I LIBRI DEI MINISTRI IL SAGGIO DA MANOVRA FINANZIARIA
Giuseppe Pennisi
A cosa si ispira la manovra pluriennale di politica economica che verrà varata ieri 30 giugno , ricorrenza dei Santissimi Protomartiri Romani, il Ministro dell’Economia e delle Finanza Giulio Tremonti ha preparato in queste ultime settimane? Il Ministro, in primo luogo, non ambisce a diventare né un Martire né tanto meno un Protomartire.
Non la hanno certo ispirata i papers più o meno econometri predisposti dallo stuolo dei tecnici che hanno fatto a gara per affiancarlo – alla stregua un po’ degli “intellettuali dei miei stivali” di craxiana memoria. Sarebbe stata una strada certa verso il martirio. La hanno ispirata cinque saggi, di cui quattro scritti di tecnici eminenti (non nostrani) in linguaggio giornalistico o quasi (ma pubblicati sulla più autorevole rivista di teoria economica al mondo – l’American Economic Review) ed il quinto (ostico da leggere ma pieno di succo) appena uscito tra iWorking Papers del National Bureau of Economic Research (NEBR), la maggiore rete mondiale di economisti. I cinque saggi gli hanno ricordato il suo libro su paure e speranza; con una punta di rincrescimento che non fossero stati pubblicati prima della redazione del volume.
Nomi di rango- Anthony Atkinson, Jagdish Bhagwati, Benjamin Friedman, ed i coniugi Robert e Virginia Shiller – spiccano nella sezione (120 pagine a stampa fitta)- del numero di maggio dell’American Economic Review) dedicata alla “economia come scienza morale”. Le pagini di Atkison , ad esempio, più che i mormorii dei sindacati lo avrebbero indotto ad andarci piano con pensioni e pensionati. Quelle di Friedman ad ascoltare con attenzione i messaggi della Conferenza Episcole ed a meditare gli editoriali del quotidiano edito dai vescovi. I coniugi Shiller ad iniziare la manovra con un “moderato cantabile” da trasformare in un “crescendo” tra due anni , con un orchestra ed un direttore di cui non si conoscono i contorni. Il buon Bhagwati, infine, ha intriso di quella saggezza indiana, spesso ritenuta furberia, molti aspetti della strategia (ad esempio, quelli relativi ai “costi della politica”). In breve, un in invito alla speranza.
Meno noti , al di fuori del giro degli esperti di finanza, ma non er questo meno autorevoli, Geer Bekaert (Columbia Business School), Michael Ehrman, Marcel Fratzer, Arnaud Mehal (tutti e tre del servizio studi dell’European Central Bank) i quali nel lavoro citato, utilizzando, come laboratorio, i dati del settore finanziario e dei portafogli azionari in 55 Paesi nel periodo 20067-2009, dimostrano che c’è stato un “contagio sistemico e sistematico” dagli Stati Uniti al resto del mondo, la cui severità è stata inversamente proporzionale alla “qualità” dei fondamentali economici e delle politiche economiche di ciascun Paese. In breve gli investitori si concentrano molto più , tanto da “diventare idiosincratici”, sulle caratteristiche specifiche di ciascun Paese se i mercati ballano e traballano. In breve, anche a ragione dei problemi della Grecia, un ricordo della paura.
giovedì 30 giugno 2011
mercoledì 29 giugno 2011
LA QUALITÀ DELLA MANOVRA in Il Velino 30 giugno
LA QUALITÀ DELLA MANOVRA
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Roma - Nello shakespeariano Il Mercante di Venezia la svolta nel dramma avviene all’arringa di Porzia, travestita da avvocato, sulla quality of mercy, la “quality della clemenza”. L’economia neo-istituzionale e la teoria economica dell’informazione ci hanno insegnato che la “qualità” di una manovra di politica economica dipende in gran misura da come viene articolata e presentata. E’ prematuro esprimersi sui dettagli del programma di rientro dell’indebitamento (pareggio di bilancio entro il 2014) e del debito (portare lo stock di debito verso il 60% del Pil entro il 2017 o giù di lì) che, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, il Consiglio dei Ministri vara (salvo sorprese) il 30 giugno. Sappiamo che nell’immediato le misure rappresentano un antipasto di un pranzo le cui portate principali (dalla riforma tributaria alla drastica riduzione dei costi della politica) sono ancora in fase di cottura e saranno pronte ad essere portate in tavola l’anno prossimo. Quindi, sarebbe avventato esprime un giudizio.
Ci sono due aspetti da tener presente proprio al fine di rendere di migliore di qualità quelli che i francesi chiamano i plats de résistance, ossia le portate di consistenza vere e proprie. Il primo riguarda il nesso tra la manovra di finanza pubblica e le riforme per lo sviluppo. In un saggio recente sui problemi dell’eurozona, Paul de Grauwe dell’Università di Lovanio (uno dei “padri” dell’euro) sottolinea come la caratteristica essenziale del “semestre europeo” dovrebbe consistere nel far sì che “decisione di finanza pubblica” (rivolta alla stabilità) e “programma nazionale di riforma”, Pnr (rivolto alla crescita “inclusiva”) siano concepiti e presentati come un tutt’uno. Dal sito dell’Associazione Astrid, dove si possono leggere gran parte dei Pnr dei 27 dell’Unione Europea, UE, si ricava che circa due terzi degli Stati dell’UE hanno seguito questo approccio. In Italia, invece, il Parlamento ha approvato il Decreto sullo Sviluppo prima ancora che il programma di rientro dall’indebitamento e dal debito venisse messo a punto. Ciò indebolisce la”qualità” (e l’incidenza) della manovra complessiva
.
Il secondo punto riguarda il Pnr italiano. Alessandra del Boca, dell’Università di Brescia, Consigliere del CNEL di nomina del Capo dello Stato, ha presentato all’Assemblea CNEL un lavoro ancora in progress: dopo una prima parte (presentata alcune settimane fa) in cui si traccia una panoramica complessiva, nella seconda vengono esaminati in dettaglio i Pnr di Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna. Per noi, i primi tre sono più importanti in quanto la Gran Bretagna ha deciso di non fare parte dell’”eurozona”. Dal raffronto non ne usciamo bene sia per la scarsità dei dettagli offerti (specialmente se il nostro Pnr è raffrontato con quelli di Germania e Francia). Ne emerge un suggerimento; cominciare a lavorare adesso al fine di presentare per il prossimo anno un Pnr corposo, un po’ come il PICO (Programma per l’Innovazione, la Crescita e la Competitività) curato nel 2005 da Paolo Savona, allora capo del Dipartimento Politiche Europee
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Roma - Nello shakespeariano Il Mercante di Venezia la svolta nel dramma avviene all’arringa di Porzia, travestita da avvocato, sulla quality of mercy, la “quality della clemenza”. L’economia neo-istituzionale e la teoria economica dell’informazione ci hanno insegnato che la “qualità” di una manovra di politica economica dipende in gran misura da come viene articolata e presentata. E’ prematuro esprimersi sui dettagli del programma di rientro dell’indebitamento (pareggio di bilancio entro il 2014) e del debito (portare lo stock di debito verso il 60% del Pil entro il 2017 o giù di lì) che, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, il Consiglio dei Ministri vara (salvo sorprese) il 30 giugno. Sappiamo che nell’immediato le misure rappresentano un antipasto di un pranzo le cui portate principali (dalla riforma tributaria alla drastica riduzione dei costi della politica) sono ancora in fase di cottura e saranno pronte ad essere portate in tavola l’anno prossimo. Quindi, sarebbe avventato esprime un giudizio.
Ci sono due aspetti da tener presente proprio al fine di rendere di migliore di qualità quelli che i francesi chiamano i plats de résistance, ossia le portate di consistenza vere e proprie. Il primo riguarda il nesso tra la manovra di finanza pubblica e le riforme per lo sviluppo. In un saggio recente sui problemi dell’eurozona, Paul de Grauwe dell’Università di Lovanio (uno dei “padri” dell’euro) sottolinea come la caratteristica essenziale del “semestre europeo” dovrebbe consistere nel far sì che “decisione di finanza pubblica” (rivolta alla stabilità) e “programma nazionale di riforma”, Pnr (rivolto alla crescita “inclusiva”) siano concepiti e presentati come un tutt’uno. Dal sito dell’Associazione Astrid, dove si possono leggere gran parte dei Pnr dei 27 dell’Unione Europea, UE, si ricava che circa due terzi degli Stati dell’UE hanno seguito questo approccio. In Italia, invece, il Parlamento ha approvato il Decreto sullo Sviluppo prima ancora che il programma di rientro dall’indebitamento e dal debito venisse messo a punto. Ciò indebolisce la”qualità” (e l’incidenza) della manovra complessiva
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Il secondo punto riguarda il Pnr italiano. Alessandra del Boca, dell’Università di Brescia, Consigliere del CNEL di nomina del Capo dello Stato, ha presentato all’Assemblea CNEL un lavoro ancora in progress: dopo una prima parte (presentata alcune settimane fa) in cui si traccia una panoramica complessiva, nella seconda vengono esaminati in dettaglio i Pnr di Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna. Per noi, i primi tre sono più importanti in quanto la Gran Bretagna ha deciso di non fare parte dell’”eurozona”. Dal raffronto non ne usciamo bene sia per la scarsità dei dettagli offerti (specialmente se il nostro Pnr è raffrontato con quelli di Germania e Francia). Ne emerge un suggerimento; cominciare a lavorare adesso al fine di presentare per il prossimo anno un Pnr corposo, un po’ come il PICO (Programma per l’Innovazione, la Crescita e la Competitività) curato nel 2005 da Paolo Savona, allora capo del Dipartimento Politiche Europee
Le femministe che spaventavano la Spagna carlista in Il Foglio 30 giugno
Le femministe che spaventavano la Spagna carlista
"I due Figaro" di Saverio Mercadante fu censurato per quasi un decennio. Oggi lo riscopriamo al Ravenna Festival
Nell’ambito del Festival di Pentecoste a Salisburgo e della XXII edizione del Ravenna Festival, è stata presentata un’opera di Saverio Mercadante (Altamura 1795- Napoli 1870) che si riteneva perduta e che è stata ritrovata quasi per caso un paio di anni fa da un giovane ricercatore negli archivi del Teatro Real di Madrid: “I due Figaro”. E’ il seguito delle “Nozze di Figaro”, basata su una commedia del 1791 scritta da Honoré-Antoine Richaud Martelly. L’allestimento chiude un ciclo quinquennale dedicato da Salisburgo e Ravenna (sotto la guida di Riccardo Muti) alla riscoperta della “Scuola Napoletana” di opera lirica. Verrà presentata al Teatro Real a Madrid la prossima stagione e dato il successo non si esclude che venga riproposto in una tournée in teatri “di tradizione” italiani (come già avvenuto, per esempio, per altre opere del ciclo).
Mercadante fu autore prolifico di opere (specialmente di argomento drammatico) e di musica sacra. Le sue partiture sono caratterizzate da un’elaborazione armonica sottile e ricercata, da una veste orchestrale raffinata e ricca di spunti, da una vocalità densa di tenuta inventiva. In breve, nell’ascoltare i suoi lavori si avverte il compiacimento per la bella pagina e per la cultura accademica. Era soprattutto timorato di Dio e gentile.
In altra sede sono stati trattati gli aspetti artistici della riscoperta. Per quale motivo la censura spagnola, pur essendo commissionata dai Palazzi reali, bloccò l’opera dal 1826 (anno del completamento della composizione) al 1835? E’ un interrogativo che pone interessanti problemi anche per quanto attiene ai rapporti tra musica e politica oggi.
In primo luogo il lavoro di Honoré-Antoine Richaud Martelly era noto e veniva rappresentato con frequenza (si ha traccia di repliche in mezza Europa sino al 1830-40): è una commedia degli equivoci su scambi di persona (e di letti), poteva essere letta come un’opera di pura evasione negli Anni del Terrore o anche come un elogio della borghesia in quelli della Restaurazione (dopo il Congresso di Vienna). In secondo luogo, il libretto di Felice Romani (il poeta, per intenderci, favorito da Bellini e Donizetti) era già stato messo in musica nel 1820 da Michele Carafa (rampollo di una ricca famiglia nobiliare napoletana) e veniva rappresentato correntemente all’ombra del Vesuvio nel Regno dei Borboni (non affatto indignati dal lavoro nonostante un paio di battute a doppio senso).
Cosa c’era nella versione di Saverio Mercadante da inquietare la censura tanto da vietarne la rappresentazione per circa un decennio? La concertazione di Muti, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, il Philarmonia Chor Wien e i setti bravi solisti lo mostrano a tutto tondo: la musica rende la pochade davvero rivoluzionaria sotto due aspetti che non avevano concepito né il buon Beaumarchais (nei capitoli precedenti della saga) né il semi-ignoto Richaud Martelly nel scriverne quello che vorrebbe esserne l’epilogo.
