giovedì 23 febbraio 2017

Il Trovatore va in trincea in Tempi 23 febbraio



·         Spettacolo

Il Trovatore va in trincea

febbraio 23, 2017 Giuseppe Pennisi
Il 28 febbraio va in scena al Teatro dell’Opera di Roma Il Trovatore di Giuseppe Verdi



Il 28 febbraio va in scena al Teatro dell’Opera di Roma Il Trovatore di Giuseppe Verdi in un’edizione di Alex Ollé della Fura del Baus, coprodotta con l’Opéra di Parigi e la Nationale Opera di Amsterdam. C’è grande attesa non solo per la concertazione (Jader Bignanini) e le voci (Simone Piazzola, Tatania Serjan, Ekaterina Sementchuk, Fabio Sartori) ma che per l’intenzione di tenere questo allestimento, al pari delle altre due ‘opere popolari’verdiane(Rigoletto e Traviata) ‘in repertorio com alcune repliche ogni stagione. Inoltre, nell’anno del centenario della ridotta di Caporetto, Questo ‘Il Trovatore’ – ci dice Alex Ollè- è ambientato nelle trincee della prima guerra mondiale. E’ un modo ‘per superare l’inverosimiglianza’ e rendere credibile una vicenda così strada, caria di odio, confusione, pazzia devozione, sconfinato amore’.
Nel 2002 da Elijah Monshinsky per il Real di Madrid ed il Covent Garden di Londra e riproposta con successo a Houston ed in altri teatri europei ed americani (nonché disponibile in DvD). La produzione si basa , a sua volta, su una versione messa in scena, sempre da Monshinsky, nel lontano 1983 all’Opera di Sidney, ma allora passata inosservata , nonostante un cast stellare. L’idea di base è semplice: trasportare l’improbabile vicenda dal medioevo spagnolo al 1860 o giù di lì . Per il pubblico italiano, così, Manrico (in camicia rossa) è un capo garibaldino, il Conte di Luna un generale austro-ungarico, e Leonora la Contessa Livia del viscontiano “Senso”. La scena di battaglia pare riferirsi a Custoza Per un pubblico anglosassone, la memoria riporta a “Via col vento” e la battaglia potrebbe essere quella di Manassas. Per il pubblico spagnolo, l’assonanza è con una delle tante guerre carliste che insanguinarono sierras e città nel XIX secolo. La chiave di lettura risorgimentale è stata ripresa altre volte: ad esempio in regie di Paul Curan a Roma, Bologna ed Ancona. Nel 2006, regia, scene e costumi dello spettacolo presentato a Parma possono anche essere un omaggio al trentennale della morte di Luchino Visconti: evocano tanto “Senso” quanto “Il Gattopardo”.
“Il Trovatore” è la prima opera di Verdi che non nasce in seguito ad una commissione di un teatro o di impresario ma dalla sua volontà di tradurre per il teatro in musica il romanzo di Gutierrez (autore che ispirò anche “Simon Boccanegra”); lo sottolinea acutamente il musicologo francese Jacques Bourgois in una massiccia biografia del compositore (introvabile in Italia). Fu poi proprio Verdi che insistette perché l’opera venisse accettata dal Teatro Apollo a Tor di Nona di Roma. Una vera e propria provocazione. La censura papalina, ottusa come tutte le burocrazie, non si accorse dei contenuti dell’opera. Tanto più che in una lettera di Verdi, inviata da Parigi il 14 luglio 1849 (pochi giorni dopo la fine della Repubblica mazziniana) a Vincenzo Luccardi, parlava della “catastrofe di Roma”. Portare nella capitale dello Stato Pontificio, il 19 gennaio 1853, una fosca vicenda di amore, guerra e morte in un’incredibile Spagna medioevale voleva dire parlare di rivoluzione e Risorgimento a coloro che per la Repubblica Romana avevano combattuto e sofferto. Sotto questo aspetto, quindi la produzione di Moshinsky ha un suo rigore : dopo avere messo Il Trovatore” è “una chiave di volta tra le opere di Verdi”. Casini ne sottolinea “l’eccesso di rilievo sottolineato alla musica” – a differenza di Massimo Mila che ne vede “alti e bassi sconcertanti”-. A mio avviso, l’opera non è solo una chiave di volta musicale (senza aver in testa “Trovatore”, Verdi non avrebbe dato a “Rigoletto”, commissionatogli da La Fenice, l’impianto musicale che ha avuto) ma anche nel ruolo politico di Verdi nel movimento di unità nazionale. “Il Trovatore” apre la porta a Les Vêpres Siciliens – opera chiaramente e decisamente patriottica.



