mercoledì 1 febbraio 2017

Monterverdi e la politica allora e oggi in La Nuova Antologia




ANNO   15






NUOVA  ANTOLOGIA
Rivista  di  lettere,  scienze  ed  arti



Serie  trimestrale  fondata da
GIOVANNI   SPADOLINI





Ottobre-Dicembre 2016

Voi. 617°  - Fa se.  2280




















LE MONNIER - FIRENZE



La rivista è edita dalla «Fondazione Spadolini Nuova Antologia» - costituita con decreto del Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, il 23 luglio 1980, erede universale di Gio­ vanni Spadolini, fondatore e presidente a vita - al fine di «garantire attraverso la conti­ nuità della testata, senza fine di lucro, la pubblicazione della rivista Nuova Antologia, che nel suo arco di vita più che secolare riassume la nascita, l'evoluzione, le conquiste, il tra­ vaglio, le sconfitte e le riprese della nazione italiana, nel suo inscindibile nesso coi liberi ordinamenti» (ex art. 2 dello Statuto della Fondazione).

Comitato dei Garanti:
PIERLUIGI CIOCCA, CLAUDIO MAGRIS, ANTONIO PAOLUCCI

Direttore responsabile:  COSIMO CECCUTI

Comitato di reda zione:
AGLAIA PAOLETTI LANGÉ (caporedattrice), CATERINA CECCUTI,
ALESSANDRO   MONGATTI,   GABRIELE PAOLINI, GIOVANNI ZANFARINO


Fondazione Spadolini Nuova Antologia, Via Pian de' Giullari  139, 50125 Firenze



Prezzo del presente fa scicolo 16,50 - Estero 21,00 Abbonamento  2017: Italia   54,00 - Estero  64,00

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S O M M A R I O









«Quell'occhio non si poteva  dimenticare»: il Pirandello di Spadolini,
a cura di Cosimo Ceccuti......................................................................................... 5
Cosimo Ceccuti, Carlo Azeglio Ciampi: il sentiero della libertà................................... 16
Ignazio Visco, Carlo Azeglio Ciampi e la Banca d'Italia............................................... 21
Pierluigi Ciocca, Carlo Azeglio Ciampi: un profilo, da «Via Nazionale»..................... 25
La Banca d'Italia, p. 25; La presidenza del Consiglio, p. 30; Il ministero  del Tesoro, p. 33; La presidenza della Repubblica, p. 35.
Paolo Savona, Ciampi: un italiano di ispirazione risorgimentale ed europea . . ............. 37 Paolo Bagnoli, L'etica dell'azionismo................................................................................................................... 46
Stefano Folli, Ciampi, uomo dell'altra Italia................................................................... 49
Governare il vuoto, a cura di Giorgio Giovannetti......................................................... 52
Dai partiti ai partiti, di Leonardo Morlino, p. 55; Uno sguardo a ritroso, di Sandro Rogari, p. 58; Ci saranno ancora le Costituzioni?, di Enzo Cheli, p. 62; L'attivismo giudiziario come regolatore sociale, di Massimo Morisi, p. 64; Guardiamo il mondo con occhi diversi, di Giuliano Amato, p. 72.
Maurizio Molinari, Trump in America, la rivolta della tribù bianca............................. 75
Giuseppe Galasso, Karl Hillebrand, una biografia........................................................ 79
Italico Santoro, Unione Europea e Gran Bretagna dopo la Brexit................................. 83
1. Perché la Brexit?, p. 83; 2. I rapporti tra Europa e Gran Bretagna, p. 84; 3. Gli interro­ gativi: la Gran Bretagna senza l'Europa, p. 85; 4. Gli interrogativi: l'Europa senza la Gran Bretagna, p. 86; 5. Un Occidente plurale. L'incognita americana, p. 88.
Pasquale Baldocci, Le conseguenze della Brexit............................................................ 90
Antonio Zanfarino, Coscienza critica della cultura politica europea........................... 94
1. Princìpi e opere di civiltà, p. 94; 2. Cultura e ideologia, p. 96; 3. Le sfide della Comunità,
p.   97; 4. Il costituzionalismo europeo, p. 100.
Luigi Mascilli Migliorini, Napoleone, l'Elba e il Congresso di Vienna........................ 102
Gabriele Paolini, «Un cattivo vicino». Il governo toscano e Napoleone all'Elba . . .  111
Alberto Signorini, La battaglia di M artin Heidegger................................................... 129
Andrea Becherucci,  Carlo Russo, Angelo  M agliano e la rivista
«L'Europa» (1967-1974)........................................................................................ 135
1.  Carlo Russo, p. 135; 2. Angelo Magliano, p. 136; 3. La nascita della rivista, p. 138; 4. La collaborazione di Carlo Russo alla rivista, p. 140.
Ermanno Paccagnini, Andirivieni della creatività narrativa (I)............................ 145
Bargellini e Spadolini  un lungo sodalizio culturale e civile,
a cura di Cosimo Ceccuti...................................................................................... 156
Stefano Folli, Diario politico......................................................................................... 163
Simonetta Agnello Homby, Schiavitù dei personaggi  sull'autore,
intervista a cura di Caterina Ceccuti...................................................................... 181

Angelo Costa, Cuore 130 anni: una (ri)lettura.................................................................................. 188
Perché Cuore, p. 188; I compagni di Enrico: la lezione di quei ritratti per gli scolari di oggi,
p. 195, Copre tutto un tricolore. Tra Cavour, Mazzini, Garibaldi: gli eroi della nuova Italia,
p. 202; I maestri, la scuola ed i genitori di quel tempo, p. 206; Note conclusive a margine della rilettura, p. 21O.
Giuseppe Pennisi, M onteverdi e la politica  allora ed oggi......................................... 215
Premessa, p. 215; Il compositore che visse due volte, p. 216; L'incoronazione di Poppea,
p. 218; Il ritorno di Ulisse in patria , p. 224; La favola  di Orfeo, p. 228.
Giancarlo Tartaglia, L'Occidente, gli altri, il mondo che verrà...................................... 231
Mario Pacelli, La principessa  e il lupo......................................................................... 236
Paolo Bonetti, Il filo rosso della filoso fia  italiana....................................................... 244
Le molte strade della filosofia cristiana, p. 248; Il «problema» e lo «Scandalo» Croce, p. 252.
Cosimo Ceccuti, Gian Luigi Rondi............................................................................... 256
Maurizio Naldini, Una compagna di viaggio, la paura.............................................. 258
Carlo Cesare Montani, Ernst Nolte............................................................................... 266
Leandro Piantini, Il primo uomo di Albert Camus...................................................... 270
Fabrizio Corrado - Paolo San Martino, Il ritratto di Girolamo Benivieni di Giovanni Bastianini: una burla artistica internazionale
da Firenze capitale................................................................................................ 277
Marco Sagrestani, Le elezioni del marzo 1867 in Toscana e la fine
del secondo governo Ricasoli................................................................................ 285
Carlo Cesare Montani, Francesco Giuseppe................................................................ 299
Sandro Rogari, Boselli e Cadorna. Dalla Strafexpedition a Caporetto..................... 306
Cosimo Ceccuti, Carlo Lorenzini patriota  del Risorgimento...................................... 318
Album pirandelliano....................................................................................................... 325



