A cavallo tra fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta, l’Italia si trovava o meno in una situazione analoga a quella in cui versa oggi la Repubblica Ellenica? In caso di risposta positiva, se non ne siamo usciti senza insolvenza o ristrutturazione perché non possono farlo pure i greci? Quale strategia abbiamo attuato?
Sotto il profilo dei conti pubblici, le analogie non mancano. Negli anni in cui si metteva a punto il Trattato di Maastricht, e lo si firmava, lo stock di debito pubblico dell’Italia cresceva dal 101% al 119% del Pil ed il disavanzo annuo (in termini tecnici, l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni) era pari al 10% del Pil (nonostante si fosse raggiunto l’azzeramento del “deficit primario”, ovvero del disavanzo al netto dell’onere per ammortamento e interessi sul debito). Entravamo negli Anni Novanta con la forte probabilità di non essere ammessi nel “club dell’euro” che proprio allora si stava formando seguendo un percorso predeterminato a tappe obbligate per il raggiungimento di un buon grado di convergenza in termini di conti pubblici (un disavanzo non superiore al 3% del Pil ed uno stock di debito che non eccedesse il 60% del Pil). Grazie ad un intervento dell’ultima ora (in gergo “l’emendamento Carli” dal nome del Ministro del Tesoro italiano), la clausola relativa allo stock di debito venne mutata: non sarebbe stato necessario portare il fardello al 60% del Pil (obiettivo irrealizzabile, oltre che per l’Italia, che per il Belgio e per la Grecia nell’arco di otto anni) ma si sarebbe dovuto “tendere” a tale traguardo. Le autorità europee sono state sostanzialmente di manica larga nell’interpretare i passi effettivi attuati per dare corpo alla tendenza. Utile, però, ricordare che si era arrivati a tale situazione di finanza pubblica dopo dieci anni in cui i Governi che si sono succeduti erano riusciti ad ottenere un tasso non disprezzabile del Pil (attorno al 2,5% l’anno) portando al tempo stesso l’inflazione dal 20% l’anno al 6,5% circa. In effetti, l’indebitamento e la conseguente crescita dello stock del debito devono essere attribuiti a due determinanti: a) gli alti tassi d’interesse (per combattere l’inflazione): b) gli interventi per la ristrutturazione industriale e la coesione sociale (quali il varo di nuovi ammortizzatori alla fine degli Anni Ottanta).
L’Italia non ha avuto crisi di solvibilità internazionale anche in quanto il debito pubblico era principalmente sul mercato interno ed i risparmiatori (il popolo dei BOT) erano attratti dagli interessi praticati. Tuttavia, i mercati non diedero fiducia ai propositi di correzione di rotta. Ne conseguì la crisi dell’estate del 1992 che culminò che la richiesta di sospensione dagli accordi europei di cambio ed un deprezzamento del 30% della lira rispetto al paniere delle maggiori monete europee, l’Ecu. In effetti, il default ci fu: dall’oggi al domani gli italiani perdettero un terzo dei loro risparmi , investimenti e redditi di lavoro e pensione rispetto al resto d’Europa. Il deprezzamento che sarebbe dovuto durare tre mesi e venne invece protratto per oltre quattro anni, diede una spinta all’export, mentre sul piano interno venivano attuate manovre di finanza pubblica pari al 9,5% del Pil e varate riforme profonde in materia di previdenza e mercato del lavoro, unitamente ad un programma vigoroso (forse troppo affrettato) di privatizzazioni. Ossia proprio la ricetta che oggi UE e Fmi chiedono alla Grecia, senza , però, che l’Ellade possa utilizzare il deprezzamento della valuta come strumento per la crescita. E con l’aggravante di un contesto di crisi internazionale di cui non si vede ancora la soluzione.
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