mercoledì 22 febbraio 2017

I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza in Impresa Lavoro del 21 febbrauio



I socialismi, la distribuzione del reddito e l’efficienza

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Il saggio è stato scritto prima che Trump entrasse alla Casa Bianca e pubblicato sull’ultimo numero della serie dei Working Papers (No. 6278) di uno dei maggiori istituti di ricerca economica e sociologica europea, il CESifo di Monaca di Baviera. E’ di estrema attualità non solo negli Usa ma in tutti i Paesi europei. Ne sono autori tre professori dell’Istituto di Ricerche Economiche norvegese, Ingvild Almás, Alexander W. Capellen e Bertil Tungoddon. Il titolo è accattivante: “Cutthroat Capitalism versus Cuddly Socialism: Are Americans More Meritocratic and Efficiency-Seeking than Scandinavians?” (“Capitalismo con il coltello tra i denti e socialismo che fa le coccole: sono gli americani più meritocratici e alla ricerca dell’efficienza degli scandinavi?”).
Come è noto, c’è una differenza abissale tra ineguaglianza di reddito e politiche redistributive tra gli Stati Uniti e la Scandinavia. Per individuare se c’è una corrispondente differenza in preferenze della società, i tre studiosi hanno condotto il primo esperimento quantitativo , utilizzando campioni rappresentativi degli Stati Uniti e della Norvegia. L’esperimento utilizza le infrastrutture di un vasto mercato internazionale telematico e quelle di una delle maggiori agenzie di raccolta dati a livello mondiale. Inoltre, nell’esperimento (quattro differenti casi) gli americani ed i norvegesi effettuano scelte distributive in situazioni in cui hanno informazioni complete sulle determinanti delle diseguaglianze e il costo delle ridistribuzione. Il risultato è che americani e norvegesi hanno differenze significative in materia di giustizia sociale, ma non in tema di efficienza. Inoltre in ambedue i Paesi, le considerazioni di equità sociali sono più importanti di quelle di efficienza

martedì 21 febbraio 2017

Anche l’Europa farà il suo regolamento E sarà a favore della liberalizzazione in Avvinire 22 febbraio