In primo luogo, come si è accennato, il lavoro è anti-Restaurazione in quanto la borghesia arricchita (Figaro innanzitutto) non vuole tornare all’antico. Il personaggio è affidato a un baritono dai toni pugnaci i cui interventi sono accompagnati da tensioni in orchestra. In secondo luogo, ma ancora più importante, la partitura di Mercadante rende il lavoro fortemente femminista (in una Spagna “carlista” in cui le donne erano tenute al “posto loro”, molto più di quanto non avvenisse nel Regno delle Due Sicilie – basta leggere “I Viceré” di Federico De Roberto per capirlo). E’ molto più femminista delle “Nozze di Figaro”, dove la Contessa e Susanna si accordano perché la prima finisca sotto le lenzuola del Conte, evitando l’atto alla seconda. In “I due Figaro” la Contessa, sua figlia Inez e l’ex-cameriera Susanna (moglie del factotum imborghesito) mettono in atto un imbroglio (compreso un finto tentativo di seduzione del Conte da parte di Susanna) per fare sì che i due protagonisti maschili vengano scornati, o meglio, sputtanati, di fronte a servi villici e borghesi di tutta Siviglia. Ancora una volta è la musica, i terzetti (o quartetti quando alle tre si aggiunge Cherubino, un contralto di agilità) più del libretto a dare corpo all’astuzia e alla vivacità femminile. Un messaggio da far paura nella Spagna “carlista”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
"I due Figaro" di Saverio Mercadante fu censurato per quasi un decennio. Oggi lo riscopriamo al Ravenna Festival
Nell’ambito del Festival di Pentecoste a Salisburgo e della XXII edizione del Ravenna Festival, è stata presentata un’opera di Saverio Mercadante (Altamura 1795- Napoli 1870) che si riteneva perduta e che è stata ritrovata quasi per caso un paio di anni fa da un giovane ricercatore negli archivi del Teatro Real di Madrid: “I due Figaro”. E’ il seguito delle “Nozze di Figaro”, basata su una commedia del 1791 scritta da Honoré-Antoine Richaud Martelly. L’allestimento chiude un ciclo quinquennale dedicato da Salisburgo e Ravenna (sotto la guida di Riccardo Muti) alla riscoperta della “Scuola Napoletana” di opera lirica. Verrà presentata al Teatro Real a Madrid la prossima stagione e dato il successo non si esclude che venga riproposto in una tournée in teatri “di tradizione” italiani (come già avvenuto, per esempio, per altre opere del ciclo).
Mercadante fu autore prolifico di opere (specialmente di argomento drammatico) e di musica sacra. Le sue partiture sono caratterizzate da un’elaborazione armonica sottile e ricercata, da una veste orchestrale raffinata e ricca di spunti, da una vocalità densa di tenuta inventiva. In breve, nell’ascoltare i suoi lavori si avverte il compiacimento per la bella pagina e per la cultura accademica. Era soprattutto timorato di Dio e gentile.
In altra sede sono stati trattati gli aspetti artistici della riscoperta. Per quale motivo la censura spagnola, pur essendo commissionata dai Palazzi reali, bloccò l’opera dal 1826 (anno del completamento della composizione) al 1835? E’ un interrogativo che pone interessanti problemi anche per quanto attiene ai rapporti tra musica e politica oggi.
In primo luogo il lavoro di Honoré-Antoine Richaud Martelly era noto e veniva rappresentato con frequenza (si ha traccia di repliche in mezza Europa sino al 1830-40): è una commedia degli equivoci su scambi di persona (e di letti), poteva essere letta come un’opera di pura evasione negli Anni del Terrore o anche come un elogio della borghesia in quelli della Restaurazione (dopo il Congresso di Vienna). In secondo luogo, il libretto di Felice Romani (il poeta, per intenderci, favorito da Bellini e Donizetti) era già stato messo in musica nel 1820 da Michele Carafa (rampollo di una ricca famiglia nobiliare napoletana) e veniva rappresentato correntemente all’ombra del Vesuvio nel Regno dei Borboni (non affatto indignati dal lavoro nonostante un paio di battute a doppio senso).
Cosa c’era nella versione di Saverio Mercadante da inquietare la censura tanto da vietarne la rappresentazione per circa un decennio? La concertazione di Muti, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, il Philarmonia Chor Wien e i setti bravi solisti lo mostrano a tutto tondo: la musica rende la pochade davvero rivoluzionaria sotto due aspetti che non avevano concepito né il buon Beaumarchais (nei capitoli precedenti della saga) né il semi-ignoto Richaud Martelly nel scriverne quello che vorrebbe esserne l’epilogo.
In primo luogo, come si è accennato, il lavoro è anti-Restaurazione in quanto la borghesia arricchita (Figaro innanzitutto) non vuole tornare all’antico. Il personaggio è affidato a un baritono dai toni pugnaci i cui interventi sono accompagnati da tensioni in orchestra. In secondo luogo, ma ancora più importante, la partitura di Mercadante rende il lavoro fortemente femminista (in una Spagna “carlista” in cui le donne erano tenute al “posto loro”, molto più di quanto non avvenisse nel Regno delle Due Sicilie – basta leggere “I Viceré” di Federico De Roberto per capirlo). E’ molto più femminista delle “Nozze di Figaro”, dove la Contessa e Susanna si accordano perché la prima finisca sotto le lenzuola del Conte, evitando l’atto alla seconda. In “I due Figaro” la Contessa, sua figlia Inez e l’ex-cameriera Susanna (moglie del factotum imborghesito) mettono in atto un imbroglio (compreso un finto tentativo di seduzione del Conte da parte di Susanna) per fare sì che i due protagonisti maschili vengano scornati, o meglio, sputtanati, di fronte a servi villici e borghesi di tutta Siviglia. Ancora una volta è la musica, i terzetti (o quartetti quando alle tre si aggiunge Cherubino, un contralto di agilità) più del libretto a dare corpo all’astuzia e alla vivacità femminile. Un messaggio da far paura nella Spagna “carlista”.
© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi
lunedì 27 giugno 2011
Così Tremonti rischia di perdere la partita della manovra in Il Sussidiario 28 giugno
Economia e Finanza
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SCENARIO/ 2. Così Tremonti rischia di perdere la partita della manovra
Giuseppe Pennisi
martedì 28 giugno 2011
Giulio Tremonti (Foto Ansa)
Approfondisci
J'ACCUSE/ Pelanda: ecco perché la manovra di "sinistra" del Governo affossa l'Italia
FINANZA/ Bertone: Italia, prossima vittima della speculazione?
vai allo speciale Manovra finanziaria 2011
Giovedì prossimo il Consiglio dei Ministri dovrebbe varare la manovra di finanza pubblica per il 2012-15 in linea con gli obiettivi del “semestre europeo” e del patto “euro-plus”: il raggiungimento del pareggio di bilancio e una drastica riduzione dello stock di debito pubblico in proporzione al Pil.
Le cifre che circolano nei Palazzi parlano di un aggiustamento di 40-45 miliardi di euro; un settimanale finanziario ha scritto addirittura 60 miliardi di euro. Sui contenuti circolano le voci più disparate in maniera tanto di metodo (un solo provvedimento o un “antipasto”, in attesa che il resto delle portate venga presentato negli anni futuri) quanto sulle specifiche.
La teoria economica può essere di aiuto nel rispondere ad alcune delle domande che ci si pone in queste ore. In primo luogo, la “teoria dei giochi” ci dice che Tremonti è alle prese con un gioco multiplo, ma simultaneo, su tavoli differenti e con giocatori pure essi differenti. Anche le poste in gioco differiscono. Per vincere, il Ministro deve fare, contemporaneamente, poker su due tavoli.
Su uno la posta è “la reputazione” e gli altri giocatori sono i partner europei e (i più temibili) i mercati internazionali. Sull’altro, la posta è “la popolarità” che si gioca con i portatori di interessi (spesso legittimi) e con gli elettori in senso lato. La “teoria delle scelte collettive” lo avverte che per fare poker (sull’uno e sull’altro tavolo) le misure i cui costi si spalmano su un numero tanto vasto di soggetti da non colpire nessuno con particolare forza sono quelle che pesano di meno in termini di “popolarità” e possono dare esiti migliori in termini di “reputazione”. Di converso, quelle che toccano pochi, ma li mordono, possono innescare reazioni dannose per “la popolarità” e per “la reputazione”. La “teoria economica dell’informazione”, infine, ci dice che comunicazioni o azioni contraddittorie possono mettere il giocatore a repentaglio su ambedue i tavoli.
Partiamo da quest’ultimo punto. Nel 1992-98, quando ci imbarcammo nel percorso verso la moneta unica, non seguimmo una strada lineare, ma a balzi. Dopo le maxi-manovre del Governo Amato, il Ministero Ciampi arrestò in sostanza il percorso pur continuando a parole a invocare la moneta unica come “la priorità delle priorità”. Dovettero metterci le pezze prima il Governo Dini e poi il Governo Prodi, in quanto i nostri partner, e i mercati, erano disorientati sui nostri effettivi obiettivi.
Se ne trae una lezione: giovedì è preferibile presentare un programma complessivo (anche se scaglionato su due-tre esercizi finanziari) con strumenti per il suo monitoraggio. Si darebbe un’indicazione di serietà sia sul tavolo della “reputazione”, sia su quello della “popolarità”. La comunicazione chiara è essenziale per fare poker; il bluff non paga, specialmente in caso di giochi ripetuti.
Veniamo al secondo punto. La “teoria delle scelte collettive” indica che tra le varie misure di cui si parla la più popolare e quella a cui è associato il maggior grado di reputazione è la riforma tributaria, ossia la riduzione del numero di tasse e imposte, nonché degli scaglioni di aliquote, l’introduzione di un fisco tarato alla famiglia (e tale da contribuire a risolvere il nodo centrale dei problemi economici dell’Italia: l’invecchiamento demografico causato dalla denatalità), la semplificazione del sistema specialmente della tassazione sulle rendite finanziarie. Sarebbe ancora più popolare se prevedesse l’abolizione dell’imposta di scopo più anacronistica e più odiata: il canone Rai.
È senza dubbio “popolare” e anche “reputazionale” la riduzione dei costi della politica, sempre che non si tratti di blaterare principalmente su auto blu e simili, ma si portino da subito (non dalla prossima legislatura) prebende varie alla media europea, si operi effettivamente sui rimborsi elettorali e su sovvenzioni a giornali-fantasma.
In materia di stipendi dei dipendenti pubblici e di pensioni c’è il pericolo, da un lato, di avere a che fare con interessi molto agguerriti e con il finire con molto rumore per nulla (varando misure prive di effetti concreti o che vengano annullate dai tribunali). Sarebbe molto più significativo varare un “programma delle scelte di bilancio” simile a quello che negli anni Ottanta ha portato la Francia da frequenti riallineamenti della moneta (modo elegante per parlare di svalutazioni) all’accordo del Louvre del 1987 sulla parità fissa tra franco e marco. Sarebbe saggio affidarlo al servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato.
Sarebbe “popolare” e “reputazionale” non solo un vasto piano di liberalizzazioni (con una “norma del tramonto”, secondo cui qualsiasi legge decade se non riapprovata entro un certo numero di anni), ma anche l’introduzione di competitività tra enti pubblici: la “premialità” ai Comuni con i conti in regola è un buon passo. Deve però essere accompagnata dalla cancellazione immediata di tutte quelle “contabilità speciali” - il solo Ministero dei Beni Culturali ne ha 324 - che rendono impossibile qualsiasi gestione efficace di bilancio e costano molto sul tavolo della “reputazione” pur se rendono qualcosa su quello della “popolarità” rispetto ad alcuni forti interessi costituiti.
Riuscirà il nostro eroe a fare il doppio poker simultaneamente? La teoria economica ci dice che ciò comporta un sistema di equazioni alle differenze finite. Ma siamo nella realtà effettiva di una società . E le equazioni alle differenze finite non ci aiutano più di tanto.
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SCENARIO/ 2. Così Tremonti rischia di perdere la partita della manovra
Giuseppe Pennisi
martedì 28 giugno 2011
Giulio Tremonti (Foto Ansa)
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J'ACCUSE/ Pelanda: ecco perché la manovra di "sinistra" del Governo affossa l'Italia
FINANZA/ Bertone: Italia, prossima vittima della speculazione?
vai allo speciale Manovra finanziaria 2011
Giovedì prossimo il Consiglio dei Ministri dovrebbe varare la manovra di finanza pubblica per il 2012-15 in linea con gli obiettivi del “semestre europeo” e del patto “euro-plus”: il raggiungimento del pareggio di bilancio e una drastica riduzione dello stock di debito pubblico in proporzione al Pil.
Le cifre che circolano nei Palazzi parlano di un aggiustamento di 40-45 miliardi di euro; un settimanale finanziario ha scritto addirittura 60 miliardi di euro. Sui contenuti circolano le voci più disparate in maniera tanto di metodo (un solo provvedimento o un “antipasto”, in attesa che il resto delle portate venga presentato negli anni futuri) quanto sulle specifiche.
La teoria economica può essere di aiuto nel rispondere ad alcune delle domande che ci si pone in queste ore. In primo luogo, la “teoria dei giochi” ci dice che Tremonti è alle prese con un gioco multiplo, ma simultaneo, su tavoli differenti e con giocatori pure essi differenti. Anche le poste in gioco differiscono. Per vincere, il Ministro deve fare, contemporaneamente, poker su due tavoli.
Su uno la posta è “la reputazione” e gli altri giocatori sono i partner europei e (i più temibili) i mercati internazionali. Sull’altro, la posta è “la popolarità” che si gioca con i portatori di interessi (spesso legittimi) e con gli elettori in senso lato. La “teoria delle scelte collettive” lo avverte che per fare poker (sull’uno e sull’altro tavolo) le misure i cui costi si spalmano su un numero tanto vasto di soggetti da non colpire nessuno con particolare forza sono quelle che pesano di meno in termini di “popolarità” e possono dare esiti migliori in termini di “reputazione”. Di converso, quelle che toccano pochi, ma li mordono, possono innescare reazioni dannose per “la popolarità” e per “la reputazione”. La “teoria economica dell’informazione”, infine, ci dice che comunicazioni o azioni contraddittorie possono mettere il giocatore a repentaglio su ambedue i tavoli.
