Evzen Kocenda del centro di studi economici avanzati dell’Università di Praga , Ali M. Kuta della Università dell’Illinois meridionale e Taner Yigit dell’Università Bilkent di Ankara li chiamano “europellegrini” in un brillante saggio apparso nell’ultimo numero di Economic System: sono i paesi dell’Europa centrale ed orientale che dopo avere ottenuto un certificato di buona condotta con l’adesione all’Eu, sperano di averne uno di ritrovata castità con l’ingresso nella zona dell’euro. Il lavoro utilizza una gamma di nuovi indicatori per quantizzare in che misura si sta verificando la convergenza: in termini di reddito pro-capite l’avvicinamento alla media dell’area dell’euro è lento, molto più rapido invece in termini di tasso d’inflazione e di tassi di interesse.
Non è, però, un sentiero facile. Un lavoro a quattro mani di Ales Bulir del Fondo Monetario e Jaromìr Hurnìk della Banca centrale della Repubblica Cèca (che la Banca centrale europea, Bce, spera non circoli troppo e non abbia troppi lettori) la strada verso l’euro viene chiamata uno spiacevole Purgatorio. Il percorso, dettagliato nel trattato di Maastricht e ribadito nel patto di stabilità, aveva un significato – affermano – per fiaccare la propensione all’inflazione di alcuni paesi dell’Ue a 15 desiderosi di fare parte del club dell’euro (come l’Italia e la Spagna). Sta, però, avendo un effetto perverso sui nuovi soci dell’Ue: li spinge ad adottare strategie di disinflazione a breve termine , a danno delle riforme strutturali a cui dovrebbero dare priorità. Su una line analoga, ove non più dura, un altro esperto del Fondo monetario, Jiri Jonas. Analizza i costi ed i benefici (per i singoli paesi e per la zona dell’euro nel suo complesso) di applicare con più o meno rigidità i criteri di Maastricht e del patto di stabilità ai nuovi paesi membri. Jonas non solo spezza una lancia in favore di una interpretazione flessibile dei trattati ma , con un modello econometrico, giunge alla conclusione che gli obiettivi di Maastricht in materia di inflazione non sono compatibili con quelli in materia di stabilizzazione del cambio – una ragione in più, dunque, per essere di manica larga. L’accento dovrebbe invece essere sugli obiettivi in materia di finanza pubblica (indebitamento annuo e stock di debito).
Questo è miele per le orecchie di Daniel Stavarek della Università Silesia di Opava- la più giovane università della Repubblica Cèca (creata nel 1991).Il lavoro analizza andamenti e volatilità del tasso di cambio dei sei paesi (Cipro, Repubblica Cèca, Polonia, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) che hanno optato per l’accordo di cambio chiamato, giornalisticamente, Sme 2 : entrate nella fascia stretta (per permette oscillazioni del 2,25% in più od in meno della parità centrale) vorrebbe dire frenare la crescita reale- che dovrebbe essere l’obiettivo primario di paesi ancora in transizione dall’economia di piano al mercato.
Lucian T.Orlowski dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (a Varsavia) e Kryzsztof I. Rybinski della Banca centrale polacca propongono un’estensione del sistema di inflation targeting (obiettivi di politica monetaria collegati a puntuali traguardi in materia di aumenti dei prezzi) in modo da incorporarvi la partecipazione nella fascia stretta dello Sme 2 – un obbligo per avere titolo a fare parte della zona dell’euro. L’idea è astuta e propone un inflation targeting moderatamente flessibile e che guardi al futuro, un po’ come l’inflazione programmata in vigore nella politica economica italiana. Anche se convalidata tramite un modello econometrico dell’ultima generazione, resta il dubbio che venga accettata dal resto dell’Eurogruppo, e dagli altri europellegrini.
Pierre L. Siklos della Wielfried Laurier University nel lontano Ontario conduce un’analisi analoga per quanto riguarda l’Ungheria. Al di là dei preziosismi tecnici, il lavoro conclude che il paese non ci rimetterebbe molto a ritardare l’ingresso nella zona dell’euro al di là dell’attuale obiettivo di farlo a fine 2008.
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