La Fed darà una brutta notizia
a Trump sui tassi?
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Questa, non
quella terminata venerdì nove giugno (come detto da alcuni), è la vera
settimana delle monete. La settimana scorsa – è vero – c’è stata una notevole
attesa per la riunione, a Tallin in Estonia, del Consiglio della Banca centrale
europea, anche perché si pensava (con più emotività che accortezza) che le
vicende politiche europee (elezioni britanniche, inizio del dibattito sulla
legge elettorale italiana) avrebbe inciso sulle scelte delle autorità monetarie
europee. In effetti, come sappiamo, dato che i segni di ripresa, pur se
costanti, hanno segni di fragilità (su cui non influiscono le vicende di
politica interna dei singoli Paesi), la Bce ha mantenuto la barra dritta: il
Quantitative Easing viene mantenuto, anzi esteso sino alla fine del 2017,
proprio per far sì che la ripresa si irrobustisca, ma aumenterà la vigilanza
sugli istituti finanziari e sull’andamento degli aggregati macro-economici.
Più
complesse, sotto il profilo sia tecnico sia politico, e di maggiore impatto
sull’economia e sulla finanza mondiale (e soprattutto europea), le decisioni
che è chiamato a prendere il Federal Reserve Board (l’autorità monetaria
americana) mercoledì 14 giugno: se aumentare o meno i tassi direttori della
politica monetaria americana.
Vediamo, in
primo luogo, gli aspetti tecnici (sotto il profilo strettamente Usa). Dal
dicembre 2015, la Fed (come viene giornalisticamente chiamata) ha ritoccato i
tassi all’insù tre volte (l’ultima volta nel marzo scorso). Incrementi sempre
molto leggeri giustificati dal basso aggregato di disoccupazione (4,3%, il più
contenuto dal 2001) e, dunque, dal rischio di spinte inflazionistiche.
Tuttavia, almeno sino all’ultima tornata di dati prodotti dal Bureau of Labour
Statistics, tali spinte non si sono avvertite; anzi la core inflation (il tasso
di aumento dei prezzi al consumo escludendo categorie molto volatili – gli
alimentari e l’energia) viaggia all’1,5% l’anno. Non solo, la crescita
dell’occupazione è diminuita da 187mila al mese nel 2016 a 121mila al mese
(in media) negli ultimi tre mesi. Quindi, sotto il profilo strettamente tecnico
economico, è difficili vedere le ragioni di un aumento dei tassi il 14 giugno.
Ciò
nonostante, secondo una survey i cui risultati sono stati pubblicati il 90%
degli analisti ritiene che il 14 zia Fed aumenterà i tassi di 25 punti di base.
La ragione sarebbe non tecnica ma politica. Zia Fed sa che zio The Donald vuole
liberarsi del presidente del Collegio che determina la politica monetaria
americana per fare gestire l’organismo di sua stretta fiducia. E vuole, quindi,
dare una dimostrazione d’indipendenza, proprio in un momento in cui The Donald
è in tutt’altre faccende affaccendato.
Poche le
implicazioni per gli Usa di un aumento così lieve del tasso direttore.
Potrebbero essere più significative per l’eurozona. I “falchi” del Consiglio
Bce potrebbero leggerle come chiara indicazione che il clima sta cambiando e
che, quindi, non il caso di insistere su un Qe che avvantaggia
principalmente quei lazzaroni sfaticati e superindebitati.
Quindi,
occhio.
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