Partiamo da quest’ultimo punto. Nel 1992-98, quando ci imbarcammo nel percorso verso la moneta unica, non seguimmo una strada lineare, ma a balzi. Dopo le maxi-manovre del Governo Amato, il Ministero Ciampi arrestò in sostanza il percorso pur continuando a parole a invocare la moneta unica come “la priorità delle priorità”. Dovettero metterci le pezze prima il Governo Dini e poi il Governo Prodi, in quanto i nostri partner, e i mercati, erano disorientati sui nostri effettivi obiettivi.
Se ne trae una lezione: giovedì è preferibile presentare un programma complessivo (anche se scaglionato su due-tre esercizi finanziari) con strumenti per il suo monitoraggio. Si darebbe un’indicazione di serietà sia sul tavolo della “reputazione”, sia su quello della “popolarità”. La comunicazione chiara è essenziale per fare poker; il bluff non paga, specialmente in caso di giochi ripetuti.
Veniamo al secondo punto. La “teoria delle scelte collettive” indica che tra le varie misure di cui si parla la più popolare e quella a cui è associato il maggior grado di reputazione è la riforma tributaria, ossia la riduzione del numero di tasse e imposte, nonché degli scaglioni di aliquote, l’introduzione di un fisco tarato alla famiglia (e tale da contribuire a risolvere il nodo centrale dei problemi economici dell’Italia: l’invecchiamento demografico causato dalla denatalità), la semplificazione del sistema specialmente della tassazione sulle rendite finanziarie. Sarebbe ancora più popolare se prevedesse l’abolizione dell’imposta di scopo più anacronistica e più odiata: il canone Rai.
È senza dubbio “popolare” e anche “reputazionale” la riduzione dei costi della politica, sempre che non si tratti di blaterare principalmente su auto blu e simili, ma si portino da subito (non dalla prossima legislatura) prebende varie alla media europea, si operi effettivamente sui rimborsi elettorali e su sovvenzioni a giornali-fantasma.
In materia di stipendi dei dipendenti pubblici e di pensioni c’è il pericolo, da un lato, di avere a che fare con interessi molto agguerriti e con il finire con molto rumore per nulla (varando misure prive di effetti concreti o che vengano annullate dai tribunali). Sarebbe molto più significativo varare un “programma delle scelte di bilancio” simile a quello che negli anni Ottanta ha portato la Francia da frequenti riallineamenti della moneta (modo elegante per parlare di svalutazioni) all’accordo del Louvre del 1987 sulla parità fissa tra franco e marco. Sarebbe saggio affidarlo al servizio studi della Ragioneria Generale dello Stato.
Sarebbe “popolare” e “reputazionale” non solo un vasto piano di liberalizzazioni (con una “norma del tramonto”, secondo cui qualsiasi legge decade se non riapprovata entro un certo numero di anni), ma anche l’introduzione di competitività tra enti pubblici: la “premialità” ai Comuni con i conti in regola è un buon passo. Deve però essere accompagnata dalla cancellazione immediata di tutte quelle “contabilità speciali” - il solo Ministero dei Beni Culturali ne ha 324 - che rendono impossibile qualsiasi gestione efficace di bilancio e costano molto sul tavolo della “reputazione” pur se rendono qualcosa su quello della “popolarità” rispetto ad alcuni forti interessi costituiti.
Riuscirà il nostro eroe a fare il doppio poker simultaneamente? La teoria economica ci dice che ciò comporta un sistema di equazioni alle differenze finite. Ma siamo nella realtà effettiva di una società . E le equazioni alle differenze finite non ci aiutano più di tanto.
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GLI Africani conquistano Ravenna e ci spiegano la musica contemporanea in Il Rifomista 28 giugno
GLI Africani conquistano Ravenna e ci spiegano la musica contemporanea
Beckmesser
Gran parte della critica musicale si è soffermata sulla riscoperta dell’opera di Mercadante (vedi Box) e sui grandi concerti (Abbado, Mehta, Nagano, Salonen , Campanella e, ovviamente, Muti) che caratterizzano la XII edizione del Ravenna Festival (oltre 60 spettacoli e 20 eventi collaterali, dal 5 giugno all’8 luglio, tra cui un concerto replicato a Piacenza, le cui masse artistiche collaborano alla manifestazione ed all’Hururu Park, Parco dell’Indipendenza, di Nairobi nel quadro del programma “le vie dell’amicizia” che ogni anno collega Ravenna con Paesi e mondi lontani).
Pochi commentatori hanno posto l’accento, non solo sulla musica religiosa, che ha sempre caratterizzato Ravenna come crogiolo di Fedi, ma soprattutto sulla specificità dell’attenzione alla musica africana. Oltre al concerto a Nairobi, i concerti di musica africana ed un’opera prodotta inizialmente a Capetwon rappresentano una parte importante del Festival. La musica africana - si badi bene - ha influito molto sul Novecento Storico , non solamente tramite le letture fattene da americani (si pensi a Gershwin) che avevano tuttavia come fonte d’ispirazione i canti degli afro-americani, ma anche tramite compositori europei. Si pensi a Ernst Kreneck (ed al suo Jonny Spielt Auf che debutto con successo a Dresda nel 1927 e pochi anni dopo veniva incluso dai nazisti tra la “musica degenerata”. Incise sul Novocento europeo sia con il ritmo che quella serialità che era diventata una caratteristica della dodecafonia. In Italia, si pensi ha come ha ispirato le sonate per una nota sola di Giacinto Scelsi.
Quindi, il programma in corso a Ravenna (e dintorni) non è soltanto una curiosità ma un’occasione per rileggere anche la nostra musica contemporanea.
Tra i lavori significativi, il concerto del gruppo congolese Staff Benda Bilili, un gruppo di “diversamente abili”, che con un’esplosione di gioia, è partito dagli slums e della zoo di Kinshasa per approdare alle maggiori sale di concerto europee (come il parigino Olympia) e quello, molto politico, del nigeriano Seun Kuti che aiuta a comprendere il movimento verso la democrazia in anno in Nord Africa e nel resto del Continente.
La vera chicca è la prima italiana (dal 30 giugno al 3 luglio) dell’adattamento del mozartiano “Flauto Magico” effettuato, per una compagnia musicale di Capetwon, dal regista britannico Mark-Dorford May e dalla regista sud-africana Janet Suzman. Di adattamenti dell’ultima (o penultima) opera di Mozart se ne sono visti ed ascoltati moltissimi: da quelli per bambini a quello dell’Orchestra Multi-etnica di Piazza Vittorio (che da Roma ha girato molti Paesi europei). Quello che sorprende di questa edizione africana è lo scrupolo del rigore nel mantenere ogni nota della partitura del salirburghese, pur adattando la strumentazione a marimbe, trombe, percussioni ed archi africani, e traducendo il testo dal tedesco alla lingua Xhosa. Sotto il profilo drammaturgico, la regia esalta la parte “magica”, irreale, della favola e volutamente sfuma (quasi sino a farla sparire) quella massonica (che poco vorrebbe dire agli spettatori). La ricerca della pace viene assunto, correttamente, come tema di fondo del lavoro. Ottime le voci e l’orchestra. Merita di essere visto ed ascoltato in altre città italiane.
BOX
Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, si è visto ed ascoltato , dal 24 al 26 giugno, al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per ,caso di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. E’ un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segno importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano.I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Annalisa Stroppa,, un contralto di agilità che promette un’importante carriera internazionale. Grande successo e di pubblico e di critica.
Beckmesser
Gran parte della critica musicale si è soffermata sulla riscoperta dell’opera di Mercadante (vedi Box) e sui grandi concerti (Abbado, Mehta, Nagano, Salonen , Campanella e, ovviamente, Muti) che caratterizzano la XII edizione del Ravenna Festival (oltre 60 spettacoli e 20 eventi collaterali, dal 5 giugno all’8 luglio, tra cui un concerto replicato a Piacenza, le cui masse artistiche collaborano alla manifestazione ed all’Hururu Park, Parco dell’Indipendenza, di Nairobi nel quadro del programma “le vie dell’amicizia” che ogni anno collega Ravenna con Paesi e mondi lontani).
Pochi commentatori hanno posto l’accento, non solo sulla musica religiosa, che ha sempre caratterizzato Ravenna come crogiolo di Fedi, ma soprattutto sulla specificità dell’attenzione alla musica africana. Oltre al concerto a Nairobi, i concerti di musica africana ed un’opera prodotta inizialmente a Capetwon rappresentano una parte importante del Festival. La musica africana - si badi bene - ha influito molto sul Novecento Storico , non solamente tramite le letture fattene da americani (si pensi a Gershwin) che avevano tuttavia come fonte d’ispirazione i canti degli afro-americani, ma anche tramite compositori europei. Si pensi a Ernst Kreneck (ed al suo Jonny Spielt Auf che debutto con successo a Dresda nel 1927 e pochi anni dopo veniva incluso dai nazisti tra la “musica degenerata”. Incise sul Novocento europeo sia con il ritmo che quella serialità che era diventata una caratteristica della dodecafonia. In Italia, si pensi ha come ha ispirato le sonate per una nota sola di Giacinto Scelsi.
Quindi, il programma in corso a Ravenna (e dintorni) non è soltanto una curiosità ma un’occasione per rileggere anche la nostra musica contemporanea.
Tra i lavori significativi, il concerto del gruppo congolese Staff Benda Bilili, un gruppo di “diversamente abili”, che con un’esplosione di gioia, è partito dagli slums e della zoo di Kinshasa per approdare alle maggiori sale di concerto europee (come il parigino Olympia) e quello, molto politico, del nigeriano Seun Kuti che aiuta a comprendere il movimento verso la democrazia in anno in Nord Africa e nel resto del Continente.
La vera chicca è la prima italiana (dal 30 giugno al 3 luglio) dell’adattamento del mozartiano “Flauto Magico” effettuato, per una compagnia musicale di Capetwon, dal regista britannico Mark-Dorford May e dalla regista sud-africana Janet Suzman. Di adattamenti dell’ultima (o penultima) opera di Mozart se ne sono visti ed ascoltati moltissimi: da quelli per bambini a quello dell’Orchestra Multi-etnica di Piazza Vittorio (che da Roma ha girato molti Paesi europei). Quello che sorprende di questa edizione africana è lo scrupolo del rigore nel mantenere ogni nota della partitura del salirburghese, pur adattando la strumentazione a marimbe, trombe, percussioni ed archi africani, e traducendo il testo dal tedesco alla lingua Xhosa. Sotto il profilo drammaturgico, la regia esalta la parte “magica”, irreale, della favola e volutamente sfuma (quasi sino a farla sparire) quella massonica (che poco vorrebbe dire agli spettatori). La ricerca della pace viene assunto, correttamente, come tema di fondo del lavoro. Ottime le voci e l’orchestra. Merita di essere visto ed ascoltato in altre città italiane.
BOX
Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, si è visto ed ascoltato , dal 24 al 26 giugno, al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per ,caso di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. E’ un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segno importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano.I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Annalisa Stroppa,, un contralto di agilità che promette un’importante carriera internazionale. Grande successo e di pubblico e di critica.
I due Figaro" di Mercadante, rinati con Riccardo Muti in Il Sussidiario 28 giugno
RAVENNA FESTIVAL/ "I due Figaro" di Mercadante, rinati con Riccardo Muti
Giuseppe Pennisi
martedì 28 giugno 2011
I due Figaro di Mercadante in scena
Approfondisci
PUCCINI/ L'orchestrazione in primo piano ne "La bohème" diretta da James Conlon
PAT METHENY/ "What's It All About", viaggio nella memoria a bordo di una chitarra acustica
Non so se il progetto quinquennale che ha associato i Festival di Salisburgo e Ravenna potrà dare nuova vita alla “Scuola Napoletana”, ma l’ultima delle cinque opere (coprodotta con il Teatro Real di Madrid) senza dubbio riporterà l’attenzione di sovrintendenti e pubblico su Saverio Mercadante.
Andiamo con ordine. Sono essenzialmente d’accordo con il compianto Francesco Degrada, uno dei musicologi che più hanno studiato il teatro musicale italiano del Seicento e Settecento, il quale in un saggio degli Anni Settanta ha ampiamente documentato come la cosidetta “Scuola Napoletana” non sia mai esistita in quanto a unità di tendenza o di stile.
Indubbiamente, Cimarosa, Scarlatti, Pergolesi, Jommelli , Provenzale, Vici, Anfossi, Traetta, Leo, Durante, Vaccaj e via discorrendo sono stati compositori di grande levatura che ebbero una grande influenza in Italia e, tramite, la querelles des bouffons (la polemica tra il teatro d’opera italiano e quello francese che appassionò Parigi alla vigilia quasi della rivoluzione, all’estero). Ma i nomi associati alla “Scuola” rappresentano stili e approcci così ampi che la “Scuola”, abbracciando tutto, risulterebbe così eclettica da non significare un bel nulla.
Concentriamoci, quindi, su Mercadante, le cui opere più note - Il Giuramento, Il Bravo e Gli Orazi ed i Curazi - sono state riprese con successo in tempi moderni e alla loro epoca vennero considerate alternative al melodramma verdiano. Saverio Mercadante (Altamura 1795- Napoli 1870) fu autore prolifico di opere (specialmente di argomento drammatico) e di musica sacra. Le sue partiture sono caratterizzate da un’elaborazione armonica sottile e ricercata, da una veste orchestrale raffinata e ricca di spunti, da una vocalità ricca di tenuta inventiva. In breve, nell’ascoltare i suoi lavori si avverte il compiacimento per la bella pagina e per la cultura accademica.