RECENSIONI   .  . .  . .  . . . . . . . . . . . . . ....................................................................................... 367
Gianni Silei, Un banco di prova. La legi.slazione sul Vajont dalle carte di Giovanni Pieraccini (1963-1964), di Pier Luigi Ballini, p. 367; Lessico crociano. Un breviario filosofico-politico per il futuro, di Fulvio Janovitz, p. 371; Guglielmo Adilardi, M emorie di Giuseppe M azzoni (1808-1880), Voi. II, L'uomo, il politico, il massone (1859-1880), di Sergio Goretti, p. 372; Renzo Ricchi, Nella pena del tempo, di Anna T. Ossani, p. 376; Italico Santoro, Verso il di­ sordine globale? L'Occidente, gli altri e il mondo che verrà, di Massimo Panebianco, p. 381; Luigi Ferrajoli, La democrazia costituzionale, di Claudio Giulio Anta, p, 382; Vanna Loiudice, Cosce dure, di Leandro Piantini, p. 384; Patrizia Gabrielli, Il primo voto: elettrici ed elette, di Chiara Donati, p. 385; Grazia Gobbi Sica, In loving memory. Il cimitero degli Allori di Firenze, di Laura Desideri, p. 387; Bruno Venticonti, Col sole in fronte,  di Diego Salvadori, p. 390.



L'avvisatore librario, di Aglaia Paoletti Langé............................................................. 392
Indice dell'annata 2016................................................................................................. 396



MONTEVERDI E LA POLITICA ALLORA ED OGGI







Premessa

In Italia solo ilTeatro La Fenice (che metterà in scena la «Trilogia mon­ teverdiana» in giugno) sembra essersi ricordato che nel 2017 ricorrono i 450 dalla nascita del compositore cremonese, Claudio Monteverdi. Sarà, però, un'iniziativa di grande rilievo. La direzione musicale è affidata a Sir John Eliot Gardiner, uno dei massimi interpreti contemporanei della musi­ ca monteverdiana, che guiderà la Monteverdi Choir and Orchestras e un cast di giovani interpreti selezionati dal maestro inglese in tre diversi Paesi: Inghilterra, Francia e Italia. La regia sarà affidata allo stesso maestro Gar­ diner e a Elsa Rooke. La trilogia, presentata a Venezia in anteprima asso­ luta, sarà allestita successivamente in diverse città europee e americane, e nei Festival di Lucerna e di Berlino.
Qualcosa di analogo avvenne nel 2007 quando la ricorrenza era per i 400 anni dalla prima rappresentazione de L'Orfeo, favola in musica su li­ bretto di Alessandro Striggio figlio. L'opera, una delle più antiche rimaste­ ci complete di quel periodo, ebbe grande successo e venne rapidamente ripresa a Milano, a Cremona nonché probabilmente anche a Torino ed a Roma. Nel 2007, varie produzioni de L'Orfeo vennero presentate, o ripro­ poste, in quasi tutti i maggiori teatri e festival europei ed americani, ma in Italia la ricorrenza passò quasi sotto silenzio. Nel Paese dove l'opera ebbe i natali, due sole iniziative: a) una versione di Concerto Italiano, guidato da Rinaldo Alessandrini, lanciata a Roma (in forma di concerto) e in tournée per Belgio, Francia e Spagna prima di approdare di nuovo nel nostro Paese (alla Settimana Chigiana a Siena) e b) una realizzazione scenica a Cremona per un'unica sera, il 12 maggio, con l'Orchestra Barocca di Venezia diretta da Andrea Marcon e la regia di Andrea Cigni.


È universalmente riconosciuto che i lavori di Monteverdi hanno segna­ to il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca, per certi aspetti (per esempio, l'uso del recitativo) anticipando di secoli la musica tardottocentesca e della prima metà del Novecento. Si è spesso detto che Monteverdi presenta oggi enormi difficoltà d'esecuzione a ragione sia degli strumenti utilizzati alla sua epoca (per esempio, non è semplice trovare il mix adeguato per il basso continuo) sia per le voci (molti ruoli maschili erano interpretati da castrati, una categoria che più non esiste) . Sono diffi­ coltà facilmente superabili: la tecnologia consente di riprodurre suoni mol­ to vicini a quelli degli strumenti d'epoca ed i controtenori hanno una voca­ lità affine a quella dei castrati.
Il mio sospetto è un altro. Se lasciamo da parte l'enorme produzione sacra e madrigalistica (che è giunta a noi quasi integralmente), le tre opere teatrali arrivate ai nostri giorni (L'Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria , e, soprattutto, L'incoronazione di Poppea ) offrono un specchio della politica italiana di allora tutt'altro che esaltante e danno lo spunto a riferimenti anche alla società ed alla politica di oggi.
In questo articolo farò un breve cenno alla vita di Claudio Monteverdi e tratterò delle sue opere in ordine inverso dalla loro creazione. L'incoro­ nazione di Poppea , la più apertamente «politica» verrà trattata in maniera maggiormente approfondita delle altre due. Non sfiorerò la musica sacra, che richiede un discorso a parte ed essenzialmente di filologia musicale per sottolineare l'innovazione che Monteverdi riuscì a portare nell'Italia della Controriforma.


Il compositore  che visse due volte

Mutuando da un noto film di Alfred Hitchcock, Monteverdi può essere visto come il compositore che visse due volte. Enfant prodige (era celebre organista a Cremona già all'età di dieci anni), a soli quindici anni nel 1582, pubblicò la prima raccolta vocale, seguita due anni dopo dal primo dei nove libri di madrigali. La sua produzione attirò l'attenzione della Corte di Mantova, governata dai Gonzaga. Entrò al servizio della Corte nel 1590 come «gambista» (termine che oggi vorrebbe dire suonatore di strumenti ad arco), facendo una rapida carriera, tanto che venne scelto per accompa­ gnare il Duca in Ungheria e nelle Fiandre dove ebbe contatti con musica e musicisti di stile francese. Nel 1599, sposò a Mantova la cantante (anche lei al servizio dei Gonzaga) Claudia Cattaneo. Due anni dopo venne nomi­ nato Maestro della musica della casa ducale, titolo con funzioni di grande