Anche l’Europa farà il suo regolamento E sarà a favore della liberalizzazione
L’emendamento di Linda Lanzillotta contestato dai tassisti fa slittare al 31 dicembre 2017 i tempi per il varo di una nuova regolamentazione del 'servizio pubblico' con auto e conducenti privati. Sotto il profilo tecnico formale, la nuova regolamentazione non sarebbe un testo comprensivo come il decreto Bersani del luglio 2006, ma dovrebbe riguardare esclusivamente un aspetto della complessa e controversa materia: l’esercizio abusivo del servizio taxi e di noleggio con conducente. La regolamentazione, spiegano tecnici del Senato, dovrebbe piuttosto riguardare anche «gli indirizzi generali per l’attività di programmazione e di pianificazione delle Regioni, ai fini del rilascio, da parte dei Comuni, dei titoli autorizzativi».
Questo in una fase in cui nell’Unione Europea la materia è in rapida evoluzione e c’è già stata, a fine 2016, una sentenza della Corte di Giustizia che fornisce indirizzo ai fini di una regolamentazione nel quadro del funzio- namento del mercato unico. La sentenza apre la strada all’ingresso di Uber e di altre piattaforme che offrono servizi online, come le app per smartphone che consentono di ottenere un 'passaggio' non da un tassista professionista ma un comune automobilista. La Corte europea indica che tali servizi potranno essere vietati nelle normative nazionali unicamente come misure estreme. Le norme resterebbero nazionali ma l’Ue potrebbe aprire procedure d’infrazione. In prospettiva c’è però una direttiva o un regolamento comunitario.
«Se li blocchiamo qui, in ogni caso cresceranno da qualche altra parte» ha avvertito il vicepresidente della Commissione europea Jyrki Katainen. «Non si può imporre il divieto totale di queste attività se la ragione è proteggere i modelli di business esistenti», è il messaggio lanciato dalla commissaria al mercato interno Elzbieta Bienkowska. Sempre che «vengano rispettati i criteri fiscali, sociali e di protezione dei consumatori».
Secondo la Commissione Europea, le legislazioni nazionali dovranno stabilire soglie minime sotto cui un’attività economica possa essere considerata un’attività non professionale tra pari senza dover rispettare gli stessi requisiti applicabili a un fornitore di servizi che opera su base professionale. È questa prospettiva che 'terrorizza' i tassisti italiani, protetti da sempre da un sistema di regolamentazione molto forte di origine corporativa Li spaventa perché dell’Europa l’aria che tira è fortemente in favore della liberalizzazione. In effetti, in numerosi Stati europei, Uber e simili operano liberamente nell’ambito di normative nazionali. Solo Francia, Italia e Spagna ne hanno vietata l’operatività. A differenza di Francia e Spagna, dove esistono ancora partiti strutturati, i tassisti italiani non hanno più forze politiche tradizionali di riferimento. Sanno di contare molto meno di 20 anni fa. Quindi, la protesta 'selvaggia'. Avrà effetti? La storia insegna che chi difende l’esistente perde sempre. E ancora di più chi vuole tornare al passato.
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Kát’a Kabanová sulle rive del Po in Opinione 21 febbraio



Kát’a Kabanová
sulle rive del Po
di Giuseppe Pennisi
21 febbraio 2017CULTURA
http://www.opinione.it/media/1375519/pennisi_int.jpg 
