martedì 27 giugno 2017

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La nuova Via della seta – o
come preferiscono chiamarla
i cinesi One belt one road – è
la rete di infrastrutture in via
di progettazione per meglio
collegare il Celeste impero con
l’Europa e incrementarne il
commercio. Gli obiettivi sono,
o dovrebbero essere, bilaterali,
poiché gran parte degli
Stati dell’Asia centrale hanno
pochissimo intercambio, sia con
la Cina, sia con l’Europa. Quelli
che ne sono dotati esportano
principalmente materie prime
(soprattutto oli minerali) e,
dopo una fase in cui hanno
investito moltissimo nell’immobiliare,
sono in stagnazione.
L’obiettivo principale, ove non
unico, è quindi l’aumento degli
scambi con l’Europa. Se ne parlava
da numerosi anni, ma ora
si è arrivati al decollo.
La pubblicistica in materia è vastissima
e fa sorgere alcuni dubbi.
Di grande interesse il volume
di Jacques Pelkmans, Weinian
Hu, Federica Mustilli, Mattia
Di Salvo, Joseph François, Eddy
Bekkers, Miriam Manchin e Patrick
Tomberger curato da Centre
for European policy studies
(Ceps) e intitolato Tomorrow’s
Silk Road. Le circa trecento
pagine del volume documentano
come la nuova Via della seta,
se mai verrà completata, sarà
principalmente nell’interesse del
Celeste impero – le cui imprese,
in gran misura controllate dallo
Stato, avrebbero voluto deroghe
alla normativa internazionale
dell’Organizzazione mondiale
del commercio (Omc) per la
concessione dei contratti di
appalto e di fornitura.
Un punto analogo viene fatto
da Vivienne Bath dell’Università
di Sydney in un saggio apparso
nel libro collettaneo Legal
Dimensions of China’s Belt and
Road Initiative, a cura di Chao
Xi e Lutz-Christian Wolff. Nel
lavoro si sottolinea come dal
1978 la strategia dei governi
che si sono succeduti in Cina sia
sempre stata quella di attirare
capitale e tecnologia estera per
utilizzare la propria manodopera
e quindi effettuare investimenti
all’estero. Tale strategia è
agevolata da una complessa rete
di regole che copre gli investimenti
sia interni sia esteri.
Pechino vede la Via della seta in
quest’ottica e sarà difficile tentare
di fargliela mutare, anche
cammin facendo.
Un paper di Jonathan Holslag
della Vrije Universiteit Brussel,
pubblicato su The International
Spectator (la rivista in inglese
dell’Istituto affari internazionali)
esamina gli aspetti economici
della Via della seta sulla base di
documenti inediti della burocrazia
cinese. Prima di inneggiare
alle nuove opportunità di esportazione
che si aprono alle imprese
europee, vale la pena leggerlo
con attenzione. Il lavoro, molto
documentato, dimostra che per
l’Europa, la Via della seta, è in
realtà una grande trappola.
Occorre, però, fare una premessa.
La Cina è entrata nell’Omc
nel 1991. Numerosi Stati membri
non pensavano che avesse
i requisiti minimi per entrare,
anche e soprattutto perché un
commercio internazionale libero
e competitivo è poco compatibile
con politiche economiche
interne stataliste e autarchiche.
In questo ultimo quarto
di secolo, il settore dei servizi
ha avuto un buon grado di
liberalizzazione, gli investimenti
esteri sono stati autorizzati, le
restrizioni sulla distribuzione
all’ingrosso e al dettaglio sono
state rimosse e, parimenti, sono
stati aperti i mercati – anche se
di poco – dei servizi finanziari,
delle banche, delle assicurazioni
e delle telecomunicazioni.
Non facciamoci però illusioni.
La Cina resta un Paese fortemente
mercantilista e ha capacità
di celare i protezionismi
nel modo più astuto. Dal 2008
a oggi, sulla Via della seta le
esportazioni di beni e servizi cinesi
verso l’Europa sono aumentate
di oltre il 250%, mentre
quelle di Francia, Germania e
Italia diminuite rispettivamente
del 14%, del 26% e del 9%.
*Presidente della Commissione
speciale informazione del Cnel e del
comitato scientifico del centro studi
ImpresaLavoro
di Giuseppe Pennisi*
Attenzione alla Via della seta
oeCONOMICUS

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