rilievo che non gli rese amici colleghi musicisti più anziani che si ritennero da lui «scavalcati». Compose balletti (oggi perduti) ed il quinto e sesto libro dei madrigali, oggetto di discussione e polemiche per le innovazioni ivi contenute. La controversia superò i confini del Ducato. Gli esponenti della
«scuola bolognese», li considerarono «aspri et all'udito poco piacevoli». Monteverdi replicò nell'introduzione degli Scherzi musicali del 1607, con uno scritto firmato «Giulio Cesare», sul valore politico e sociale della mu­ sica, non pura «dilettazione».
La polemica venne messa a tacere dalla rappresentazione de L'Orfeo, dap­ prima presso l'Accademia degli Invaghiti e poi a Corte, e dal suo travolgente successo, anche al di fuori dei confini del Ducato. Il successo venne rattristato dalla morte della moglie. Solo e con tre figli piccoli, Monteverdi pensò di la­ sciare Mantova, dopo aver contribuito ai festeggiamenti musicali per le nozze di Francesco N Gonzaga e Margherita di Savoia. Di questa fase, molto pro­ duttiva di teatro in musica, ci è rimasto solo il «lamento» d ell'Arianna.
Ormai, però, i rapporti con la Corte dei Gonzaga erano sempre più tesi e dopo la morte del Duca Vincenzo, nel 1612, venne ordito un complotto che portò al suo licenziamento e rientro, in precarie condizioni finanziarie, a Cremona. Si aprì, quasi fortuitamente il posto di Maestro di Cappella della Basilica di San Marco a Venezia e, dato che in laguna si apprezzava l'innova­ zione musicale, Monteverdi vi venne nominato il 19 agosto l 613.
Qui, iniziò la sua seconda vita. Diede dimostrazione di grandi capacità non solo musicali ma anche organizzative. Ottenne l'autorizzazione a lavo­ rare anche per i nascenti teatri commerciali. La Corte dei Gonzaga lo invi­ a tornare a Mantova; dato che era cittadino del Ducato, vi tornò frequen­ temente ed ivi compose una serie di lavori (quasi tutti perduti). In quel periodo, lo cercò anche la Corte polacca per ingaggiarlo nel Regno.
Non sappiamo se per convinzione o per convenienza, nel 1632 prese gli ordini sacerdotali, dopo che la sua musica era stata al centro delle cele­ brazioni per la fine della peste (ed il completamento della Basilica di Santa Maria della Salute). Si intensificarono irapporti con la Corte della «catto­ licissima Vienna» dove forse portò a termine Il ritorno di Ulisse in patria il cui manoscritto è stato trovato proprio negli archivi della capitale dell'Im­ pero dove visse per un certo periodo.
Tuttavia è a Venezia che Monteverdi diede una spinta importante alla nuova opera «pubblica» autorizzata in teatri privati dal 1637. Aveva già rag­ giunto i settant'anni, in un'epoca in cui l'aspettativa di vita alla nascita si ag­ girava sui quarant'anni. Egli riprese Arianna per l'inaugurazione del Teatro San Moisè nel Carnevale 1639, e più tardi nel corso della stessa stagione produsse al Teatro San Cassiano Il ritorno di  Ulisse in patria  (esso fu poi


eseguito a Bologna e tornò a Venezia nel Carnevale 1640-41). La sua seconda opera veneziana, Le nozze d'Enea in Lavinia , per il Teatro dei SS. Giovanni e Paolo, per il Carnevale 1640, è andata perduta. La terza, ancora per ilTeatro dei SS. Giovanni e Paolo fu L'incoronazione di Poppea , per ilCarnevale 1642, uno straordinario successo. Monteverdi morì a Venezia il 29 novembre 1643, dopo una breve malattia, e fu seppellito nella Basilica di Santa Gloriosa dei Frari. Occorre sottolineare non solo che la sua musica ebbe larga diffusione nel Nord Europa anche attraverso numerose copie manoscritte e contrafacta e che la sua influenza fu determinante sia direttamente nella musica vocale dei compositori fino al volgere del secolo, sia indirettamente nella sperimentazio­ ne dei nuovi linguaggi strumentali, ispirati in particolare alla scrittura forte­ mente teatrale della «seconda prattica». Nella Venezia della Controriforma e dell'Inquisizione i teatri privati erano «condomini»  di ricchi palchettisti  ed alle cui rappresentazioni  si accedeva pagando biglietti  carissimi; in essi si potevano mostrare vita e politica quali erano senza incorrere nei rigori.
La lunga vita di Monteverdi permise al compositore di osservare gli intrighi politici rinascimentali sia alla Corte dei Gonzaga sia quelli, già di età «moderna», in corso nella  Repubblica di Venezia, dove l'Inquisizione aveva un ruolo importante ma anche le «famiglie» ed i partiti vivevano in un equilibrio sempre instabile, che gli economisti chiamerebbero «alla Nash». Ne fu anche partecipe.



L'incoronazione di Poppea

L'incoronazione di Poppea è teatro in musica con una fortissima carica politica, maggiore, per avere un'idea, di quella delle opere di Berg, Schreker e Zemlinsky, messe al bando nella Germania nazista e vietate per decenni allo stesso Metropolitan di New York. L'autore del libretto Giovanni Fran­ cesco Busenello, allievo di Paolo Sarpi (il Costantino Mortati, per intender­ ci, dell'epoca), «gran causidico» ed «avvocato eloquentissimo del Foro Ve­ neto», nonché socio dell'Accademia degli Incogniti, che nella Venezia dell'epo­ ca della Controriforma, associava scettici ed agnostici nella comune fede per l'indifferenza in materia di morale. Non erano - si badi bene - amoralisti tanto meno immoralisti: credevano molto semplicemente che la Morale (con la M maiuscola ) non fosse neanche la conclusione delle favole che si raccontano ai bambini ma proprio non esistesse in questo mondo.
Il testo di Busenello è stato tramandato, grazie a Gutenberg (altro scet­ tico) ed all'invenzione della stampa, di secolo in secolo. Dell'opera sono state rinvenute due versioni (prive di orchestrazione e con differenze signi-


ficative). Busenello ha sempre visto Roma come un non-luogo dove nessu­ no è senza peccato e tutti intrigano (e tradiscono tutti gli altri) per il pote­ re fine a se stesso - non solo Poppea, ma anche Ottavia, Ottone, Drusilla, le nutrici, i confidenti, i paggi e le donzelle in un clima di totale indifferen­ za morale. Lo stesso Seneca, all'apparenza «eroe positivo» da giustapporre agli impicci ed imbrogli della Domus Aurea, è un arrivista che cerca un appagamento postumo alla vanagloria che non riesce a soddisfare in vita. Vediamo alcuni versi: «Colui che ad altro guarda che all'interesse suo, mer­ ta esser cieco», «La legge è per chi serve», «Sarà sempre più giusto il più potente», «La forza è legge in pace e spada in guerra e bisogno non ha della ragion», «L'infamia sta gli affronti in sopportarsi I e consiste l'onor nel vendicarsi», «Del Senato e del popolo non curo». E via discorrendo.
Una visione, in breve, spietata del mondo della politica, e del mondo in generale, certamente plasmata, almeno in parte, sulla pratica forense di Busenello e sui viaggi dell'avvocato-librettista anche al di fuori dei confini della Repubblica. Che lezioni trarne? Craxi - si dice - considerava l'opera
«aperta a molte interpretazioni» (come usava dire anche Oscar Wilde). E tale è, come mostrano varie produzioni che si sono viste in questi anni.
La voluttà del potere (che si gode sopra le lenzuola) è maggiore o mi­ nore di quella del piacere (che si assapora sotto le lenzuola)? Questo è un interrogativo che ci si pone ad ogni allestimento de L'incoronazione di Poppea . Il tema pone difficoltà enormi alla messa in scena. Le difficoltà sono aggravate dal fatto che i due manoscritti esistenti sono incompleti e contraddittori (anche nell'ordine delle varie scene). Sino alla fine degli anni Settanta, si utilizzava una versione curata da Raymond Leppard, ma se ne vedevano anche altre che davano all'opera un'impronta melodram­ matica, verista e pure wagneriana. Il primo vero tentativo di produrre un'edizione, che tenendo conto di ambedue i manoscritti, riproducesse qualcosa di simile a quanto ascoltato nella seconda metà del Seicento è la registrazione in studio nel 1973-74 fatta da Nokolaus Hamoncourt con il Concertus Musicus; venne anche prodotta sulla scena a Zurigo con la regia di Jean-Pierre Ponnelle. Nelle versioni in stile Leppard, la conclusione era il coro che inneggiava a Poppea come imperatrice del mondo intero. Dal 1973, la prassi consiste nel chiudere l'opera, dopo il coro, con solo i due protagonisti in scena in un travolgente duetto sensuale.
Gran parte dei ruoli maschili sono scritti per sopranisti, spesso castra­ ti. Quindi, o abbassarli di un paio di ottave ed affidarli a baritoni o farli cantare da donne (rendendo ancora più complicati i problemi di allestimen­ to delle scene sessuali). Inoltre, l'ottuagenario Monteverdi lavorava con una squadra di collaboratori. Ad esempio, il duetto finale «Pur ti miro, pur ti