I Due Figaro, la cui partitura è stata scoperta quasi per caso da un giovane ricercatore negli archivi del Teatro Reale di Madrid, fa conoscere un Mercadante differente da quello dei suoi lavori ripresi negli ultimi cinquant’anni. L’opera nasce in una fase in cui, lasciata Napoli, Mercadante lavorava in Spagna e Portogallo. L’origine è una commissione del Teatro Reale di Madrid su un libretto di Felice Romani già messo in musica da Michele Carafa (ne esiste un Dvd curato dall’editore Bongiovanni). Romani si basava su un seguito, non autorizzato, de Le Nozze di Figaro di Beaumarchais presentato a Parigi nel 1791 da tale Honoré-Antoine Richaud Martelly. La commedia deve avere avuto successo perché è stata ripresa più volte e tradotta in varie lingue sino alla fine dell’età Napoleonica. È una pièce di pura evasione, quale poteva attirare il pubblico nell’Europa della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
Una commedia di equivoci e di travestimenti in cui a un Figaro diventato padrone del Castello (tutti sembrano rinnegare l’autorità del Conte d’Almaviva) si contrappone un Cherubino (ormai maturo) travestito negli abiti dell’ex-factotum. In effetti, quando Mercadante compone l’opera siamo in piena restaurazione. Una restaurazione a cui la borghesia (Figaro, Cherubino travestito da Figaro, Ines figlia del Conte) si oppone.
C’è anche un tocco pre-pirandelliano (analogo a quello del rossiniano Il Turco in Italia): uno dei personaggi è un letterato con l’ambizione di scrivere una commedia - proprio una commedia si dipana di fronte ai suoi occhi. La commedia non scende mai in farsa - il libretto lo chiama “melodramma” nel senso etimologico di azione scenica in musica - e non manca un pizzico di satira politica (quindi, gli ostacoli frapposti dalla censura dal 1826 al 1835, quando il lavoro andò finalmente in scena).
Dall'overture iniziale, in cui elementi di musica spagnola (bolero, fandango), si inseriscono in una struttura tradizionale che anticipa i temi dell’opera, avvertiamo che siamo lontani dal teatro comico napoletano: siamo nel mondo semi-serio di Mozart e Donizetti, con grande attenzione all’eleganza formale, ma anche con un significato etico (i “birboni” vengono puniti dalle dissonanze prima e più ancora che dal libretto).
Muti accarezza con cura la partitura, affidata all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini (il coro è il Philarmonia Chorus Vienna). La regia di Emilio Sagi, le scene di Daniel Bianco e i costumi di Jesùs Luiz ci portano in un mondo quasi viscontiano (quello delle celeberrime Nozze di Figaro prodotte per il Teatro dell’Opera di Roma negli Anni Settanta e riprese con successo negli Anni Novanta). Un mondo, quindi, non di farsa ma di “commedia per adulti” densa di significato etico-morale (i malintenzionati sono puniti dalla partitura prima che dal libretto)
.
Di alto livello il cast di giovani scelto con cura da Muti. Il gruppo femminile (Rosa Feola, Asude Karayavuz, Eleonora Buratto e, soprattutto, Annalisa Stroppa) è leggermente migliore di quello maschile (Antonio Poli, Mario Cassi, Anicio Giorgio Giustiniani, Omar Montanari). Posso scommettere che “saranno famosi" Annalisi Stroppa, un eccellente contralto, e Antonio Poli, un tenore lirico di grande agilità.
Giuseppe Pennisi
martedì 28 giugno 2011
I due Figaro di Mercadante in scena
Approfondisci
PUCCINI/ L'orchestrazione in primo piano ne "La bohème" diretta da James Conlon
PAT METHENY/ "What's It All About", viaggio nella memoria a bordo di una chitarra acustica
Non so se il progetto quinquennale che ha associato i Festival di Salisburgo e Ravenna potrà dare nuova vita alla “Scuola Napoletana”, ma l’ultima delle cinque opere (coprodotta con il Teatro Real di Madrid) senza dubbio riporterà l’attenzione di sovrintendenti e pubblico su Saverio Mercadante.
Andiamo con ordine. Sono essenzialmente d’accordo con il compianto Francesco Degrada, uno dei musicologi che più hanno studiato il teatro musicale italiano del Seicento e Settecento, il quale in un saggio degli Anni Settanta ha ampiamente documentato come la cosidetta “Scuola Napoletana” non sia mai esistita in quanto a unità di tendenza o di stile.
Indubbiamente, Cimarosa, Scarlatti, Pergolesi, Jommelli , Provenzale, Vici, Anfossi, Traetta, Leo, Durante, Vaccaj e via discorrendo sono stati compositori di grande levatura che ebbero una grande influenza in Italia e, tramite, la querelles des bouffons (la polemica tra il teatro d’opera italiano e quello francese che appassionò Parigi alla vigilia quasi della rivoluzione, all’estero). Ma i nomi associati alla “Scuola” rappresentano stili e approcci così ampi che la “Scuola”, abbracciando tutto, risulterebbe così eclettica da non significare un bel nulla.
Concentriamoci, quindi, su Mercadante, le cui opere più note - Il Giuramento, Il Bravo e Gli Orazi ed i Curazi - sono state riprese con successo in tempi moderni e alla loro epoca vennero considerate alternative al melodramma verdiano. Saverio Mercadante (Altamura 1795- Napoli 1870) fu autore prolifico di opere (specialmente di argomento drammatico) e di musica sacra. Le sue partiture sono caratterizzate da un’elaborazione armonica sottile e ricercata, da una veste orchestrale raffinata e ricca di spunti, da una vocalità ricca di tenuta inventiva. In breve, nell’ascoltare i suoi lavori si avverte il compiacimento per la bella pagina e per la cultura accademica.
I Due Figaro, la cui partitura è stata scoperta quasi per caso da un giovane ricercatore negli archivi del Teatro Reale di Madrid, fa conoscere un Mercadante differente da quello dei suoi lavori ripresi negli ultimi cinquant’anni. L’opera nasce in una fase in cui, lasciata Napoli, Mercadante lavorava in Spagna e Portogallo. L’origine è una commissione del Teatro Reale di Madrid su un libretto di Felice Romani già messo in musica da Michele Carafa (ne esiste un Dvd curato dall’editore Bongiovanni). Romani si basava su un seguito, non autorizzato, de Le Nozze di Figaro di Beaumarchais presentato a Parigi nel 1791 da tale Honoré-Antoine Richaud Martelly. La commedia deve avere avuto successo perché è stata ripresa più volte e tradotta in varie lingue sino alla fine dell’età Napoleonica. È una pièce di pura evasione, quale poteva attirare il pubblico nell’Europa della rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche.
Una commedia di equivoci e di travestimenti in cui a un Figaro diventato padrone del Castello (tutti sembrano rinnegare l’autorità del Conte d’Almaviva) si contrappone un Cherubino (ormai maturo) travestito negli abiti dell’ex-factotum. In effetti, quando Mercadante compone l’opera siamo in piena restaurazione. Una restaurazione a cui la borghesia (Figaro, Cherubino travestito da Figaro, Ines figlia del Conte) si oppone.
C’è anche un tocco pre-pirandelliano (analogo a quello del rossiniano Il Turco in Italia): uno dei personaggi è un letterato con l’ambizione di scrivere una commedia - proprio una commedia si dipana di fronte ai suoi occhi. La commedia non scende mai in farsa - il libretto lo chiama “melodramma” nel senso etimologico di azione scenica in musica - e non manca un pizzico di satira politica (quindi, gli ostacoli frapposti dalla censura dal 1826 al 1835, quando il lavoro andò finalmente in scena).
Dall'overture iniziale, in cui elementi di musica spagnola (bolero, fandango), si inseriscono in una struttura tradizionale che anticipa i temi dell’opera, avvertiamo che siamo lontani dal teatro comico napoletano: siamo nel mondo semi-serio di Mozart e Donizetti, con grande attenzione all’eleganza formale, ma anche con un significato etico (i “birboni” vengono puniti dalle dissonanze prima e più ancora che dal libretto).
Muti accarezza con cura la partitura, affidata all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini (il coro è il Philarmonia Chorus Vienna). La regia di Emilio Sagi, le scene di Daniel Bianco e i costumi di Jesùs Luiz ci portano in un mondo quasi viscontiano (quello delle celeberrime Nozze di Figaro prodotte per il Teatro dell’Opera di Roma negli Anni Settanta e riprese con successo negli Anni Novanta). Un mondo, quindi, non di farsa ma di “commedia per adulti” densa di significato etico-morale (i malintenzionati sono puniti dalla partitura prima che dal libretto)
.
Di alto livello il cast di giovani scelto con cura da Muti. Il gruppo femminile (Rosa Feola, Asude Karayavuz, Eleonora Buratto e, soprattutto, Annalisa Stroppa) è leggermente migliore di quello maschile (Antonio Poli, Mario Cassi, Anicio Giorgio Giustiniani, Omar Montanari). Posso scommettere che “saranno famosi" Annalisi Stroppa, un eccellente contralto, e Antonio Poli, un tenore lirico di grande agilità.
domenica 26 giugno 2011
I LIBRI DEI MINISTRI: PAOLO ROMANI: LA STRATEGIA ECONOMICA VINCENTE in IL RIFORMISTA 24 GIUGNO
I LIBRI DEI MINISTRI: PAOLO ROMANI
LA STRATEGIA ECONOMICA VICENTE
Giuseppe Pennisi
Al Ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani piacerebbe vedere l’Italia correre ad un tasso almeno pari alla metà del 3,5% a cui galoppa la Germania. In un’eurozona che avanza mediamente sull’1.9% , ed in cui Grecia e Spagna paiono scivolare verso nuove recessioni , l’Italia arranca attorno all’1% l’anno, ma la metà circa dei 20 maggiori istituti di analisi econometrica avvertono che il 2012 potrebbe essere ancora meno buono del 2011.
Sulla sua scrivania sono in bella vista due saggi recenti , ancora inediti ma ottenuti tramite l’attenta rete di rappresentanze all’estero (Ambasciate, ICE, Istitituti di Cultura). Il primo viene dalla lontana Università della Malaya nei pressi di Kuala Lumpur . Ne è autore Mario Arturo Ruiz Estrada, giovane e brillante economista dello sviluppo che dal Guatemala si è trasferito nel Sud Est Asiatico. Esamina – lo dice lo stesso titolo- la “Economic Desgrowth”, la decrescita economica e propone indicatori economici per individuarla (passo essenziale per fare una diagnosi e trovare una terapia). Gli indicatori si aggirano come spettri nello studio di Romani. Più positivo l’altro lavoro “The Paradox of Liberalization- Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy” (Il paradosso della liberalizzazione: comprendere il dualismo e la ripresa della politica economica tedesca”) di Anke Hassel della Università di Hertie, nella Repubblica Federale (da tanti invidiata). L’analisi studia come le liberalizzazioni abbiano aiutato la transizione dell’economia tedesca negli anni dell’unificazione e nel primo decennio dell’unione monetaria europea. A differenza di altri lavori sottolinea come le liberalizzazioni siano state accompagnate da strategie per rafforzare la coesione sociale, migliorare il coordinamento tra varie categorie di lavoratori ed integrare il settore dei servizi nel manifatturiero. Ciò ha alimentato grandi industrie diventate campioni sui mercati mondiali.
Queste strategie si sono innescate su determinanti di lungo periodo: negli Anni Sessanta le hanno individuate con cura due economisti – uno americano, Charles Kindleberger, ed uno ungherese, Ferenc Janossy – che non si sono mai incontrati ed appartenevano a scuole di pensiero contrapposte (Janossy era rigorosamente marxista). La Repubblica federale ha una dotazione ricchissima di risorse umane molto competenti, molto flessibili (un accordo analogo a quelli per Pomigliano e Mirafiori è stato fatto alla Volkswagen circa 20 anni fa), propense al risparmio, contenute nei consumi (nel cui ambito preferiscono quelli culturali – grandi lettori di libri e giornali e frequentatori di sale di concerto e teatri- tali da arricchire ulteriormente.
Soprattutto nel periodo 1990-2010 è stata ristrutturata la “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna ed altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente ed ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’ outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
Altro elemento importante: le medie imprese : prevale la meccanica, che genera il 46% dei ricavi complessivi del comparto; circa il 43% del fatturato proviene da quelle che operano nella fascia alta e medio-alta della tecnologia, contro il 30% in Italia e il 27% in Spagna; soprattutto hanno ampliato gradualmente le loro dimensioni, tramite fusioni ed acquisizioni, nell’ultimo quarto di secolo per fare fronte a vincoli di liquidità e difficoltà di crescita del capitale umano (due caratteristiche di aziende troppo piccole). Da noi le imprese restano lillipuziane pure a ragione di incentivi perversi (sulle dimensioni aziendali) provenienti dalla legislazione lavoristica).
Il Ministro medita: è compito unicamente della politica od anche dell’imprenditoria?
LA STRATEGIA ECONOMICA VICENTE
Giuseppe Pennisi
Al Ministro dello Sviluppo Economico Paolo Romani piacerebbe vedere l’Italia correre ad un tasso almeno pari alla metà del 3,5% a cui galoppa la Germania. In un’eurozona che avanza mediamente sull’1.9% , ed in cui Grecia e Spagna paiono scivolare verso nuove recessioni , l’Italia arranca attorno all’1% l’anno, ma la metà circa dei 20 maggiori istituti di analisi econometrica avvertono che il 2012 potrebbe essere ancora meno buono del 2011.