Torino è città adatta per mettere in scena Kát’a Kabanová di Leoš Janáček (1854-1928), compositore moravo tra i più grandi dell’inizio del Novecento, pur se l’Italia lo ha scoperto solo dopo la Seconda guerra mondiale. In Kát’a Kabanová del 1922 (di cui si sono viste belle edizioni al Massimo Bellini di Catania, a Firenze, a La Fenice in trasferta al Tronchetto ed alla Scala) ci sono (nel terzo atto) veri e propri uragani. Sottolineo, Torino ha circa 900mila abitanti, è stata capitale di un Regno, principale città industriale dell’Italia, città centrale nella moda e della cultura. Ha poco in comune con il villaggio dove si svolge l’opera, se non le acque fluviali sempre presenti in scena.
Kát’a Kabanová è la più fragile di tutte le eroine di Janáček. La vicenda è tratta da un romanzo, e da un dramma, di successo dello scrittore russo Alexander Ostrovsky. In un piccolo centro bigotto, dove domina la suocera Kabanicha (intenta, tra un paternostro e l’altro, in giochi sadomaso con il mercante Dikoj), Kát’a Kabanová ha un marito imbelle e forse impotente, Tichon, ed è amata in segreto dal bel Boris. Ai margini del clima pesante del villaggio, la sua migliore amica, la trovatella Varvara, ha una relazione amorosa-sessuale fresca e piena con il giovane professore di chimica Kudrjás. Durante un viaggio d’affari di Tichon, Varvara dà a Kát’a la chiave del luogo dove si incontra con Kudrjás. Non sapremo mai se il rapporto tra Kát’a e Boris va al di là del platonico. Il rimorso, però, è tale che al ritorno di Tichon, e nel corso di un uragano, Kát’a si confessa adultera. Trova sollievo solo gettandosi nel Volga, mentre Kabanicha ringrazia i presenti per la collaborazione data nel risolvere il caso aperto dalla confessione della nuora. E il villaggio torna alla bigotteria di sempre.
pennisi3_01In Kát’a Kabanová, a 67 anni, Janáček dimostra una grande capacità di sviscerare in musica l’animo umano (con una scrittura spezzettata e continuamente ricostituita, raramente superata). A Catania si è visto, vent’anni fa, un allestimento portato dall’Opera Nazionale di Praga. La produzione scaligera (2006) proveniva dalla De Vlaamse Opera di Anversa. La regia è stata curata dal canadese Robert Carsen, che cura pure l’edizione di Torino. La scenografia, giocata sulla predominanza dell’elemento acquatico che richiama l’incombente presenza del fiume, è opera, al pari dei costumi, di Patrick Kinmonth. Uno spettacolo di grande livello che il Teatro Regio di Torino mette in scena, in un programma in cui in sei anni proporrà, in collaborazione con il Teatro di Anversa, tutte le opere di Janáček con la regia di Carsen e l’apporto del suo team creativo (oltre a Kinmonth, Van Praet, Giraudeau) Alcune parti del ciclo si sono già gustate in Italia: Jenůfa a Palermo e Il caso Makropulos a Venezia.
Il 15 febbraio è stata la prima volta che Kát’a Kabanová veniva presentata a Torino, dopo La piccola volpe astuta in scena nel gennaio dello scorso anno. Come tutte le opere di Janáček, Kát’a Kabanová è breve (90 minuti); a volte i tre atti (ciascuno di mezz’ora e diviso in due scene) vengono proposti senza intervallo: ciò aumenta la tensione. Questa volta i primi due atti vengono presentati come un blocco unico, scaricando la tragedia sul terzo. È un lavoro complesso sia per la struttura orchestrale (Marco Angius ne ha mostrato tutta la modernità) sia per la vocalità in cui la musica e le parole (il libretto è in prosa) sono studiate perché l’una avvolga l’altra, facendo percepire ogni sfumatura del moravo. Janáček ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro. La protagonista è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyč Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta Marfa Ignatěvna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a, l’ucraino Misha Didyk è Boris. Un cast impeccabile.
(foto: Ramella&Giannese © Teatro Regio Torino)