godo» è attribuito, dalla recente musicologia, a vari autori (da Benedetto Ferrari a Francesco Cavalli). Altre parti del lavoro nascono da vari elemen­ ti che facevano parte della «bottega Monteverdi», un vero e proprio labo­ ratorio in cui ilReverendo Maestro di Cappella della Basilica di San Marco innovava la musica, ed il teatro in musica, mentre faceva la fronda ai po­ tenti ed all'Inquisizione. Secondo Rinaldo Alessandrini, specialista della musica barocca, il 60°/o de L'incoronazione di Poppea è da attribuirsi a Monteverdi, il resto ai suoi colleghi. Quindi, L'incoronazione di Poppea è ilrisultato di quello che oggi si chiamerebbe un «collettivo».
Un'altra caratteristica distingue L'incoronazione di Poppea da altri lavori dell'epoca: è stata composta per un teatro commerciale. I teatri ve­ neziani erano di non più di 300 posti, erano dotati di gruppi strumentali essenziali e bastavano voci «piccole» per ottenere le sonorità volute (anche perché gli strumenti erano pochissimi).
De L'incoronazione  di Poppea ne ho viste di tutti i tipi. Da versioni bellineggianti (ove non wagnerizzanti) supercensurate quali quelle che circolavano nell'Italia degli anni Sessanta, ad allestimenti rimaneggiati ma abbastanza espliciti -fece epoca quello degli anni Settanta della Long Beach Opera (noleggiato dalla New York City Opera e dalla Washington Opera) con la regia di Frank Corsaro, il giovane (ed allora snello) Alan Titus (co­ perto solo da un cache-sexe ) e la giunonica Carol Neblett (in allusivo see­ through ) - alla «pomo opera» (la definì così uno degli economisti «verdi» italiani) messa in scena da Luc Bondy (con strumentazione elettronica  e jazz) a Bruxelles e portata in giro per mezza Europa nella prima metà degli anni Novanta (in Italia si è vista a Firenze) ai 210 minuti di eros diffuso (frammisto a politica)  creati da Klaus Michael  Griiber e Mare Minkowski a Aix-en-Provence nel  1999 e visti all'Opera di Vienna ed in altri teatri.
Nel 2000, un allestimento di Luca Ronconi al Teatro alla Pergola nel quadro del Maggio Musicale Fiorentino, cercava di raggiungere l'equilibrio tra quanto avviene sopra e sotto le lenzuola. Il cast era quasi interamente italiano. E giovane. Ciò permetteva una dizione perfetta da cogliere tutti gli aspetti e tutte le sottigliezze del «recitar cantando». L'orchestra ridotta a pochi elementi (come nel Seicento) e guidata dalla bacchetta, a volte dai tempi un po' lenti, di Ivor Bolton. Seguendo (quasi) integralmente (per circa quattro ore di spettacolo, intervalli compresi) l'edizione critica di Alan Curtis, molto ruoli maschili erano affidati a soprani e mezzo-soprani, vin­ colando, quindi, le parti più schiettamente erotico-sessuali. L'enfasi era, quindi, sull'intrigo politico (ed industrial-finanziario), in un quadro di to­ tale indifferenza morale: in una Roma tra ruderi e macchine da presa (come in una Cinecittà anni Cinquanta), tutti inseguono il potere con le armi che


ciascuno ha: per molti la principale attrazione è il sesso, per alcuni (Seneca) il finto moralismo professorale.
Nel febbraio 2005, nell'elegante Teatro Ponchielli di Cremona, ha pre­ so il via una coproduzione dei Teatri del Circuito Lirico Lombardo nonché di quelli di Ferrara e Ravenna. Coinvolgeva tanti teatri proprio per ammor­ tizzare i costi. La cura complessiva era affidata a Ottavio Dantone ed alla sua Accademia Bizantina. La regia di Thomas Moschopoulos sottolineava come lo sguardo del librettista e del compositore si rivelasse ironico e par­ tecipe allo stesso tempo, riuscendo a mettere in scena con arte, sensibilità e grande conoscenza della natura umana, l'armonia stessa dell'ambiguità. Una curiosità: nel 1995, Anna Caterina Antonacci era stata, proprio a Cre­ mona, una travolgente e sensuale Poppea; nel 2005 era Nerone.
Interessante L'incoronazione di Poppea salpata da Bologna per girare i teatri emiliani ed arrivare a Wiesbaden e tornata una dozzina di anni fa nella città felsinea. L'allestimento di Graham Vick e Paul Brown (ripreso da Fran­ co Ripa di Meana) ci porta in una Roma intarsiata su legni rosa scuro e dove dominano il rosso ed il nero (ma su cui si stagliano alcuni costumi bianchis­ simi). È un'azione tersa, incalzante in cui i tre atti sono tagliati a cannocchia­ le (90 minuti il primo, 70 il secondo, 50 il terzo). La chiave interpretativa è ancora una volta politica, ma anche trasgressiva, nel crescendo dalla prima scena di sesso tra Nerone e Poppea al distacco asettico con cui viene cantato, mentre scende il sipario, quel «Pur ti miro, pur ti godo I pur ti stringo pur t'annodo» che si pone tra i duetti più erotici del teatro d'opera. La carica più innovativa era comunque nella trascrizione musicale; l'orchestrazione di Rinaldo Alessandrini (anche maestro concertatore) seguiva quasi integral­ mente l'edizione di Venezia con un organico essenziale e quanto più simile a quelli del Seicento: quintetto d'archi, due tiorbe, liuto e chitarra barocca (in alternanza), un'arpa piccola e scura, due clavicembali e due trombe.
L'incoronazione di Poppea coprodotta con l'Opéra di Parigi, è stata in scena alla Scala nel 2014 e nel 2016 con Rinaldo Alessandrini sul podio e Robert Wilson come regista. Il progetto è stato inaugurato da L'Orfeo nel 2009 ed è proseguito con Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011. Per la Scala si è trattato di un viaggio alle radici del teatro musicale e alla riscoperta di un musicista immenso il cui teatro conserva un'efficacia che incanta e seduce anche gli ascoltatori di oggi. A Parigi, la trilogia - inclusa L'incoronazione di Poppea - è stata presentata alla Salle Garnier, ossia all'Opéra costruita nel secondo Impero. È ben troppo grande, ma ha comunque circa 600 posti meno del Teatro alla Scala ed ha un'acustica meno dispersiva. A Aix-en­ Provence per Monteverdi e Cavalli si opta per l'antico teatro cittadino Jeu de Paume che con i suoi 400 posti ha le dimensioni ideali. A numerosi spettato-


ri e critici, l'esecuzione è parsa noiosa. Parte della responsabilità può essere da scelte di Alessandrini, ma parte di avere eseguito L'incoronazione di Poppea , in un'edizione critica (non i vari adattamenti al melodramma, al verismo, al wagnerismo) nella grande sala del Piermarini dove voci e suoni si perdevano e con la regia simmetrica e stilizzata di Wilson, il quale colloca la vicenda in una scena continuamente cangiante, dove il restringersi e l'al­ largarsi degli spazi segue la stringente concatenazione degli eventi. Il prologo si svolge in un atrium romano il cui muro è stato ricoperto dalle radici di un fico, simbolo di una natura che insidia le costruzioni della civiltà (il riferimen­ to è anche alle radici del fico che coprono il muro del tempio di Angkor, in Cambogia, delle quali si dice che destina l'amore in chi le tocca). Il muro torna, libero e intatto, nella casa di Poppea: ma all'infittirsi dell'intrico delle passioni corrisponderà il moltiplicarsi degli alberi che via via sostituiranno le colonne come nella Betsabea al bagno del Veronese. Il palazzo di Nerone è uno spazio aperto delimitato da colonne in cui l'irrequietezza dei sentimenti è rappresentata da un blocco di pietra incrinato. Si torna a spazi delimitati per la casa di Seneca, un atrio da cui s'intravede un albero le cui radici sono state strappate dal suolo. L'obelisco oggi sito in Piazza San Pietro (un tempo circo di Nerone) campeggia nella scena successiva, che si svolge in una stra­ da romana. Vediamo poi anche un enorme capitello proveniente dal foro romano. Lo spettacolo si conclude in una stilizzazione astratta della Domus Aurea. Ammantando le scene in luci dai sovrannaturali colori pastello Wilson ci ricorda che L'incoronazione di Poppea è un racconto che attraversa gli istinti peggiori dell'uomo ma si conclude con il trionfo di Amore.
La versione più politica, e più sessualmente esplicita è probabilmente quella che ha debuttato a Oslo nel 2011 con la regia di Ole Anders Tandberg all'Opera di Oslo (scene di Erlend Bikeland, costumi di Mario Geber). Non c'è nulla del finto colossal hollywoodiano che ha caratterizzato messe in scena anche recenti in Italia. Monteverdi e il suo giovane librettista guar­ davano alla corruzione nella metà del Seicento come una vicenda di potere, sesso e sangue (a sfondo morale) ma non troppo diversa di un film di Kim Ki-duk. L'intreccio si svolge ai tempi d'oggi in costumi moderni. Rievoca il detto di un politico di fama italiano: «la politica è passione, sangue e sterco». Unico elemento scenico: una piattaforma inclinata con al centro un pozzo rotondo dove fare defluire il sangue. Poppea (Birgitte Christensen) è asse­ tata più di potere che di sesso; la asseconda la nutrice Arnalta (Emiliano Gonzalez-Toro). Poco importa che Nerone (il controtenore Jacek Laszczkowski) è bisessuale e ha un rapporto anale con Lucano (il tenore Magnus Staveland) quasi sul cadavere di Seneca (il basso Giovanni Battista Parodi) che è stato fatto suicidare per non ostacolare l'ascesa al trono di


Poppea. Vengono trucidati anche il marito di Poppea (un giovane e splen­ dido controtenore britannico, Tim Mead) e la moglie dell'Imperatore (Pa­ tricia Bardon). Su questo massacro per il potere veglia Amore (Amelie Aldenheim). Il lascivo duetto finale viene cantato in un lago di sangue. Il direttore musicale, l'italiano Alessandro De Marchi (raramente chiamato dalle nostre fondazioni liriche) riapre tutti i tagli «di tradizione». Per oltre tre ore di musica (senza contare gli intervalli) si resta inchiodati. L'allesti­ mento è stato visto e ascoltato dal vivo in vari teatri europei (tra cui l'English National Opera, l'Opéra National di Lione e il nuovo teatro dell'Opera di Digione). Nessuna fondazione italiana lo ha accolto. Si può ascoltare e vedere in un DVD della EuroArts.
La carica innovativa, e dissacrante, è nella musica almeno tanto quan­ to nel libretto. In L'incoronazione di Poppea , così come nel precedente Il ritorno d'U lisse in patria, Monteverdi riduce l'intervento degli strumenti alle sole parte autonome, «ritornelli» e «sinfonie», lasciando pochissimo spazio ai concertati che proprio nella sua ultima opera scompaiono quasi del tutto. D'altronde, la forma vocale è libera e una forte presenza strumen­ tale la avrebbe forzata in modelli ritmici, offuscando l'intenzione originaria della partitura monteverdiana. Nel volgere di pochi decenni, la tendenza alle «forme chiuse» renderà di nuovo possibile il connubio tra voce e mu­ sica. Tra gli strumenti prevalgono gli archi di tipo più moderno (per l'epo­ ca) con i fiati impiegati a scene di particolare significato (come il coro «A te Sovrana Augusta») utilizzato, sino a circa cinquanta anni fa, come con­ clusione dell'opera. Altro punto fondamentale, il «basso continuo» è com­ posto di diversi strumenti per sottolineare, con una grande varietà di timbri, la caratterizzazione dei vari effetti drammatici.
Saliente è la prevalenza del recitativo che, a volte, diventa un arioso come in quello di Ottone «I miei sùbiti sdegni» in cui il desiderio di vendet­ ta si scioglie in «Amerò senza speme» oppure il recitativo di Seneca «Ami­ ci è giunta l'ora» ed i due monologhi di Ottavia «Disprezzata Regina» ed
«Addio Roma». La libertà dell'espressione vocale prorompe nella scena terza del primo atto, la prima scena erotica tra Nerone e Poppea: inizia con un arioso di Nerone «In un sospir» per scivolare nel duetto tra i due aman­ ti «Signor sempre mi vedi/ anzi non mi vedi» e proseguire nella passacaglia di Nerone «Adorati mei rai» e concludersi in un nuovo duetto al termine della scena «A Dio, Nerone, a Dio/A Dio, Poppea, ben mio».
Le arie e gli ariosi sono spesso inquadrati da ritornelli e sinfonie stru­ mentali di tempo ternario. L'aria vive la sua stagione migliore, in cui la me­ lodia, non legata a schemi formali, può muoversi con notevole libertà, alter­ nando ritmi, introducendo pezzi di recitativo e o anche variazioni strofiche.