Sulla sua scrivania sono in bella vista due saggi recenti , ancora inediti ma ottenuti tramite l’attenta rete di rappresentanze all’estero (Ambasciate, ICE, Istitituti di Cultura). Il primo viene dalla lontana Università della Malaya nei pressi di Kuala Lumpur . Ne è autore Mario Arturo Ruiz Estrada, giovane e brillante economista dello sviluppo che dal Guatemala si è trasferito nel Sud Est Asiatico. Esamina – lo dice lo stesso titolo- la “Economic Desgrowth”, la decrescita economica e propone indicatori economici per individuarla (passo essenziale per fare una diagnosi e trovare una terapia). Gli indicatori si aggirano come spettri nello studio di Romani. Più positivo l’altro lavoro “The Paradox of Liberalization- Understanding Dualism and the Recovery of the German Political Economy” (Il paradosso della liberalizzazione: comprendere il dualismo e la ripresa della politica economica tedesca”) di Anke Hassel della Università di Hertie, nella Repubblica Federale (da tanti invidiata). L’analisi studia come le liberalizzazioni abbiano aiutato la transizione dell’economia tedesca negli anni dell’unificazione e nel primo decennio dell’unione monetaria europea. A differenza di altri lavori sottolinea come le liberalizzazioni siano state accompagnate da strategie per rafforzare la coesione sociale, migliorare il coordinamento tra varie categorie di lavoratori ed integrare il settore dei servizi nel manifatturiero. Ciò ha alimentato grandi industrie diventate campioni sui mercati mondiali.
Queste strategie si sono innescate su determinanti di lungo periodo: negli Anni Sessanta le hanno individuate con cura due economisti – uno americano, Charles Kindleberger, ed uno ungherese, Ferenc Janossy – che non si sono mai incontrati ed appartenevano a scuole di pensiero contrapposte (Janossy era rigorosamente marxista). La Repubblica federale ha una dotazione ricchissima di risorse umane molto competenti, molto flessibili (un accordo analogo a quelli per Pomigliano e Mirafiori è stato fatto alla Volkswagen circa 20 anni fa), propense al risparmio, contenute nei consumi (nel cui ambito preferiscono quelli culturali – grandi lettori di libri e giornali e frequentatori di sale di concerto e teatri- tali da arricchire ulteriormente.
Soprattutto nel periodo 1990-2010 è stata ristrutturata la “catena del valore” (ossia come ci si organizza per aumentare il valore di ciò che si produce) avvenuta negli ultimi 20 anni (l’accordo Volkswagen può essere preso come spartiacque): mentre Francia, Italia, Spagna ed altri scorporavano i servizi dal manifatturiero (tramite varie forme di outsourcing), in Germania le imprese accentuavano l’integrazione dei servizi nel manifatturiero. Strategia che è risultata vincente ed ha permesso sia economia di scala sia internazionalizzazione di esternalità tecnologiche, mentre sovente l’ outsourcing ha spesso portato i servizi scorporati nel labirinto poco efficiente della regolazione di competenza di enti locali.
Altro elemento importante: le medie imprese : prevale la meccanica, che genera il 46% dei ricavi complessivi del comparto; circa il 43% del fatturato proviene da quelle che operano nella fascia alta e medio-alta della tecnologia, contro il 30% in Italia e il 27% in Spagna; soprattutto hanno ampliato gradualmente le loro dimensioni, tramite fusioni ed acquisizioni, nell’ultimo quarto di secolo per fare fronte a vincoli di liquidità e difficoltà di crescita del capitale umano (due caratteristiche di aziende troppo piccole). Da noi le imprese restano lillipuziane pure a ragione di incentivi perversi (sulle dimensioni aziendali) provenienti dalla legislazione lavoristica).
Il Ministro medita: è compito unicamente della politica od anche dell’imprenditoria?
Bohème, a Roma svelato il fulgore della partitura in Milano Finanza 25 giugno
InScena
Bohème, a Roma svelato il fulgore della partitura
La Bohème in scena al Teatro dell'Opera di Roma sino al 28 giugno sfata il mito secondo cui uno dei più popolari lavori pucciniani sia un capolavoro in cui dominano le voci in arie, romanze e duetti noti al grande pubblico. Molti dimenticano che l'opera venne tenuta a battesimo da Arturo Toscanini e che Leonard Bernstein e Herbert von Karajan la consideravano la loro favorita.
A Roma il grande direttore americano James Conlon, specializzatosi in musica del Novecento, svela come la partitura non sia principalmente di supporto al canto (come in gran parte del melodramma verdiano o del grand-opéra padano di fine Ottocento) ma ricchissima, e per l'epoca, ardita. Puccini aveva assimilato la lezione di Wagner e in Bohème circa 15 temi si intrecciano in sonorità sempre nuove e con dissonanze tali da anticipare Richard Strauss. Tra le voci, una scoperta: il giovane soprano georgiano Hibla Gerzmava (Mimi) con un timbro al tempo stesso rotondo e dolcissimo. Ramòn Vargas (Rodolfo) è sulle scene da oltre trent'anni; grazie all'esperienza scansa abilmente alcuni acuti, ma mantiene una voce lucente ed eccelle nei «legato» e nelle «mezze-voci». Patrizia Ciofi è una Musetta pimpante e divertente. Franco Vassallo interpreta un Marcello di rango. Bravi gli altri, specialmente il coro di bambini (al debutto in un grande teatro). L'allestimento scenico ha diversi lustri sulle spalle. È stato realizzato da Pierluigi Samaritani per il Massimo Bellini di Catania ec è ancora fresco e struggente, nonché molto più economico di quello realizzato dal maggiore competitore (Zeffirelli). La regia di Marco Gandini è efficace, le scene sono curate dal laboratorio del Teatro dell'Opera sotto la guida di Anna Biagiotti. (riproduzione riservata)
di Giuseppe Pennisi
Bohème, a Roma svelato il fulgore della partitura
La Bohème in scena al Teatro dell'Opera di Roma sino al 28 giugno sfata il mito secondo cui uno dei più popolari lavori pucciniani sia un capolavoro in cui dominano le voci in arie, romanze e duetti noti al grande pubblico. Molti dimenticano che l'opera venne tenuta a battesimo da Arturo Toscanini e che Leonard Bernstein e Herbert von Karajan la consideravano la loro favorita.
A Roma il grande direttore americano James Conlon, specializzatosi in musica del Novecento, svela come la partitura non sia principalmente di supporto al canto (come in gran parte del melodramma verdiano o del grand-opéra padano di fine Ottocento) ma ricchissima, e per l'epoca, ardita. Puccini aveva assimilato la lezione di Wagner e in Bohème circa 15 temi si intrecciano in sonorità sempre nuove e con dissonanze tali da anticipare Richard Strauss. Tra le voci, una scoperta: il giovane soprano georgiano Hibla Gerzmava (Mimi) con un timbro al tempo stesso rotondo e dolcissimo. Ramòn Vargas (Rodolfo) è sulle scene da oltre trent'anni; grazie all'esperienza scansa abilmente alcuni acuti, ma mantiene una voce lucente ed eccelle nei «legato» e nelle «mezze-voci». Patrizia Ciofi è una Musetta pimpante e divertente. Franco Vassallo interpreta un Marcello di rango. Bravi gli altri, specialmente il coro di bambini (al debutto in un grande teatro). L'allestimento scenico ha diversi lustri sulle spalle. È stato realizzato da Pierluigi Samaritani per il Massimo Bellini di Catania ec è ancora fresco e struggente, nonché molto più economico di quello realizzato dal maggiore competitore (Zeffirelli). La regia di Marco Gandini è efficace, le scene sono curate dal laboratorio del Teatro dell'Opera sotto la guida di Anna Biagiotti. (riproduzione riservata)
di Giuseppe Pennisi
giovedì 23 giugno 2011
Così tra ritardi e gelosie l’Europa si perde Atene in Avvenire 24 giugno
Così tra ritardi e gelosie l’Europa si perde Atene
l’analisi
Tra luglio e agosto la Grecia deve rimborsare 13 miliardi. I prestiti Ue-Fmi erogati nei mesi scorsi non bastano. Senza nuovi capitali dall’estero non potrà fare fronte a queste scadenze
DI GIUSEPPE PENNISI
A più di un anno del 9 maggio 2010 quando tutti (Unio¬ne Europea, Fondo Mone¬tario Internazionale, e Go¬verno della Repubblica El¬lenica) pensavano di avere la soluzione a portata di mano – una ciambella di salvataggio internazionale e una politica interna di ri¬sanamento – la situazione appare peggiorata. Tra luglio e agosto la Gre¬cia deve rimborsare 13 miliardi di euro, ma no¬nostante i prestiti Ue e Fmi erogati nei mesi scorsi, pare non abbia un quattrino in cassa, e senza nuovi afflussi di capitali dall’estero (pub¬blici poiché nessun privato si azzarda a fare a¬perture di credito) non potrà fare fronte a que¬ste scadenze. A dirlo non sono gli arcigni economisti del F¬mi, ma un cattedratico ( Theodore Pelagidis) e un imprenditore (Michael S. Mitsopoulos) in un saggio nell’autorevole trimestrale World E¬conomics
che pesa come un macigno rispetto alle ottimistiche dichiarazioni del governo di Atene. Lo studio, pubblicato in primavera, do¬cumentava già allora come la Grecia avesse «una finestra di opportunità sempre più stret¬ta » per recuperare competitività tramite un programma di riforme che attende ancora di essere approvato. Non solo: dopo due pesan¬ti anni di recessione, anche il 2011 minaccia di essere caratterizzato da un segno negativo. È responsabilità unicamente della Repubblica Ellenica? Sarebbe errato e ingeneroso pensar¬lo. L’Ue è stata la prima fonte di ritardi e di di¬sorientamento. In un primo momento ha ten¬tato di evitare interventi del Fmi nell’Eurozo¬na come se fossero reati di lesa maestà, men¬tre nello stesso periodo il Fmi, che ha espe¬rienza di situazioni del genere, ha sostanzial¬mente aiutato due Stati Ue, Ungheria e Litua¬nia, a rimettersi in ordine e a ripartire.
Compreso, tardivamente, che la ciambella eu¬ropea non sarebbe bastata, l’Europa è corsa al Fondo, ma non con una sola voce. Si sono in¬nescate gelosie tra le varie istituzioni – la Ban¬ca Centrale Europea, i nuovi strumenti 'salva Stati', e via discorrendo. E a queste gelosie i¬stituzionali si sono aggiunte polemiche tra gli Stati: la banca più esposta nei confronti della Grecia è la francese Bnp. Quindi, il dibattito sulla «partecipazione dei privati» o meno na¬sconde essenzialmente un negoziato su quan¬to far pagare alla Bnp e alle altre banche per il rischio che si sono assunte prestando ai greci. Appare chiaro che i tedeschi, e non soltanto lo¬ro, sono pronti a un atto di generosità nei con¬fronti della Grecia, ma non a tendere la mano a chi ha giocato d’azzardo. Mentre le diatribe non si quietano, la freccia del tempo corre, ag¬gravando gli oneri e restringendo «la finestra di opportunità». Una strada possibile è un il ri-scadenzamento ordinato per tutti i creditori (banche private comprese). Oggi meno fatti¬bile, poiché da un lato i costi sono aumentati e, dall’altro, la matassa si è ingarbugliata.
L’euro è ancora giovane e il tracollo della pic¬cola Grecia avrebbe sull’Ue, e sull’unione mo¬netaria, effetti molto più gravi di un default e¬ventuale della grande California sugli Usa e sul dollaro. E l’Italia? Vale la pena ricordare l’esta¬te del 1992 quando, dopo che in seguito a re¬ferendum la piccola Danimarca respinse la ra¬tifica del trattato di Maastricht, si scatenò una crisi di sfiducia sui mercati e il nostro Paese, con un assetto politico traballante e un alto debi¬to pubblico, fu il Paese Ue più colpito, Costretto a dare in pegno tutte le proprie riserve e a de¬prezzare il cambio del 30%. Uno scenario da non replicare.
l’analisi
Tra luglio e agosto la Grecia deve rimborsare 13 miliardi. I prestiti Ue-Fmi erogati nei mesi scorsi non bastano. Senza nuovi capitali dall’estero non potrà fare fronte a queste scadenze
DI GIUSEPPE PENNISI
A più di un anno del 9 maggio 2010 quando tutti (Unio¬ne Europea, Fondo Mone¬tario Internazionale, e Go¬verno della Repubblica El¬lenica) pensavano di avere la soluzione a portata di mano – una ciambella di salvataggio internazionale e una politica interna di ri¬sanamento – la situazione appare peggiorata. Tra luglio e agosto la Gre¬cia deve rimborsare 13 miliardi di euro, ma no¬nostante i prestiti Ue e Fmi erogati nei mesi scorsi, pare non abbia un quattrino in cassa, e senza nuovi afflussi di capitali dall’estero (pub¬blici poiché nessun privato si azzarda a fare a¬perture di credito) non potrà fare fronte a que¬ste scadenze. A dirlo non sono gli arcigni economisti del F¬mi, ma un cattedratico ( Theodore Pelagidis) e un imprenditore (Michael S. Mitsopoulos) in un saggio nell’autorevole trimestrale World E¬conomics
che pesa come un macigno rispetto alle ottimistiche dichiarazioni del governo di Atene. Lo studio, pubblicato in primavera, do¬cumentava già allora come la Grecia avesse «una finestra di opportunità sempre più stret¬ta » per recuperare competitività tramite un programma di riforme che attende ancora di essere approvato. Non solo: dopo due pesan¬ti anni di recessione, anche il 2011 minaccia di essere caratterizzato da un segno negativo. È responsabilità unicamente della Repubblica Ellenica? Sarebbe errato e ingeneroso pensar¬lo. L’Ue è stata la prima fonte di ritardi e di di¬sorientamento. In un primo momento ha ten¬tato di evitare interventi del Fmi nell’Eurozo¬na come se fossero reati di lesa maestà, men¬tre nello stesso periodo il Fmi, che ha espe¬rienza di situazioni del genere, ha sostanzial¬mente aiutato due Stati Ue, Ungheria e Litua¬nia, a rimettersi in ordine e a ripartire.