Il ritorno di "Kát’a Kabanová" a Torino in Il sussidiario 21 febbraio



OPERA/ Il ritorno di "Kát’a Kabanová" a Torino

Pubblicazione: martedì 21 febbraio 2017
Foto Teatro Regio di Torino Foto Teatro Regio di Torino
Kát’a Kabanová, prima delle quattro opere dell’ultimo decennio di vita di Leos Janácek, è giunta finalmente al Teatro Regio di Torino in ‘prima’ per la città,in un allestimento (regia, scene, costumi, luci) già visto dieci anni fa alla Scala. 
E’ parte di un ciclo dedicato a Janácek-Carsen inizialmente concepito per l’Opera Vlaanderen di Anversa e Ghent (l’opera nazionale delle Fiandre) e che da una dozzina d’anni sta facendo il giro del mondo per il rigore e l’efficacia con cui la regia di Robert Carsen, le scene ed i costumi di Patrik Kinmonth, le luci di Peter van Praet e la coreografia di Philippe Giraudeau interpretano il mondo drammatico e musicale di Janácek. 
Il ciclo comprende otto delle dieci opere del compositore moravo (ossia da Jenufa a Da una casa di morti). Le prime due erano poco considerate dalla stesso autore. Il Regio propone il ciclo completo, ma alcune opere del binomio Janácek- Carsen sono state già viste in Italia ad esempio Jenufa a Palermo e Il caso Makropulos a Venezia.
Il compositore e librettista è ancora oggi poco noto al pubblico italiano, nonostante sia, con Richard Strauss e Benjamin Britten, uno del maggiori autori di teatro in musica del Novecento. Nato nella cittadina di Príbor in Moravia (dove ebbe i natali anche Sigmund Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brno, capitale di un’area allora parte dell’Impero Austro-Ungarico, e oggi regione meridionale della Repubblica Ceca. 
Brno è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia - il cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il carcere dove è stato Silvio Pellico.  Per decenni, Janácek fu essenzialmente un didatta e, molto religioso, compose principalmente musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali. 
A 50 anni circa, nel 1904 (quasi contemporaneamente alle prime assolute di Madama Butterfly di Puccini e di Salome di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè di Brno venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenufa. Oggi la città dispone di tre teatri di cui il maggiore (1.300 posti) porta il nome del compositore. 
La partitura di Jenufa era stata respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916  dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenufa diventò un successo europeo in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918 (proprio mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janácek sono state eseguite per decenni, al di fuori della Moravia). 
Janácek visse sino al 1928; nell’ultima fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazioni ebbe meritatissimi riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola Brno, si considerasse vicino a quella musicale russa sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la seconda guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras, James Conlon e Jan Lothar-Koenig. 
Nella New York degli Anni Settanta, i lavori di Janácek trovavano casa alla New York City Opera, considerata tra lo sperimentale e il popolare, non al Metropolitan.
La fortuna di Janácek in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale». 
Negli Anni Cinquanta, Mila ha anche detto: se Janácek fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni critiche .
Ci sono due aspetti caratteristici del teatro in musica di Janácek ambedue si colgono bene in Kát’a Kabanová e vengono messi in risalto in questa edizione di Carsen. In primo luogo, come sottolinea il suo compatriota Milan Kundera (che meglio di molti di noi più apprezzare l’impasto tra vocali, consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie  in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno, parallelamente, “la inattesa contiguità delle emozioni” e la “polifonia delle emozioni. In secondo luogo,  una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scema .di  Kát’a Kabanová ).
Anche i tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica espressionistica e stilemi della musica contemporanea , e della dodecafonia. Marco Angius, noto principalmente come concertatore di partiture contemporanee si è rivelato una scelta perfetta.
Le opere di  Janácek sono di solito brevi (tre atti di complessivi novanta minuti, a volte messe in scena senza intervallo) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta di un fattaccio di provincia .In un paesino sul Volga:l’odio di una suocera sado-masochista e con un figlio impotente spinge al suicidio la nuora, ragazza semplice e religiosa. Richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i cui protagonisti siano cantanti- attori che sappiano perfettamente il moravo. Janácek ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro. Nella bella edizione in scena a Torino, 
La protagonista è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyc Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta Marfa Ignatevna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a, l’ucraino Misha Didyk è Boris. Un cast di grande rilievo. Molti applausi.


© Riproduzione Riservata. La fortuna di Janácek in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale». 
Negli Anni Cinquanta, Mila ha anche detto: se Janácek fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni critiche .
Ci sono due aspetti caratteristici del teatro in musica di Janácek ambedue si colgono bene in Kát’a Kabanová e vengono messi in risalto in questa edizione di Carsen. In primo luogo, come sottolinea il suo compatriota Milan Kundera (che meglio di molti di noi più apprezzare l’impasto tra vocali, consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie  in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno, parallelamente, “la inattesa contiguità delle emozioni” e la “polifonia delle emozioni. In secondo luogo,  una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scema .di  Kát’a Kabanová ).
Anche i tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica espressionistica e stilemi della musica contemporanea , e della dodecafonia. Marco Angius, noto principalmente come concertatore di partiture contemporanee si è rivelato una scelta perfetta.
Le opere di  Janácek sono di solito brevi (tre atti di complessivi novanta minuti, a volte messe in scena senza intervallo) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta di un fattaccio di provincia .In un paesino sul Volga:l’odio di una suocera sado-masochista e con un figlio impotente spinge al suicidio la nuora, ragazza semplice e religiosa. Richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i cui protagonisti siano cantanti- attori che sappiano perfettamente il moravo. Janácek ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro. Nella bella edizione in scena a Torino, 
La protagonista è il soprano slovacco Andrea Dankova; il tenore Štefan Margita interpreta Tichon Ivanyc Kabanov, il marito di Kat’a; il mezzosoprano Rebecca de Pont Davies interpreta Marfa Ignatevna Kabanová, la cinica suocera di Kat’a, l’ucraino Misha Didyk è Boris. Un cast di grande rilievo. Molti applausi.


© Riproduzione Riservata.