Infine, in un teatro in musica essenzialmente drammatico di ascesa al potere con intrighi di ogni genere, non mancano momenti idilliaci (qua­ le l'eros fresco tra la Damigella ed il Valletto, quasi a contrastare quello cinico e maturo tra Nerone e Poppea) personaggi apertamente comici, quali principalmente la nutrice di Poppea, Arnalta (di solito cantata da un bari-tenore od anche da un basso) con la sua aria «Tutto l'oro del mondo io pagherei» in cui ironia e comicità toccano ilmassimo del cinismo.
La strumentazione (quale si è potuta ricostruire) de L'incoronazione di Poppea, la sua libertà da forme e numeri, l'intervento di parti comiche accentuano la vis politica del lavoro collocando l'intrigo in un mondo «nor­ male» in cui l'eros non è solamente lussuria ma anche deliziosa scoperta ed in cui caratterizzazioni umoristiche o ironiche presentano un quadro spie­ tato della società senza differenze di ceti o posizione.


Il ritorno di Ulisse in patria

A differenza de L'incoronazione di Poppea (di cui come si è detto sono state trovate due differenti versioni), de Il ritorno di Ulisse in patria esiste un unico testo, rinvenuto nella biblioteca di Vienna nel 1881, senza una vera e propria partitura orchestrale ma unicamente l'accompagnamento del basso continuo. René Jacobs ha scritto che «preparare una realizzazione de Il ritorno di Ulisse in patria è un'impresa che pretende il coraggio di pren­ dere decine di decisioni avendo come unica guida che si è stabilito di farlo prima ancora di cominciare». Numerosi musicisti di rango si sono cimen­ tati a fornire un'orchestrazione a Il ritorno di Ulisse in patria , tra gli italia­ ni Gian Francesco Malipiero e Luigi Dallapiccola. Tra gli stranieri, Nicolaus Hamoncourt, Raymond Leppard, René Jacobs, Alan Curtis, Gabriel Garri­ do e lo stesso Hans Wemer Henze. Se Dallapiccola aggiorna la partitura con qualche punta di dodecafonia, Henze la asciuga. In pratica, adesso la versione di Hamoncourt è quella «di riferimento» in quanto più frequente­ mente utilizzata in rappresentazioni sceniche e concerti. Anche gli aspetti vocali sono incerti: per ilpersonaggio di Ulisse per anni sono stati impiega­ ti indifferentemente un tenore o un baritono e per quello di Penelope un soprano o un mezzo soprano; la prassi attuale è di utilizzare un baritono ed un mezzo soprano.
Queste sono alcune ragioni per cui le esecuzioni dell'opera sono relati­ vamente rare. Io stesso gustai la «prima» americana a Washington nel 1974, la produzione di Luca Ronconi al Maggio Musicale 1999, e ben tre volte (due a Aix-en-Provence nel 2000 e nel 2002 ed una a Ferrara nel 2005) la versio-


ne di Adrian Noble, inizialmente pensata per il festival provenzale (contro l'opinione del sovrintendente, Stéphane Lissner, ilquale prevedeva un fiasco); nell'arco di cinque anni si è vista in tutto il mondo (circa trecento repliche). Come pochi anni dopo per L'incoronazione di Poppea , il «reverendo Monteverdi» aveva come librettista un socio dell'Accademia degli Incogni­ ti, Giacomo Badoer, scettico come Busenello, ma, in aggiunta, libertino come Giacomo Casanova. Badoer non era ancora quarantenne, Montever­ di si avvicinava ai settantacinque anni. In quell'epoca il mito di Ulisse ri­ empiva il teatro rinascimentale e barocco, con tutto il suo corredo di sirene, circi, giganti, colonne d'Ercole e quant'altro. Il libretto di Badoer e la mu­ sica di Monteverdi producono una vicenda scarna, unicamente «il ritorno in patria» con pochi interventi di dei e semidei tanto che l'«humana fragi­
litas» domina il consueto prologo nell'Olimpo.
Il protagonista - ha scritto acutamente Sandro Cappelletto - «è Ulisse uomo, politico determinato, belligerante astuto, pater fa milias, camuffato da mendico e da pellegrino venuto a riconquistare terreni diritti». Prima di entrare nel tema dei nessi tra Il ritorno di Ulisse in patria e la politica, può essere utile ricordare che nel 1998 a Villa Medici (sede romana nell'Acca­ demia di Francia ) sono stati presentati i lavori di cinque giovani composi­ tori italiani tutti ispirati, in varia misura, a Il ritorno di Ulisse in patria visto come prototipo dell'uomo europeo sempre proteso alla ricerca di nuovi percorsi. Ulisse, però, è solo sullo sfondo delle creazioni - quanto meno delle prime tre e della quinta. La sofferenza, la costanza e la pazienza di Penelope (non la sua astuzia) sembrano interessare i compositori meno dei percorsi di Ulisse.
Ma andiamo al nodo. L'Ulisse di Monteverdi e Badoer è un uomo che vuole riconquistare la propria donna ed i propri territori, minacciati dai Proci. È un uomo tenero nel riconoscimento del proprio figlio (si pensi al duetto con Telemaco), astutissimo nell'entrare nella reggia ed anche nel riconoscimento finale da parte di Penelope e severo nei confronti di Iro, un vero e proprio personaggio comico dalle dimensioni shakespeariane, pron­ to a mettersi al servizio dei potenti di turno al fine di ottenerne vantaggi personale. È un Ulisse politico ma anche «umano troppo umano» per para­ frasare Friedrich Nietzsche, molto differente da quello che ilnascente teatro barocco presentava nei teatri sia principeschi sia privati dell'epoca.
Nell'opera si confrontano quattro mondi: colui che fa politica nell'interes­ se comune del Paese, le persone «per bene» come Penelope, Telemaco, Ericlea, i Proci, e numerose gradazioni, da Melanto a Iro, di varia umanità  che si adatta al sistema o lo utilizza per i propri anche piccoli vantaggi. Ulisse è un laico che ha mandato al diavolo Nettuno pur di tornare a Itaca (ma ha sup-


