OPERA/ Strauss: cosa vuol dire
oggi "La donna senz'ombra"?
Cosa voleva
significare negli anni della prima guerra mondiale Die Frau ohne
Schatten (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard
Strauss? GIUSEPPE PENNISI
22 giugno
2017 Giuseppe Pennisi
Foto ©
Kirsten Nijhof
Cosa voleva
significare negli anni della prima guerra mondiale Die Frau ohne Schatten
(“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss? E cosa
vuole dire oggi, circa un secolo dopo la sua prima messa in scena a Vienna nel
1919? Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando,
durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere Der
Rosenkvalier (“Il Cavaliere della Rosa”) si scherniva dicendo
che era uno lavoro troppo lungo, e, quindi, troppo faticoso per un uomo che
viaggiava verso l’ottantesimo compleanno. Diceva agli amici: “però, se mi
chiedessero dirigere Die Frau ohne Schatten, forse risponderei di
sì”. Eppure Die Frau ohne Schatten è più lunga e molto più
complessa (sotto il profilo orchestrale e vocale) di Der Rosenkavalier.
Die Frau
ohne Schatten viene
rappresentata molto raramente in Italia. Viene spesso detto che una delle
ragioni per la scarsa presenza di Die Frau ohne Schatten nel
nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi
protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un
doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che
prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e
via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la
pucciniana Turandot.
Viene anche
detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere
compreso. In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le
favole. E Die Frau ohne Schatten è, in primo luogo una favola,
solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario, leggere il
denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano
dall’editore Adelphi circa vent’anni fa e forse neanche il mirabile saggio di
Mario Bortolotto La Serpe in Seno. Non occorre addentrarsi nelle
molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un
nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o
per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice,
Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il
Monco e così via).
Il filo
dell’apologo è lineare e ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che,
intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo ed una donna non sono tali
se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro:
senza figli, tanto gli uomini tanto le donne restano in un eterno presente
senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia (ed avere
figli è la gioia suprema) si ha, però, unicamente al termine di uno percorso
iniziatico pieno di sofferenze. Paternità e maternità, da un canto, e gioia
grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti. Le due coppie al centro
della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e
bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e
la di lui donna.
La prima
coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una
donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche
quotidiane per poter fare l’amore. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio
suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna,
creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di
quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra –
non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza
viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato
alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione
dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di
ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il
primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Hofmannsthall
e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa
distrutta dal primo conflitto mondiale: non per nulla nella loro opera
precedente – Ariadne auf Naxos –avevano cantato, in piena guerra
mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Il messaggio è più che mai attuale
oggi in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più ed in cui
l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere
alla quale occorre soffrire. Un Continente dove la denatalità è una piaga di cui
ci si ricorda solamente quanto ne vengono diramate le statistiche.
Ulf Schirmer
e la Gewanhausorchester hanno fornito un’esecuzione mirabile, pari a quella ,
in studio, di Karl Boehm quando la stereofonia era ad i suoi inizi
Non solo
alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema
difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due
personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena - ciò
comporta grandi difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci e tra esse e
l’orchestra.
Lo
spettacolo del 18 giugno (a cui ho assistito e che concludeva il Festival
Strauss) è stato turbato da una malattia della protagonista (La Donna di
Barak), Jennifer Wilson, che è anche il ruolo vocalmente più arduo. Lo si è
risolto sostituendola con Elena Pankatrova, che, arrivata pochi minuti
dall’inizio, ha cantato sul lato del palcoscenico mentre un attrice recitava in
scena. La Pankatrova, che colpì il pubblico italiano nel 2010 al Maggio
Musicale Fiorentino, conosce la parte a puntino ed è forse uno dei rari soprani
che oggi può impersonare il ruolo, ma non la regia di Balàzs Kovalik.
Prima di
andare alla parte più squisitamente teatrale, occorre ricordare che Strauss
amava molto le voci femminili. In La Donna Senz’Ombra, si ha la
massima esaltazione delle vocalità femminile: al soprano drammatico (La Donna)
si affiancano il soprano lirico (L’Imperatrice, Simone Schneider) ed il
mezzosoprano tendente al contralto (La Nutrice, Karin Lovelius). L’intreccio
delle loro voci (e di altre dodici donne in personaggi minori) ha dato esiti
mirabili anche grazia all’ottima acustica del teatro dell’opera di Lipsia.
Tra le voci
maschili spicca il baritono Franz Grundheber (Barak), il quale è anche un
grandissimo attore che, in modo commovente, giustappone la propria semplice ma
genuina sofferenza a quella dell’Imperatore (il tenore Burkhard Fritz):
ambedue, ad un certo momento della vicenda, credono di essere traditi dalle
proprie mogli.
La regia
(Balàsz Kovalik) segue fedelmente il libretto e gli effetti speciali richiesti
(discesa del mondo dell’Imperatore a quello dei poveri, terremoti, incendi,
animali parlanti - o meglio cantanti - , fontane da cui sgorga acqua, incendi,
ponte che collega il mondo celeste e quello umano e sotto cui cammina l’intera
umanità. Le scene (di Heike Scheele) ed i costumi (Sebastian Ellrich) sono
quasi atemporali per significare l’universalità del messaggio. Ad esempio, il
salone con statue neoclassiche e la sala da pranzo del Palazzo dell’Imperatore
rievocano la Germania guglielmina dell’epoca di Bismarck, mentre il quartiere
dove vivono Barak e la moglie un’area di case popolari di quella che trent’anni
fa doveva essere la Germania dell’Est.
Un
palcoscenico enorme ed attrezzato con ascensori (le scene, costruite salgono e
scendono) rende tutto questo possibile.
In Italia,
esistono unicamente tre teatri che possono ospitare uno spettacolo così
elaborato. Che uno di loro si faccia avanti.
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