Compreso, tardivamente, che la ciambella eu¬ropea non sarebbe bastata, l’Europa è corsa al Fondo, ma non con una sola voce. Si sono in¬nescate gelosie tra le varie istituzioni – la Ban¬ca Centrale Europea, i nuovi strumenti 'salva Stati', e via discorrendo. E a queste gelosie i¬stituzionali si sono aggiunte polemiche tra gli Stati: la banca più esposta nei confronti della Grecia è la francese Bnp. Quindi, il dibattito sulla «partecipazione dei privati» o meno na¬sconde essenzialmente un negoziato su quan¬to far pagare alla Bnp e alle altre banche per il rischio che si sono assunte prestando ai greci. Appare chiaro che i tedeschi, e non soltanto lo¬ro, sono pronti a un atto di generosità nei con¬fronti della Grecia, ma non a tendere la mano a chi ha giocato d’azzardo. Mentre le diatribe non si quietano, la freccia del tempo corre, ag¬gravando gli oneri e restringendo «la finestra di opportunità». Una strada possibile è un il ri-scadenzamento ordinato per tutti i creditori (banche private comprese). Oggi meno fatti¬bile, poiché da un lato i costi sono aumentati e, dall’altro, la matassa si è ingarbugliata.
L’euro è ancora giovane e il tracollo della pic¬cola Grecia avrebbe sull’Ue, e sull’unione mo¬netaria, effetti molto più gravi di un default e¬ventuale della grande California sugli Usa e sul dollaro. E l’Italia? Vale la pena ricordare l’esta¬te del 1992 quando, dopo che in seguito a re¬ferendum la piccola Danimarca respinse la ra¬tifica del trattato di Maastricht, si scatenò una crisi di sfiducia sui mercati e il nostro Paese, con un assetto politico traballante e un alto debi¬to pubblico, fu il Paese Ue più colpito, Costretto a dare in pegno tutte le proprie riserve e a de¬prezzare il cambio del 30%. Uno scenario da non replicare.
l’analisi
Tra luglio e agosto la Grecia deve rimborsare 13 miliardi. I prestiti Ue-Fmi erogati nei mesi scorsi non bastano. Senza nuovi capitali dall’estero non potrà fare fronte a queste scadenze
DI GIUSEPPE PENNISI
A più di un anno del 9 maggio 2010 quando tutti (Unio¬ne Europea, Fondo Mone¬tario Internazionale, e Go¬verno della Repubblica El¬lenica) pensavano di avere la soluzione a portata di mano – una ciambella di salvataggio internazionale e una politica interna di ri¬sanamento – la situazione appare peggiorata. Tra luglio e agosto la Gre¬cia deve rimborsare 13 miliardi di euro, ma no¬nostante i prestiti Ue e Fmi erogati nei mesi scorsi, pare non abbia un quattrino in cassa, e senza nuovi afflussi di capitali dall’estero (pub¬blici poiché nessun privato si azzarda a fare a¬perture di credito) non potrà fare fronte a que¬ste scadenze. A dirlo non sono gli arcigni economisti del F¬mi, ma un cattedratico ( Theodore Pelagidis) e un imprenditore (Michael S. Mitsopoulos) in un saggio nell’autorevole trimestrale World E¬conomics
che pesa come un macigno rispetto alle ottimistiche dichiarazioni del governo di Atene. Lo studio, pubblicato in primavera, do¬cumentava già allora come la Grecia avesse «una finestra di opportunità sempre più stret¬ta » per recuperare competitività tramite un programma di riforme che attende ancora di essere approvato. Non solo: dopo due pesan¬ti anni di recessione, anche il 2011 minaccia di essere caratterizzato da un segno negativo. È responsabilità unicamente della Repubblica Ellenica? Sarebbe errato e ingeneroso pensar¬lo. L’Ue è stata la prima fonte di ritardi e di di¬sorientamento. In un primo momento ha ten¬tato di evitare interventi del Fmi nell’Eurozo¬na come se fossero reati di lesa maestà, men¬tre nello stesso periodo il Fmi, che ha espe¬rienza di situazioni del genere, ha sostanzial¬mente aiutato due Stati Ue, Ungheria e Litua¬nia, a rimettersi in ordine e a ripartire.
Compreso, tardivamente, che la ciambella eu¬ropea non sarebbe bastata, l’Europa è corsa al Fondo, ma non con una sola voce. Si sono in¬nescate gelosie tra le varie istituzioni – la Ban¬ca Centrale Europea, i nuovi strumenti 'salva Stati', e via discorrendo. E a queste gelosie i¬stituzionali si sono aggiunte polemiche tra gli Stati: la banca più esposta nei confronti della Grecia è la francese Bnp. Quindi, il dibattito sulla «partecipazione dei privati» o meno na¬sconde essenzialmente un negoziato su quan¬to far pagare alla Bnp e alle altre banche per il rischio che si sono assunte prestando ai greci. Appare chiaro che i tedeschi, e non soltanto lo¬ro, sono pronti a un atto di generosità nei con¬fronti della Grecia, ma non a tendere la mano a chi ha giocato d’azzardo. Mentre le diatribe non si quietano, la freccia del tempo corre, ag¬gravando gli oneri e restringendo «la finestra di opportunità». Una strada possibile è un il ri-scadenzamento ordinato per tutti i creditori (banche private comprese). Oggi meno fatti¬bile, poiché da un lato i costi sono aumentati e, dall’altro, la matassa si è ingarbugliata.
L’euro è ancora giovane e il tracollo della pic¬cola Grecia avrebbe sull’Ue, e sull’unione mo¬netaria, effetti molto più gravi di un default e¬ventuale della grande California sugli Usa e sul dollaro. E l’Italia? Vale la pena ricordare l’esta¬te del 1992 quando, dopo che in seguito a re¬ferendum la piccola Danimarca respinse la ra¬tifica del trattato di Maastricht, si scatenò una crisi di sfiducia sui mercati e il nostro Paese, con un assetto politico traballante e un alto debi¬to pubblico, fu il Paese Ue più colpito, Costretto a dare in pegno tutte le proprie riserve e a de¬prezzare il cambio del 30%. Uno scenario da non replicare.
l’analisi
Tra luglio e agosto la Grecia deve rimborsare 13 miliardi. I prestiti Ue-Fmi erogati nei mesi scorsi non bastano. Senza nuovi capitali dall’estero non potrà fare fronte a queste scadenze
DI GIUSEPPE PENNISI
A più di un anno del 9 maggio 2010 quando tutti (Unio¬ne Europea, Fondo Mone¬tario Internazionale, e Go¬verno della Repubblica El¬lenica) pensavano di avere la soluzione a portata di mano – una ciambella di salvataggio internazionale e una politica interna di ri¬sanamento – la situazione appare peggiorata. Tra luglio e agosto la Gre¬cia deve rimborsare 13 miliardi di euro, ma no¬nostante i prestiti Ue e Fmi erogati nei mesi scorsi, pare non abbia un quattrino in cassa, e senza nuovi afflussi di capitali dall’estero (pub¬blici poiché nessun privato si azzarda a fare a¬perture di credito) non potrà fare fronte a que¬ste scadenze. A dirlo non sono gli arcigni economisti del F¬mi, ma un cattedratico ( Theodore Pelagidis) e un imprenditore (Michael S. Mitsopoulos) in un saggio nell’autorevole trimestrale World E¬conomics
che pesa come un macigno rispetto alle ottimistiche dichiarazioni del governo di Atene. Lo studio, pubblicato in primavera, do¬cumentava già allora come la Grecia avesse «una finestra di opportunità sempre più stret¬ta » per recuperare competitività tramite un programma di riforme che attende ancora di essere approvato. Non solo: dopo due pesan¬ti anni di recessione, anche il 2011 minaccia di essere caratterizzato da un segno negativo. È responsabilità unicamente della Repubblica Ellenica? Sarebbe errato e ingeneroso pensar¬lo. L’Ue è stata la prima fonte di ritardi e di di¬sorientamento. In un primo momento ha ten¬tato di evitare interventi del Fmi nell’Eurozo¬na come se fossero reati di lesa maestà, men¬tre nello stesso periodo il Fmi, che ha espe¬rienza di situazioni del genere, ha sostanzial¬mente aiutato due Stati Ue, Ungheria e Litua¬nia, a rimettersi in ordine e a ripartire.
Compreso, tardivamente, che la ciambella eu¬ropea non sarebbe bastata, l’Europa è corsa al Fondo, ma non con una sola voce. Si sono in¬nescate gelosie tra le varie istituzioni – la Ban¬ca Centrale Europea, i nuovi strumenti 'salva Stati', e via discorrendo. E a queste gelosie i¬stituzionali si sono aggiunte polemiche tra gli Stati: la banca più esposta nei confronti della Grecia è la francese Bnp. Quindi, il dibattito sulla «partecipazione dei privati» o meno na¬sconde essenzialmente un negoziato su quan¬to far pagare alla Bnp e alle altre banche per il rischio che si sono assunte prestando ai greci. Appare chiaro che i tedeschi, e non soltanto lo¬ro, sono pronti a un atto di generosità nei con¬fronti della Grecia, ma non a tendere la mano a chi ha giocato d’azzardo. Mentre le diatribe non si quietano, la freccia del tempo corre, ag¬gravando gli oneri e restringendo «la finestra di opportunità». Una strada possibile è un il ri-scadenzamento ordinato per tutti i creditori (banche private comprese). Oggi meno fatti¬bile, poiché da un lato i costi sono aumentati e, dall’altro, la matassa si è ingarbugliata.
L’euro è ancora giovane e il tracollo della pic¬cola Grecia avrebbe sull’Ue, e sull’unione mo¬netaria, effetti molto più gravi di un default e¬ventuale della grande California sugli Usa e sul dollaro. E l’Italia? Vale la pena ricordare l’esta¬te del 1992 quando, dopo che in seguito a re¬ferendum la piccola Danimarca respinse la ra¬tifica del trattato di Maastricht, si scatenò una crisi di sfiducia sui mercati e il nostro Paese, con un assetto politico traballante e un alto debi¬to pubblico, fu il Paese Ue più colpito, Costretto a dare in pegno tutte le proprie riserve e a de¬prezzare il cambio del 30%. Uno scenario da non replicare.
mercoledì 22 giugno 2011
E se il "mercato delle fedi" facesse bene al cattolicesimo? Il sussidiario 23 giugno
Cultura
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LETTURE/ E se il "mercato delle fedi" facesse bene al cattolicesimo?
Giuseppe Pennisi
giovedì 23 giugno 2011
New York, Time Square (Imagoeconomica)
Approfondisci
MANOVRE/ Negli Usa si studia un’altra sconfitta dell’Europa, di G. Pennisi
LAICITA’/ John Waters: così l’"incredulo" san Tommaso ci insegna a tornare cristiani
Andare alla messa dell’Ascensione domenica 5 giugno nella grande Chiesa di Nostra Signora del Buon Consiglio in quel di Vienna, Virginia, a due passi dalla George Mason University che è la vera roccaforte del pensiero liberista, aiuta a meglio comprendere l’ultimo, in ordine di tempo, saggio di Luciano Pellicani Dalla Città Sacra alla Città Secolare, Rubbettino 2011. Un saggio letto volando da Roma a New York ed in treno da Pennsylvania Station alla Union Station della Capitale Federale Usa.
La Chiesa - una grande struttura del 1973 ampliata e ammodernata un paio di anni fa - è stracolma, specialmente di famiglie giovani con bambini (ai quali è riservato uno spazio speciale). La congregazione è attenta. La celebrazione è accompagnata da canti. Dopo il servizio - 9.30 e 10.30 - i fedeli si disperdono in vari locali e nel prato (per breakfast-picnic). E’ in programma un’altra Messa alle 11.30 ed una “pizza” parrocchiale alle 18.30. Vienna è una città satellite della Capitale federale, a reddito medio-alto, a pochi chilometri da McLean, dove la case sono enormi ville ed il reddito familiare molto elevato. I fedeli sono in gran misura bianchi, ma non mancano famiglie afro-americane ed ispano-americane. Un ambiente lieto. Molto differente da quello che toccai con mano lo scorso inverno a Parigi nella Chiesa di St. German-de-Près, semi vuota pur se si era in una fredda giornata d’inverno (in estate meno del 3 per cento dei francesi va alla celebrazione domenicale dell’Eucarestia) e con una congregazione composta principalmente da anziani.
Cosa c’entra tutto questo con il saggio di Pellicani, circa 350 pagine a stampa fitta in cui si percorre la strada verso la secolarizzazione, intesa non come rifiuto della religione ma come sofferto e difficile passaggio da una società di regole monocratica (Sparta è correttamente portata come esempio di “città sacra”) ed in cui il potere è ierocratico, ad una società pluralistica centrata sull’uso pubblico della ragione e la libertà individuale in tutti i campi - da quello politico a quello religioso, da quello filosofico, a quello religioso?
Nel capitolo in cui Pellicani analizza l’America di oggi, la caratterizza come quella in cui più è sviluppato “il mercato delle religioni”: non è più WASP (White Anglosaxon and Protestant) ma sempre più un crogiolo in cui l’offerta della religione cattolica (anche a ragione dell’aumento della popolazione afro-americana) si confronta con quella di varie denominazioni protestanti, con le principali dottrine dell’islam, con il ritorno a culti antichi, con l’avanzare di fedi asiatiche.