porto indiretto di Atene) e con un sotterfugio riesce a penetrare nella reggia e sfidare i Proci (incapaci di tendere il suo arco) e a farsi riconoscere da Pene­ lope sino a riconquistare il proprio regno ed a riportarvi pace e giustizia. Una visione politica quasi illuministica più che rinascimentale o barocca.
Ancora più interessante è la lingua di Badoer messa in musica da Mon­ terverdi: ilprologo nel mondo degli dei, è rigorosamente in versi, ma i tre atti utilizzano una lingua quasi popolaresca che rasenta la prosa. Eumene dice a Iro «Corri, corri a mangiar I corri corri a crepar». Penelope a Melan­ to che vuole indurla a tradire Ulisse e sposare uno dei Proci «Pene e morte e dolore I dell'amoroso ciel splendori fissi I san cangiar in Giason anche gli Ulissi». Ulisse dice a Eumete: «Non vive l'eterna arroganza in terra». Ed il comico Iro è balbuziente. È un «recitar cantando» che nulla ha della Came­ rata Bardi o di Metastasio, ma sembra precorrere alcune opere chit chat (di conversazione) di Richard Strauss e quelle in prosa di Le6s Janacek e di Benjamin Britten. Una modernità che verrà ripresa ed estesa ne L'incoro­ nazione di Poppea ma successivamente perduta, sino al Novecento, duran­ te il barocco, il classicismo, il melodramma e via discorrendo.
La parte vocale (delle differenti versioni della partitura si è detto ma la vocalità ed il basso continuo del manoscritto scoperto a Vienna nel 1881 sono certamente integrali) non ha nulla a che vedere con il barocco con i suoi sviluppi successivi. È articolata in recitativi ed ariosi. L'aspetto centrale dell'opera non è ilvirtuosismo del cantante e dei suoi vocalizzi, ma iltesto e l'azione drammatica. Quindi, ilquadro politico risulta ancora più chiaro. Significativo, l'inizio del primo atto: il monologo di Penelope «Di misera Regina non terminati mai i dolenti affanni» che serve non solo a raccontare l'antefatto ma nel quale la protagonista riversa tutta la ridda contraddizione dei suoi sentimenti con grande efficace espressiva, inflessio­ ni patetiche, rassegnazione, rimpianto sino al «torna, Ulisse, torna!». Un lamento ricco di pathos a cui corrisponde circa al termine dell'opera quel­ lo, quasi spregevole, di Iro che perduti i vecchi protettori ne cerca nuovi.
Veniamo ora brevemente alle esecuzioni da me viste ed ascoltate. In primo luogo, la prima rappresentazione negli Stati Uniti (dove allora vive­ vo) alla Washington Opera nel 1974 con Richard Stillwel e Frederica von Stade (sposi nella vita) nel ruolo di protagonisti e, se ben ricordo, Julius Rudel sul podio e scene, costumi e regia di Peter Hall. Uno spettacolo che fece epoca e con qualche adattamento ripreso alla New York City Opera ed anche al Festival di Glyndeboume. Straordinario successo ma, con gli occhi di oggi, interpretato quasi come precursore del melodramma (specialmen­ te nello spettacolare duetto finale «Sospirato mio sole! I Rinnovata mia luce» sotto un cielo blu pieno di stelle).


In secondo luogo, nel 1999, la messa in scena di Luca Ronconi con la sua consueta squadra per scene e costumi (Margherita Palli e Vera Marzot). Concertava uno specialista del barocco come Trevor Pinnock, Paul Nilon e Patricia Bardon nei ruoli principali. A mio giudizio, nonostante l'alto livel­ lo dell'esecuzione, il limite era il barocco straripante di scene, costumi e regia, anche - come ho cercato di illustrare - Il ritorno di Ulisse in patria sia un unicum che poco ha a che fare con il barocco.
In terzo luogo, la versione concepita ad Aix-en-Provence e che ha viag­ giato per tutto il mondo. A metà degli anni Novanta, il Festival di Aix-en­ Provence stava per chiudere i battenti a ragione di una crisi finanziaria senza precedenti. Gli enti locali ed alcune grandi imprese francesi e giapponesi chiamarono una nuova squadra a rialzarne  le sorti (Stéphane Lissner, Eva Wagner e Peter Brook) in quanto ilteam aveva già dato una svolta al parigi­ no Chatelet. Una linea strategica seguita da allora fu quella di realizzare solo co-produzioni al fine di contenere i costi. Il ritorno di Ulisse in patria è stata l'unica operazione su cui, sulla carta, nessun co-produttore volle scommette­ re il becco d'un quattrino per l'idea di fondo di Lissner e soci: affidarla inte­ ramente a giovani borsisti dell'Accadémie Européenne de Musique, ed a giovani che fossero non solo bravi vocalmente ma anche ottimi attori e di aspetto prestante. A Adrian Noble venne detto di mettere in scena uno spet­ tacolo economicissimo: sia Noble sia Sir William Christie (direttore d'orche­ stra) rinunciarono al cachet; i giovani cantanti vennero pagati al minimo salariale. Ero alla «prima» il 9 luglio del 2000; dopo 2 ore e 40 di musica (e 20 minuti di intervallo), ci furono 25 minuti di applausi ininterrotti.
Noble ha fornito un'ulteriore prova che le grandi idee registiche si rea­ lizzano anche con pochi soldi. La scena è essenziale: una distesa di sabbia, due giare, un'altalena (da dove arriva Telemaco riportato da Minerva a Itaca ). Siamo in un mediterraneo solare; i costumi sono tuniche in cui do­ mina l'ocra mediorientale (ed ovviamente l'«humana fragilitas» non porta neanche le mutande). La lettura è shakespeariana: una visione compatta della vicenda omerica in cui ilfaceto si altera al serio, il sarcastico al senti­ mentale e l'arco d'Ulisse fa giustizia di intrighi ed imbrogli. Rividi l'allesti­ mento di Noble nel 2002 (sempre a Aix): con il tempo si era ulteriormente affinato, specialmente negli aspetti più delicatamente dolci dell'interazione tra Ulisse e Penelope e nel rapporto filiale tra Telemaco e Ulisse, nonché nel quadro politico e sociale. Colpiva la straordinaria modernità dello spetta­ colo, il suo realismo drammatico così prossimo al nostro gusto in questo inizio del XXI secolo.
Veniamo alla parte musicale. Quel che è rimasto dell'orchestrazione è - come si è detto -poco o nulla. Ciò spiega non solo le fioriture di Hamoncourt


(ed i languori quasi tardoromantici della lettura di Julius Rudel a New York) ma anche e soprattutto che se ne siano affidate riscritture a Dallapicolla (Fi­ renze, 1942) e a Hans Werner Henze (Salisburgo, 1985). A Ferrara, Ottavio Dantone (come Sir William Christie) opera sul testo originale integrale (di­ videndo il lavoro in due parti, invece che in tre atti con prologo), mantenen­ do rigorosamente strumenti antichi. Ne risulta una lettura avvincente per la attualità del suono, sia nell'accompagnare arie, duetti e recitativi sia soprat­ tutto nelle «sinfonie» e nei «ritornelli» che danno corpo all'evolversi delle situazioni drammatiche. Al tempo stesso più tersa e più sensuale.



