Pubblicazione: martedì 21 febbraio 2017
Foto Teatro Regio di Torino
Kát’a Kabanová, prima
delle quattro opere dell’ultimo decennio di vita di Leos Janácek, è giunta
finalmente al Teatro Regio di Torino in ‘prima’ per la città,in un allestimento
(regia, scene, costumi, luci) già visto dieci anni fa alla Scala.
E’ parte di un ciclo dedicato a
Janácek-Carsen inizialmente concepito per l’Opera Vlaanderen di Anversa e Ghent
(l’opera nazionale delle Fiandre) e che da una dozzina d’anni sta facendo il
giro del mondo per il rigore e l’efficacia con cui la regia di Robert Carsen,
le scene ed i costumi di Patrik Kinmonth, le luci di Peter van Praet e la
coreografia di Philippe Giraudeau interpretano il mondo drammatico e musicale
di Janácek.
Il ciclo comprende otto delle
dieci opere del compositore moravo (ossia da Jenufa a Da una casa
di morti). Le prime due erano poco considerate dalla stesso autore. Il
Regio propone il ciclo completo, ma alcune opere del binomio Janácek- Carsen
sono state già viste in Italia ad esempio Jenufa a Palermo e Il
caso Makropulos a Venezia.
Il compositore e librettista è
ancora oggi poco noto al pubblico italiano, nonostante sia, con Richard Strauss
e Benjamin Britten, uno del maggiori autori di teatro in musica del Novecento.
Nato nella cittadina di Príbor in Moravia (dove ebbe i natali anche Sigmund
Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brno, capitale di un’area allora
parte dell’Impero Austro-Ungarico, e oggi regione meridionale della Repubblica
Ceca.
Brno è a circa metà strada tra
Vienna e Cracovia - il cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la
Grande Guerra apportò i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici.
Lì vi era il carcere dove è stato Silvio Pellico. Per decenni, Janácek fu
essenzialmente un didatta e, molto religioso, compose principalmente musica
dello spirito o ispirata a tradizioni locali.
A 50 anni circa, nel 1904 (quasi
contemporaneamente alle prime assolute di Madama Butterfly di Puccini
e di Salome di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del
maggior caffè di Brno venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenufa. Oggi la città dispone di tre teatri di cui il maggiore (1.300
posti) porta il nome del compositore.
La partitura di Jenufa
era stata respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo
nel 1916 dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenufa
diventò un successo europeo in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918
(proprio mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max
Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janácek sono state eseguite per
decenni, al di fuori della Moravia).
Janácek visse sino al 1928;
nell’ultima fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazioni ebbe
meritatissimi riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione
all’Accademia Prussiana delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola
Brno, si considerasse vicino a quella musicale russa sviluppò un linguaggio
modernissimo che, al di fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente
dopo la seconda guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras,
James Conlon e Jan Lothar-Koenig.
Nella New York degli Anni
Settanta, i lavori di Janácek trovavano casa alla New York City Opera,
considerata tra lo sperimentale e il popolare, non al Metropolitan.
La fortuna di Janácek in Italia
è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta,
ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica)
di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena.
Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in
un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea
Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un
grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali
recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi
atonale».
Negli Anni Cinquanta, Mila ha
anche detto: se Janácek fosse stato francese, oggi sarebbe importante
e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta le sue opere
vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della
Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo,
arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono
eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni
critiche .
Ci sono due
aspetti caratteristici del teatro in musica di Janácek ambedue si colgono bene
in Kát’a Kabanová e vengono messi in risalto in
questa edizione di Carsen. In primo luogo, come sottolinea il suo compatriota
Milan Kundera (che meglio di molti di noi più apprezzare l’impasto tra vocali,
consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie in
spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno,
parallelamente, “la inattesa contiguità delle emozioni” e la “polifonia delle
emozioni. In secondo luogo, una struttura musicale fondata
sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento
(nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica
dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi
momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scema .di Kát’a
Kabanová ).
Anche i tempi ed i metri si
alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei
movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che
sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica
espressionistica e stilemi della musica contemporanea , e della dodecafonia.
Marco Angius, noto principalmente come concertatore di partiture contemporanee
si è rivelato una scelta perfetta.
Le opere di Janácek sono
di solito brevi (tre atti di complessivi novanta minuti, a volte messe in scena
senza intervallo) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta
di un fattaccio di provincia .In un paesino sul Volga:l’odio di una suocera
sado-masochista e con un figlio impotente spinge al suicidio la nuora, ragazza
semplice e religiosa. Richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i
cui protagonisti siano cantanti- attori che sappiano perfettamente il moravo.
Janácek ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani
ed i tenori con un registro di centro. Nella bella edizione in scena a
Torino,
La protagonista è il soprano
slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyc
Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta
Marfa Ignatevna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a, l’ucraino Misha Didyk è
Boris. Un cast di grande rilievo. Molti applausi.
© Riproduzione Riservata. La fortuna di Janácek in Italia è stata tardiva. Se
ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette
aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di Jenufa ed
al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Non che la forte carica
innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957,
Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico
«avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di
Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss
all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale».
Negli Anni Cinquanta, Mila ha
anche detto: se Janácek fosse stato francese, oggi sarebbe importante
e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta le sue opere
vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della
Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo,
arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono
eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni
critiche .
Ci sono due
aspetti caratteristici del teatro in musica di Janácek ambedue si colgono bene
in Kát’a Kabanová e vengono messi in risalto in
questa edizione di Carsen. In primo luogo, come sottolinea il suo compatriota
Milan Kundera (che meglio di molti di noi più apprezzare l’impasto tra vocali,
consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie in
spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno,
parallelamente, “la inattesa contiguità delle emozioni” e la “polifonia delle emozioni.
In secondo luogo, una struttura musicale fondata
sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento
(nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica
dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi
momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scema .di Kát’a
Kabanová ).
Anche i tempi ed i metri si
alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei
movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che
sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica
espressionistica e stilemi della musica contemporanea , e della dodecafonia.
Marco Angius, noto principalmente come concertatore di partiture contemporanee
si è rivelato una scelta perfetta.
Le opere di Janácek sono
di solito brevi (tre atti di complessivi novanta minuti, a volte messe in scena
senza intervallo) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta
di un fattaccio di provincia .In un paesino sul Volga:l’odio di una suocera
sado-masochista e con un figlio impotente spinge al suicidio la nuora, ragazza
semplice e religiosa. Richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i
cui protagonisti siano cantanti- attori che sappiano perfettamente il moravo.
Janácek ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo
soprani ed i tenori con un registro di centro. Nella bella edizione in scena a
Torino,
La protagonista è il soprano
slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyc
Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta
Marfa Ignatevna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a, l’ucraino Misha Didyk è
Boris. Un cast di grande rilievo. Molti applausi.
© Riproduzione Riservata.