In questo “mercato delle religioni”, che sarebbe più appropriato chiamare “mercato delle fedi”, c’è un prodigioso “iperdinamismo” ed una vastissima creatività. Idee e Credi sono in competizione continua così come lo sono le merci, i servizi, i fattori di produzione. Vince chi offre di più a consumatori sempre alla ricerca del meglio.Come spiegare i successi della Chiesa cattolica negli Usa nonostante gli scandali che hanno travagliato alcune diocesi negli ultimi tre lustri? Non solamente con il cambiamento demografico e la crescente proporzione della popolazione ispano-americano. Ciò non spiegherebbe il fenomeno delle conversioni di protestanti al cattolicesimo: il 5 giugno la più importante comunità anglicana del Maryland, la Chiesa di San Luca, pastore in testa, è passata al cattolicesimo.Katherine Marshall, della Georgetown University, a lungo rappresentante della Banca mondiale su problemi di fede e sviluppo, indica come la determinante principale sia della costanza dei valori fondamentali coniugata con l’efficienza adattiva ad un modo sempre più integrato ed in rapido cambiamento.
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LETTURE/ E se il "mercato delle fedi" facesse bene al cattolicesimo?
Giuseppe Pennisi
giovedì 23 giugno 2011
New York, Time Square (Imagoeconomica)
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MANOVRE/ Negli Usa si studia un’altra sconfitta dell’Europa, di G. Pennisi
LAICITA’/ John Waters: così l’"incredulo" san Tommaso ci insegna a tornare cristiani
Andare alla messa dell’Ascensione domenica 5 giugno nella grande Chiesa di Nostra Signora del Buon Consiglio in quel di Vienna, Virginia, a due passi dalla George Mason University che è la vera roccaforte del pensiero liberista, aiuta a meglio comprendere l’ultimo, in ordine di tempo, saggio di Luciano Pellicani Dalla Città Sacra alla Città Secolare, Rubbettino 2011. Un saggio letto volando da Roma a New York ed in treno da Pennsylvania Station alla Union Station della Capitale Federale Usa.
La Chiesa - una grande struttura del 1973 ampliata e ammodernata un paio di anni fa - è stracolma, specialmente di famiglie giovani con bambini (ai quali è riservato uno spazio speciale). La congregazione è attenta. La celebrazione è accompagnata da canti. Dopo il servizio - 9.30 e 10.30 - i fedeli si disperdono in vari locali e nel prato (per breakfast-picnic). E’ in programma un’altra Messa alle 11.30 ed una “pizza” parrocchiale alle 18.30. Vienna è una città satellite della Capitale federale, a reddito medio-alto, a pochi chilometri da McLean, dove la case sono enormi ville ed il reddito familiare molto elevato. I fedeli sono in gran misura bianchi, ma non mancano famiglie afro-americane ed ispano-americane. Un ambiente lieto. Molto differente da quello che toccai con mano lo scorso inverno a Parigi nella Chiesa di St. German-de-Près, semi vuota pur se si era in una fredda giornata d’inverno (in estate meno del 3 per cento dei francesi va alla celebrazione domenicale dell’Eucarestia) e con una congregazione composta principalmente da anziani.
Cosa c’entra tutto questo con il saggio di Pellicani, circa 350 pagine a stampa fitta in cui si percorre la strada verso la secolarizzazione, intesa non come rifiuto della religione ma come sofferto e difficile passaggio da una società di regole monocratica (Sparta è correttamente portata come esempio di “città sacra”) ed in cui il potere è ierocratico, ad una società pluralistica centrata sull’uso pubblico della ragione e la libertà individuale in tutti i campi - da quello politico a quello religioso, da quello filosofico, a quello religioso?
Nel capitolo in cui Pellicani analizza l’America di oggi, la caratterizza come quella in cui più è sviluppato “il mercato delle religioni”: non è più WASP (White Anglosaxon and Protestant) ma sempre più un crogiolo in cui l’offerta della religione cattolica (anche a ragione dell’aumento della popolazione afro-americana) si confronta con quella di varie denominazioni protestanti, con le principali dottrine dell’islam, con il ritorno a culti antichi, con l’avanzare di fedi asiatiche.
In questo “mercato delle religioni”, che sarebbe più appropriato chiamare “mercato delle fedi”, c’è un prodigioso “iperdinamismo” ed una vastissima creatività. Idee e Credi sono in competizione continua così come lo sono le merci, i servizi, i fattori di produzione. Vince chi offre di più a consumatori sempre alla ricerca del meglio.Come spiegare i successi della Chiesa cattolica negli Usa nonostante gli scandali che hanno travagliato alcune diocesi negli ultimi tre lustri? Non solamente con il cambiamento demografico e la crescente proporzione della popolazione ispano-americano. Ciò non spiegherebbe il fenomeno delle conversioni di protestanti al cattolicesimo: il 5 giugno la più importante comunità anglicana del Maryland, la Chiesa di San Luca, pastore in testa, è passata al cattolicesimo.Katherine Marshall, della Georgetown University, a lungo rappresentante della Banca mondiale su problemi di fede e sviluppo, indica come la determinante principale sia della costanza dei valori fondamentali coniugata con l’efficienza adattiva ad un modo sempre più integrato ed in rapido cambiamento.
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In questo “mercato delle religioni”, che sarebbe più appropriato chiamare “mercato delle fedi”, c’è un prodigioso “iperdinamismo” ed una vastissima creatività. Idee e Credi sono in competizione continua così come lo sono le merci, i servizi, i fattori di produzione. Vince chi offre di più a consumatori sempre alla ricerca del meglio.
martedì 21 giugno 2011
SALVARE IL SOLDATO EURO SI PUO’ E SENZA MORIRE IN TRINCEA , Il Foglio 22 giugno
SALVARE IL SOLDATO EURO SI PUO’ E SENZA MORIRE IN TRINCEA Giuseppe Pennisi
Qualche giorno prima dell’ultimo numero del settimanale “Der Spiegel”,quello che ha annunciato “la morte dell’euro”, Nouriel Roubini (considerato, a torto od a ragione, come l’economista che ha previsto con più precisione la crisi finanziaria iniziata nel 2007) ha affermato che “l’eurozona è alla vigilia di una vera e propria rottura”: “anche ove si riuscisse a ridurre il fardello del debito sovrano, non si riuscirebbe a tornare a tassi adeguati di competitività e di crescita; per molti Paesi i costi di restare nell’unione monetaria ne superebbero di gran lunga i benefici”. Conclusioni analoghe vengono dalla lontana Asia: Hwe Kwan Chwo della Singapore Management University afferma che, da un lato, le vicende dell’eurozona negli ultimi anni hanno frenato i progetti (peraltro peliminari) di un’”area monetaria” nell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud Est asiatico) e, dall’altro, rafforzato il ruolo di transazione e di riserva di alcune monete asiatiche rispetto all’euro, oltre che al dollaro.
Nel mondo accademico Usa, l’analisi di Roubini è ampiamente condivisa: importanti esponenti , prima di tutti Martin Feldstein (alla guida del comitato dei consiglieri economici di due Presidenti degli Stati Uniti oltre che per un trentennio del National Bureau of Economic Research, Nber). non hanno creduto che l’unione monetaria europea sarebbe durata a lungo. Più cauti gli ambienti istituzionali ufficiali quali Tesoro e Federal Reserve Board: non si cela un certo scetticismo, pur sperando che si riesca a salvare “il soldato euro” in quanto la sua eventuale dissoluzione creerebbe un lungo periodo di caos nei mercati.
Sono guardinghi al Fondo monetario dove nei 66 anni dalla sua istituzione si è assistito alla fine di una dozzina di unione monetarie (facilitando la “morte dolce” di alcune di esse – quelle in Paesi ex-coloniali – o almeno tentandola – la fine della “zona della sterlina” negli Anni Sessanta) . Al Fmi si sottolinea ce in un passato non troppo lontano, le unioni monetarie sono morte o per consunzione (l’unione monetaria latina che resse con alterne vicende dal 1865 al 1927, nonostante una guerra mondiale) o perché uno dei partner aveva conti con l’estero in profondo rosso a spese degli altri (la zona della sterlina defunta nel novembre 1967) o per forti divergenze di politica economica tra i soci (numerose unioni monetarie in Paesi in via di sviluppo e nell’ex area del rublo). La fine di un’unione monetaria è spesso stata accompagnata da costi elevatissimi: in caso di uscita (o volontaria o per espulsione) non meno del 4-6 per cento del Pil. Almeno per ora, si sottolinea al Fmi, sull’eurozona non c’è lo spettro della morte per consunzione o di forti divergenze di politica economica. Però un piccolo gruppo di partner ha attivi molto elevati nei conti con l’estero compensati da disavanzi da altri soci; tale fenomeno è già stata una determinante della rapida crescita del credito totale interno, e dell’accumularsi di debiti, per Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo. Ci sono pure significative divergenze di produttività e di competitività che rispecchiano in varia misura il grado di “efficienza adattiva” (ossa del modo in cui ci si è adattati) rispetto al processo d’integrazione economica internazionale in corso dal 1980 o giù di lì.
Per salvare il “soldato euro”, prima che la situazione deteriori ulteriormente, occorre individuare rimedi che rendano possibile la riforma dell’eurozona senza che ci si faccia troppo male. Nessun Paese dell’area oggi sosterebbe un’ulteriore perdita di Pil del 4 -6 per cento (in aggiunta alla contrazione già avuta nel 2008-2010) senza forti rischi per la propria tenuta politica e sociale. Ed il disegno complessivo dell’UE subirebbe una severa ferita.
Da alcune settimane, Hans-Werner Sinn (Presidente del CESifo di Monaco il più autorevole centro di ricerche tedesco) sta visitando varie capitali europee in modo del tutto informale (era a Roma circa due semi fa per un seminario ad inviti in Bankitalia) al fine di esaminare le vie di un possibile riassetto dell’economia reale dell’eurozona, premessa essenziale per qualsiasi marchingegno d’ingegneria finanziaria. Dall’8 al 10 luglio, sempre sotto il profilo dell’economia reale, gli stessi temi verranno affrontati a Aix en Provence nell’unica riunione annuale de Le Cercle des Economistes (un club che per statuto non può avere di 30 soci) aperta ad invitati. L’appuntamento è a ridosso della riunione dell’Ecofin che dovrebbe mettere a punto il nuovo programma di aiuti alla Grecia.
Per salvare l’euro (riformandolo) sta facendo strada l’idea di adottare il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: ossia un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Al Fmi si citano esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
Le tappe non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e nella produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi . Qualche passo si intravede nel “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata . Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire nello SME 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’UE che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). Nell’attesa che una convergenza economica di tipo strutturale riporti tutti in garreggiata.
Qualche giorno prima dell’ultimo numero del settimanale “Der Spiegel”,quello che ha annunciato “la morte dell’euro”, Nouriel Roubini (considerato, a torto od a ragione, come l’economista che ha previsto con più precisione la crisi finanziaria iniziata nel 2007) ha affermato che “l’eurozona è alla vigilia di una vera e propria rottura”: “anche ove si riuscisse a ridurre il fardello del debito sovrano, non si riuscirebbe a tornare a tassi adeguati di competitività e di crescita; per molti Paesi i costi di restare nell’unione monetaria ne superebbero di gran lunga i benefici”. Conclusioni analoghe vengono dalla lontana Asia: Hwe Kwan Chwo della Singapore Management University afferma che, da un lato, le vicende dell’eurozona negli ultimi anni hanno frenato i progetti (peraltro peliminari) di un’”area monetaria” nell’Asean (l’associazione degli Stati del Sud Est asiatico) e, dall’altro, rafforzato il ruolo di transazione e di riserva di alcune monete asiatiche rispetto all’euro, oltre che al dollaro.
Nel mondo accademico Usa, l’analisi di Roubini è ampiamente condivisa: importanti esponenti , prima di tutti Martin Feldstein (alla guida del comitato dei consiglieri economici di due Presidenti degli Stati Uniti oltre che per un trentennio del National Bureau of Economic Research, Nber). non hanno creduto che l’unione monetaria europea sarebbe durata a lungo. Più cauti gli ambienti istituzionali ufficiali quali Tesoro e Federal Reserve Board: non si cela un certo scetticismo, pur sperando che si riesca a salvare “il soldato euro” in quanto la sua eventuale dissoluzione creerebbe un lungo periodo di caos nei mercati.
Sono guardinghi al Fondo monetario dove nei 66 anni dalla sua istituzione si è assistito alla fine di una dozzina di unione monetarie (facilitando la “morte dolce” di alcune di esse – quelle in Paesi ex-coloniali – o almeno tentandola – la fine della “zona della sterlina” negli Anni Sessanta) . Al Fmi si sottolinea ce in un passato non troppo lontano, le unioni monetarie sono morte o per consunzione (l’unione monetaria latina che resse con alterne vicende dal 1865 al 1927, nonostante una guerra mondiale) o perché uno dei partner aveva conti con l’estero in profondo rosso a spese degli altri (la zona della sterlina defunta nel novembre 1967) o per forti divergenze di politica economica tra i soci (numerose unioni monetarie in Paesi in via di sviluppo e nell’ex area del rublo). La fine di un’unione monetaria è spesso stata accompagnata da costi elevatissimi: in caso di uscita (o volontaria o per espulsione) non meno del 4-6 per cento del Pil. Almeno per ora, si sottolinea al Fmi, sull’eurozona non c’è lo spettro della morte per consunzione o di forti divergenze di politica economica. Però un piccolo gruppo di partner ha attivi molto elevati nei conti con l’estero compensati da disavanzi da altri soci; tale fenomeno è già stata una determinante della rapida crescita del credito totale interno, e dell’accumularsi di debiti, per Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo. Ci sono pure significative divergenze di produttività e di competitività che rispecchiano in varia misura il grado di “efficienza adattiva” (ossa del modo in cui ci si è adattati) rispetto al processo d’integrazione economica internazionale in corso dal 1980 o giù di lì.