La favola di Orfeo

Il mito di Orfeo è forse uno dei temi più trattati dall'opera lirica, a volte anche in chiave apertamente politica: si pensi a Orphée aux Enfers  di Of­ fenbach, satira acuta della Francia del Secondo Impero o a L'Orfeide di Gian Francesco Malipiero mesta riflessione sull'Europa degli anni Venti. In Mon­ teverdi,  La favola   di  Orfeo è quella  meno apertamente  politica  delle tre opere a noi rimaste; anche in essa, però, l'attenzione alla politica non manca. Il 24 febbraio 1607 ha avuto la prima esecuzione, nel Salone degli spec­
chi del Palazzo Ducale di Mantova. È la prima opera lirica rimasta integra e simile a quanto si scrive e si compone anche adesso. C'erano state esperien­ ze precedenti  (di pochi anni) principalmente  per iniziativa  della Camerata Fiorentina, ma - come documenta Anna Maria Monterosso-Vacchelli  in un saggio fondamentale sulla nascita dell'opera come genere teatrale e musica­ le - La favola  di Orfeo se ne stacca «per ricchezza  di inventiva, bellezza musicale, potenza drammatica». Nikolaus  Harnoncourt  precisa acutamente che, prima  de La favola  di Orfeo, i lavori di Emilio de' Cavalieri, Ottavio Rinuccini, Jacopo Peri, si basavano principalmente su una declamazione con accompagnamento di strumenti a corda. Con La favola  di Orfeo Montever­ di fuse il madrigale  con la danza in un nuovo stile di recitativo cantato (e drammatico); ciò aprì la strada ad un nuovo linguaggio musicale  (per l'ap­ punto quello dell'opera lirica) in cui la musica, pur seguendo il testo, lo in­ terpretava e drammatizzava. Altro aspetto di grande rilievo: con La favola di Orfeo l'orchestrazione  (fortunatamente rimastaci quasi integrale) acquista un proprio canone basato sulla differenziazione tra strumenti «fondamenta­ li» (chitarrone, arpa, liuto, cembalo)  e strumenti «ornamentali»  (principal­ mente archi e fiuti); ilcontrappunto del basso continuo collega i due univer­ si. Non solo, ma gli strumenti, e la strumentazione, danno spessore al dram­ ma e caratterizzano i personaggi: l'arpa accompagna ilpersonaggio di Orfeo;


il flauto, il liuto, il cembalo i pastori; il trombone ed altri strumenti a fiato gli dei dell'Oltretomba. Con queste, ed altre innovazioni, si aprono nuove prospettive per ilteatro in musica che, in aggiunta, esce dalle corti principe­ sche e diventa spettacolo commerciale.
La favola di Orfeo segue rigorosamente il mito, che prevede anche un lieto fine, essenziale per uno spettacolo a Corte: la trasformazione del can­ tore in costellazione.
L'intrigo politico non è nella «favola», nel mondo arcadico dei pastori, ma nell'interazione dell'Olimpo ed anche nell'Ade dove Apollo, Plutone, Proserpina ed anche personaggi che rappresentano concetti astratti come la Speranza e la Musica fanno e disfanno le regole a proprio piacimento. Non un ritratto della Corte di Mantova ma un riferimento a quanto av­ veniva. Sono intrighi rinascimentali, tra protettori e protetti, puri giochi di potere, senza una chiara finalità. Un riferimento della «politica politicante» quanto mai attuale.
Ho ricordato che in Italia nel quarto centenario della prima esecuzione de La favola di Orfeo l'iniziativa principale è stata quella del Concerto Italiano, basata su strumenti originali seicenteschi come la tiorba, l'arciliu­ to e le regale, oltre che il cembalo, l'organo ed un magnifico gruppo di fiati ed ottoni; meno smaglianti gli archi (tra cui violini piccoli alla francese) che talvolta sembravano avere difficoltà a seguire i tempi, piuttosto rapidi (ma, ritengo, giustificatamene tali), dati da Alessandrini all'esecuzione proprio al fine di non fare calare quella tensione drammatica che caratte­ rizza la scrittura di Monteverdi  rispetto a quella di suoi contemporanei come Giuseppe Romano, Emilio de' Cavalieri e Jacopo Peri. Tra le voci, spicca l'Orfeo vellutato di Furio Zanasi; dopo avere iniziato la carriera (in gran misura rivolta al repertorio antico e barocco) come basso, era un ma­ turo baritono di agilità, specialmente affascinante nel legato. Sara Mingar­ do, nel doppio ruolo di Messaggera e Speranza, è la vera deuteragonista (ancor più Anna Simboli, nel doppio ruolo di Euridice e Proserpina).
Il 24 febbraio 2007 per celebrare i 400 anni de La favola di Orfeo alla Staatsoper di Berlino è stato riproposto l'allestimento, curato da Trisha Brown e René Jacobs nel 1998 per La Monnaie di Bruxelles e ripreso successiva­ mente al Festival di Aix-en-Provence, a Bruxelles, alla Brookling Academy of Music di New York, e successivamente in vari teatri europei. L'idea di base è quella di coniugare la lettura più rigorosa della partitura (da parte di René Jacobs e del suo Complesso Vocale che suona su strumenti d'epoca) con un'interpretazione scenica utilizzando il lessico della danza americana moderna. Lo spettacolo è di squisita eleganza. L'edizione scenica dei madri­ gali affidata a Arco Renz ed un'équipe in gran parte tedesca è una dramma-


tizzazione stilizzata, in abiti moderni, ed in un contesto in cui domina il bianco ed ilnero. Tra le voci spiccava Stéphane Degout nel ruolo del prota­ gonista, che ha dato prova di virtuosismo cantando «Quei campi di Traci» steso sul palcoscenico, è diventato toccante in «Quale onor di te fia degno» ed in «Possente spirto» e leggerissimo  in quella che in nuce è la cavatina
«Rosa del Ciel». René Jacobs preferisce una direzione tersa ed essenziale che nulla concede ai barocchismi di maniera. Crea però effetti stereofonici, di­ sponendo a tratti gli strumenti in varie parti della sala. Tra gli ottoni, spic­ cano le trombe, tra gli archi la viola d'amore, tre la corde il chitarrone.
Interessante La favola di Orfeo concepita per due anniversari impor­ tanti: il 150° anniversario della firma del primo Trattato d'Amicizia e di Commercio tra Italia e Giappone e i 450 anni dalla nascita di Claudio Monteverdi. Grazie all'idea di un musicologo e direttore d'orchestra italia­ no, Aaron Carpené, e di un regista italiano, Stefano Viziali, con ilsupporto della Classica! Music and Arts Society di Tokyo e del centro di produzione musicale AGON nonché della Fondazione Italia Giappone e degli Istituti di Cultura dei due Paesi, le due ricorrenze verranno celebrate insieme con la produzione di un'opera vicina alla cultura dei due popoli. Il lavoro è basato non solo sull'opera di Monteverdi, ma anche sul mito nipponico di Izanagi e Izanami riportato nel libro dei miti giapponesi Kojiki. Quindi, la Favola di Monteverdi, viene integrata con ilteatro in musica del Sol Levan­ te. Include un nuovo finale «tragico» creato apposta per fa pan Orfeo. La casa di moda Missoni ha accettato di collaborare alla realizzazione dei co­ stumi di fa pan Orfeo. Un elemento è costituito dalla presenza di danzatori di «pizzica salentina», una delle espressioni coreografiche più autentiche della cultura popolare italiana. Le prime esecuzioni dello spettacolo non hanno avuto luogo in uno dei numerosi teatri d'opera di Tokyo ma nel cor­ tile del tempio di Tsurugaoka Hachimangu, luogo «simbolo» della cultura dei samurai nonché punto centrale dell'antica capitale del Giappone nella città odierna di Kamakura. fa pan Orfeo sarà alla Metropolitan Concert Hall di Tokyo, luogo tra i più importanti della vita teatrale giapponese e prevista nel 201 7 una tournée italiana. È presto per dire quanto «politica» sarà questa lettura nippo-italiana.

Giuseppe Pennisi

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