma. Lothar Koenings ha
diretto un‘orchestra de La Fenice in stato di grazia.
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