Per salvare il “soldato euro”, prima che la situazione deteriori ulteriormente, occorre individuare rimedi che rendano possibile la riforma dell’eurozona senza che ci si faccia troppo male. Nessun Paese dell’area oggi sosterebbe un’ulteriore perdita di Pil del 4 -6 per cento (in aggiunta alla contrazione già avuta nel 2008-2010) senza forti rischi per la propria tenuta politica e sociale. Ed il disegno complessivo dell’UE subirebbe una severa ferita.
Da alcune settimane, Hans-Werner Sinn (Presidente del CESifo di Monaco il più autorevole centro di ricerche tedesco) sta visitando varie capitali europee in modo del tutto informale (era a Roma circa due semi fa per un seminario ad inviti in Bankitalia) al fine di esaminare le vie di un possibile riassetto dell’economia reale dell’eurozona, premessa essenziale per qualsiasi marchingegno d’ingegneria finanziaria. Dall’8 al 10 luglio, sempre sotto il profilo dell’economia reale, gli stessi temi verranno affrontati a Aix en Provence nell’unica riunione annuale de Le Cercle des Economistes (un club che per statuto non può avere di 30 soci) aperta ad invitati. L’appuntamento è a ridosso della riunione dell’Ecofin che dovrebbe mettere a punto il nuovo programma di aiuti alla Grecia.
Per salvare l’euro (riformandolo) sta facendo strada l’idea di adottare il metodo di base utilizzato nel 1993-1999 per dare vita all’eurozona: ossia un percorso a tappe ben definite con criteri ed indicatori pre-stabiliti. Si possono anche mutuare lezioni di unioni monetarie in cui alcuni partner sono usciti senza pagare costi troppo alti. Al Fmi si citano esempi recenti in America Latina e più lontani nel tempo in Asia Le vicende di uscita dalla “dollarizzazione” provano che la gradualità (a tappe molto chiare) premia (il caso di Perù e Ecuador) mentre la mossa brusca costa cara (ne sa qualcosa l’Argentina).
Le tappe non devono essere contrassegnate solamente da indicatori monetari e di bilancio ma da puntelli chiari di economia reale per porre al centro del percorso la convergenza delle strutture di produzione e nella produttività dei fattori e dei tassi effettivi di andamento dei prezzi . Qualche passo si intravede nel “patto euro-plus”, specialmente con l’introduzione di indicatori di produttività. Sono, però, pochi ed occasionali. Sarebbe, invece, utile arricchire gli indicatori di economia reale e definire un percorso pluriennale, unitamente a misure di accompagnamento per quei soci del Club che non riescano ad avvicinarsi al resto della cordata . Evitando uscite traumatiche, potrebbero confluire nello SME 2 (l’accordo sui cambi tra le banche centrali di alcuni Stati dell’UE che non appartengono all’eurozona, da un lato, e la Banca centrale europea, dall’altro). Nell’attesa che una convergenza economica di tipo strutturale riporti tutti in garreggiata.
lunedì 20 giugno 2011
LE RAGIONI DEL SUCCESSO DEL RAVENNA FESTIVAL in Il Velino del 20 giugno
AGV NEWS presenta, in esclusiva per gli abbonati, le notizie via via che vengono inserite.LE RAGIONI DEL SUCCESSO DEL RAVENNA FESTIVAL
Roma - Nato in un momento in cui i “Due mondi” di Spoleto erano in declino, la rassegna romagnola da oltre un ventennio unisce qualità e varietà dell’offertaEdizione completa
Stampa l'articolo Roma - La XXII edizione del Ravenna Festival è iniziata il 7 giugno con un concerto della orchestra Mozart e termina il 9 luglio con un concerto dell’orchestra Cherubini, dell’Orchestra giovanile Italiana, della Youth Orchestra di Nairobi, con i cori di Piacenza, Nairobi e 200 bambini delle scuole delle missioni italiane in Kenya, nonché un vasto gruppo di solisti. Gli ultimi giorni (il 6, 7 e 9 luglio), inoltre, Riccardo Muti dirigerà arie, sinfonie e cori da opere di Bellini e Verdi. Il successo di questo Festival richiede una riflessione: la manifestazione nasce nel 1989, proprio quando il Festival di Spoleto era in declino, per contribuire a fare riscoprire la grandezza della città e introdurvi il mondo, sotto forma di musica, danza, teatro, poesia, cinema. Un’elegante pubblicazione del 2009 riassume i primi venti anni del Festival e include un’utile serie di saggi per comprenderne obiettivi, spirito e risultati della manifestazione. Il Festival ha luogo nelle basiliche, nei teatri, nelle chiese sconsacrate, sotto la cupola imponente del Pala De André, lungo le strade, nelle piazze, sulle banchine del porto, nei magazzini di vecchie fabbriche, nei chiostri, nei giardini e sulle spiagge ai bordi della pineta.
In tempo di Festival, anche le liturgie vere e proprie diventano spettacolo e nelle chiese della città la consueta messa domenicale prende la forma dell'antico canto gregoriano oppure dei grandi capolavori di Palestrina e Monteverdi, o ancora delle liturgie armena o etiope-ortodossa. Ravenna, da sempre crocevia di popoli e di culture, ha adottato la musica come proprio linguaggio per proiettarsi in una dimensione senza confini. Da qui l'idea delle "Vie dell'amicizia", gemellaggio nato in nome della musica intesa come "parola di fratellanza che unisce i popoli" nel 1997 con Sarajevo e poi con Beirut nel 1998, Gerusalemme nel 1999, Mosca nel 2000, Erevan e Istanbul nel 2001, New York nel 2002, Il Cairo nel 2003 e Damasco nel 2004.a Sarajevo nel 2009, a Nairobi tra tre settimane. Così i "temi" che hanno ispirato la rassegna sono passati da indagini all'interno della storiografia musicale ("Cherubini e la scuola francese", "Intorno a Rossini", "Bellini e Wagner") a itinerari di viaggio e cammini di pellegrinaggio ("Cantastorie, gitani e trovatori...", "Dalla via dell'ambra alla via della seta...in compagnia del grande bardo", "Ravenna visionaria, pellegrina e straniera").
La rassegna ha celebrato, di volta in volta, quasi tutti i nomi di coloro che hanno creato il "moderno" in musica: Poulenc, Mahler, Richard Strauss, Britten, Debussy, Ravel, Satie, Bartók, Schönberg, Berg e Webern, gli americani Bernstein, Copland ed il visionario Varèse, poi Busoni, Milhaud, Weill, Messiaen, Janáchek, Petrassi, e i russi Rachmaninov, Mussorgskij, Stravinskij, Prokof'ev, Shostakovich, e ancora i 'post-weberniani' Nono, Boulez, Donatoni, Maderna, Berio, fino a Sciarrino, Manzoni, Mansurjan, Górecki, Pärt, Kancheli, Sollima, ma anche Piazzolla, Morricone, Nyman. Senza, peraltro, mai rinunciare alla tradizione operistica classica, riproposta in versioni particolari come la trilogia italiana di Mozart e Da Ponte realizzata da Riccardo Muti insieme ai Wiener Philharmoniker, o gli atti unici di Mascagni e Leoncavallo riletti dallo stesso Muti per la regia di Liliana Cavani. Un Festival da sempre interdisciplinare, dunque, all'insegna della commistione tra i generi, che ha proposto le voci dei maggiori interpreti della tradizione classica, quali Luciano Pavarotti, Barbara Frittoli, Juan Pons, Placido Domingo, Renato Bruson, Barbara Hendricks, José Cura, insieme a quelle di Bob Dylan, Marianne Faithfull, Lou Reed, Paolo Conte, Renato Zero, Franco Battiato, Youssou N'Dour.
I palcoscenici della città hanno ospitato nel tempo i grandi nomi della danza, da Alessandra Ferri ad Emio Greco, da Antonio Gades a Cristina Hoyos a Julio Bocca e tanti altri, fino ai prodigiosi "galà" del Bolshoi di Mosca e del teatro di prosa: Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Il Festival è sostenuto, principalmente da enti locali, fondazioni bancarie ed imprese private che ne coprono oltre due terzi del bilancio; di conseguenza, il consiglio d’amministrazione è composto principalmente dai loro rappresentanti. Circa l’80 per cento della spesa è direttamente per fini artistici. Un buon 12 per cento è destinato alla manutenzione e al miglioramento degli impianti. La spesa per promozione, marketing e comunicazione non supera il 4 per cento del totale. Il Festival chiude regolarmente i propri conti in pareggio ed ha la reputazione di essere una delle manifestazioni musicali meglio gestite in Italia. Il pubblico (circa 60 mila presenze l’anno, a cui aggiungere 5-10 mila ogni anno al concerto delle “via dell’amicizia”) è in gran misura (70 per cento) italiano e la partecipazione di residenti in Emilia-Romagna è pari ad oltre la metà del totale; a differenza di altre manifestazioni, ad esempio il Rossini Opera Festival di Pesaro, il cui pubblico è per due terzi non italiano e per circa l’80 per cento non residente nella Regione, il Ravenna Festival ha un forte radicamento nel territorio.
I suoi programmi e le sue attività di collaborazioni con altre istituzioni artistiche i nel corso degli anni (da quella con il Teatro dell’Opera Helikon di Mosca a quella con il Festival di Pentecoste di Salisburgo) hanno avuto tra i loro obiettivi principali di offrire a spettatori italiani, e specialmente della Regione, spettacoli di alto valore culturale, di cui altrimenti non avrebbero potuto fruire. In primo luogo, il Festival di Ravenna è nato proprio quando l’altro maggiore Festival multidisciplinare italiano (il Festival di Spoleto) stava attraversando una profonda crisi, peraltro non ancora superata. Ciò è stato, indubbiamente, una determinante che unitamente alla qualità e varietà dell’offerta, alla durata (circa sei settimane) e alle partnership internazionali ha contribuito ad attrarre attenzione sull’evento, anche in quanto si differenziava marcatamente da altri o monografici (come i Festival dedicati a Rossini ed a Puccini) o dedicati esclusivamente alla musica lirica (Sferisterio, Verona). Il mix di offerta è stato tale da attirare varie fasce di età e la vasta gamma di preferenze è stato elemento importante per fare conoscere Ravenna ed indurre ad affrontare le stesse difficoltà logistiche afferenti la localizzazione della città e del suo hinterland. In secondo luogo, occorre notare che non solo nei periodi storici in cui Ravenna è stata capitale, ma anche nell’Ottocento le arti dal vivo sono probabilmente state un motore dello sviluppo economico della città. Ravenna - vale la pena ricordarlo - ha un bellissimo teatro, il Teatro Alighieri, nel pieno centro della città.
Un appuntamento immediato e di grande interesse per gli appassionati di musica lirica. Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, approda dal 24 al 26 giugno al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per caso, di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. È un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segno importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano. I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Antonio Poli, un promettente tenore lirico. Anche se “I due Figaro” non appartengono interamente alla “scuola napoletana”, occorre chiedersi quante delle opere “ritrovate” nell’ambito di questo progetto quinquennale verranno riprese in futuro ed entreranno nei cartelloni.
Roma - Nato in un momento in cui i “Due mondi” di Spoleto erano in declino, la rassegna romagnola da oltre un ventennio unisce qualità e varietà dell’offertaEdizione completa
Stampa l'articolo Roma - La XXII edizione del Ravenna Festival è iniziata il 7 giugno con un concerto della orchestra Mozart e termina il 9 luglio con un concerto dell’orchestra Cherubini, dell’Orchestra giovanile Italiana, della Youth Orchestra di Nairobi, con i cori di Piacenza, Nairobi e 200 bambini delle scuole delle missioni italiane in Kenya, nonché un vasto gruppo di solisti. Gli ultimi giorni (il 6, 7 e 9 luglio), inoltre, Riccardo Muti dirigerà arie, sinfonie e cori da opere di Bellini e Verdi. Il successo di questo Festival richiede una riflessione: la manifestazione nasce nel 1989, proprio quando il Festival di Spoleto era in declino, per contribuire a fare riscoprire la grandezza della città e introdurvi il mondo, sotto forma di musica, danza, teatro, poesia, cinema. Un’elegante pubblicazione del 2009 riassume i primi venti anni del Festival e include un’utile serie di saggi per comprenderne obiettivi, spirito e risultati della manifestazione. Il Festival ha luogo nelle basiliche, nei teatri, nelle chiese sconsacrate, sotto la cupola imponente del Pala De André, lungo le strade, nelle piazze, sulle banchine del porto, nei magazzini di vecchie fabbriche, nei chiostri, nei giardini e sulle spiagge ai bordi della pineta.
In tempo di Festival, anche le liturgie vere e proprie diventano spettacolo e nelle chiese della città la consueta messa domenicale prende la forma dell'antico canto gregoriano oppure dei grandi capolavori di Palestrina e Monteverdi, o ancora delle liturgie armena o etiope-ortodossa. Ravenna, da sempre crocevia di popoli e di culture, ha adottato la musica come proprio linguaggio per proiettarsi in una dimensione senza confini. Da qui l'idea delle "Vie dell'amicizia", gemellaggio nato in nome della musica intesa come "parola di fratellanza che unisce i popoli" nel 1997 con Sarajevo e poi con Beirut nel 1998, