mercoledì 1 febbraio 2017

L'anno della deglobazzanione in Fomiche mensile febbraio



@
CECONOMICUS
d i Giusep pe  Penni si ':·


L'a nno della deglobalizzazione



Quando, con il dovuto distacco, gli storici economici si occupe­ ranno di questi lustri porranno probabilmente  il 2017 come l'anno dell'inizio convenzionale della deglobalizzazione, ovvero del secondo periodo (il primo è stato il  1870-1910) dell'integra­ zione economica internazionale. Se ne vedevano i presagi già alcuni anni fa. Ne scrissi nel 2009, quando la crisi finanzia­ ria sembrava essere il motore
di una marcia indietro, prima graduale, poi brusca, del pro­ cesso di integrazione economica internazionale  in corso dal 1970 o giù di lì. Nel 2003, Joseph Stiglitz documentò con preveg­ genza, in Globalization and its discontent, che l'integrazione internazionale covava in i germi della scontentezza che avrebbero portato alla sua crisi. Lo abbiamo toccato con mano ancora prima che il 20 gennaio, Donald Trump, il cui program­ ma economico è marcatamente protezionista, diventasse presi­ dente degli Stati Uniti. L'ac­ cordo di libero scambio e sulla liberalizzazione dei movimenti
di capitale (e in parte delle per­ sone e delle imprese) nell'area del Pacifico, pur concluso, non è stato ratificato e non pare abbia possibilità di esserlo.
I negoziati per un accordo analogo nell'area  dell'Atlantico sono stati effettivamente inter­ rotti sine die nella seconda metà del 2016.
Un'analisi di documenti tecnici sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l'ela-

sticità degli scambi mondiali di manufatti alle variazioni del Pil: dopo essere stata, nel corso de­ gli anni 90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumenta­ vano di 2,5 punti percentuali quando il Pil cresceva di un punto percentuale), in questo primo scorcio di XXI secolo ri­ sulta inferiore a 2, e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tantì tecnicismi, ciò vuol dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapida­ mente.
Altro indicatore di rilievo è
il vero e proprio crollo degli investimenti diretti esteri: pur tenendo conto delle scorrerie dei fondi sovrani dei nouveaux riches dell'economia mondiale, dall'inizio del secolo il flusso
di investimenti diretti esteri (non in portafoglio) è quasi dimezzato rispetto all'ultimo decennio del secolo scorso.
Il Long term investment club (Ltic), un'iniziativa nata poco più di cinque anni fa su stimolo delle maggiori banche interna - zionali di sviluppo (pubbliche
e private), ha dato esiti inferiori alle attese. Non per sua colpa, ma perché il clima è cambiato. Non ci sono dati attendibili sulle migrazioni internazionali in rapida e convulsa crescita;
è tuttavia chiaro che quasi tutti i Paesi di immigrazione netta stanno adottando politiche dirette a contenere i flussi, oppure a incoraggiare solo
quelli di professionalità (tecnici,

61

informatici, paramedici) di cui l'offerta è generalmente carente nel mondo industrializzato ad alto reddito.
Le esperienze del passato inse­ gnano che le deglobalizzazioni non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità:
la prima grande deglobalizza­ zione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Il conflitto armato risultante da questa nuova deglobalizza­ zione è già iniziato; il terro­ rismo e i suoi colleghi, ormai
sparsi in tutto il mondo  (anche in Italia )  sono le avanguardie. E non ce ne accorgiamo.
Un libro recentissimo ( M igra­ tion and the welf are state )
di Assaf Razin e Efraim Sadka (ambedue dell'Università di Tel Aviv) ci ricorda che la fine della precedente fase di globalizza­ zione nutrì il comunismo, il fascismo e due guerre mondiali. Il termine di questa seconda deglobalizzazione ci ha portato l'Isis e i movimenti populisti
nei maggiori Paesi industrializ­ zati a economia di mercato.












*Presidente della commissione informazione del Cnel
e del comitato scientifico del Centro studi impresa lavoro

Nessun commento: