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CECONOMICUS
d i Giusep pe Penni
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L'a nno della deglobalizzazione
Quando, con il dovuto
distacco, gli storici economici
si occupe ranno di questi
lustri porranno probabilmente il 2017 come l'anno dell'inizio convenzionale della deglobalizzazione, ovvero del secondo periodo (il primo è stato il 1870-1910) dell'integra zione economica internazionale. Se
ne vedevano i presagi già alcuni anni fa. Ne scrissi nel 2009, quando la crisi finanzia ria
sembrava essere il motore
di una marcia indietro,
prima graduale, poi brusca, del pro cesso di integrazione economica internazionale in corso dal 1970 o giù di lì. Nel 2003, Joseph Stiglitz documentò con preveg genza, in Globalization and its discontent, che l'integrazione internazionale covava in sé i germi della scontentezza che avrebbero portato
alla sua crisi. Lo
abbiamo toccato con mano ancora prima che il 20 gennaio, Donald Trump, il cui program ma
economico è marcatamente protezionista, diventasse presi dente degli Stati Uniti. L'ac cordo di libero scambio
e sulla liberalizzazione dei movimenti
di capitale (e in parte delle per sone e delle imprese) nell'area del Pacifico, pur concluso,
non è stato ratificato e non pare abbia possibilità di esserlo.
I negoziati per un accordo analogo nell'area dell'Atlantico sono
stati effettivamente inter rotti sine die nella seconda metà del 2016.
Un'analisi di documenti tecnici sul
commercio internazionale evidenzia che è cambiata l'ela-
sticità degli scambi mondiali
di manufatti alle variazioni del Pil: dopo essere stata,
nel corso de gli anni 90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali
aumenta vano di 2,5 punti percentuali quando il Pil cresceva
di un punto percentuale), in questo primo scorcio di XXI secolo ri sulta inferiore a 2, e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tantì tecnicismi, ciò
vuol dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapida mente.
Altro indicatore di rilievo è
il
vero e proprio crollo degli investimenti diretti esteri: pur tenendo conto delle scorrerie dei fondi sovrani dei nouveaux riches dell'economia mondiale, dall'inizio del secolo il flusso
di
investimenti diretti esteri (non
in portafoglio) è quasi dimezzato rispetto all'ultimo decennio del secolo scorso.
Il Long term investment
club (Ltic), un'iniziativa nata poco più
di cinque anni fa su stimolo delle maggiori banche interna
- zionali di sviluppo (pubbliche
e private), ha dato esiti inferiori
alle attese. Non per sua colpa, ma
perché il clima è cambiato. Non ci sono dati attendibili sulle migrazioni internazionali in
rapida e convulsa
crescita;
è tuttavia chiaro che quasi tutti i
Paesi di immigrazione netta stanno adottando politiche dirette a contenere i flussi, oppure a incoraggiare solo
quelli di professionalità (tecnici,
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informatici, paramedici) di cui l'offerta è generalmente carente nel mondo
industrializzato ad alto
reddito.
Le
esperienze del passato
inse gnano che le deglobalizzazioni non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità:
la prima grande deglobalizza zione 1870-1910 si chiuse con
due colpi di pistola a Sarajevo. Il conflitto armato risultante da questa nuova deglobalizza zione è già iniziato; il terro rismo e i suoi colleghi, ormai
sparsi in tutto il mondo (anche
in Italia ) sono le avanguardie. E non ce ne accorgiamo.
Un libro recentissimo ( M igra tion and the welf are state
)
di Assaf Razin e Efraim Sadka (ambedue dell'Università di Tel Aviv) ci ricorda che la fine della precedente fase di globalizza zione nutrì il comunismo, il fascismo e due guerre mondiali. Il termine di questa seconda deglobalizzazione ci ha portato l'Isis e i movimenti populisti
nei
maggiori Paesi industrializ zati
a economia di mercato.
*Presidente della commissione
informazione del Cnel
e del comitato
scientifico del Centro studi impresa
lavoro
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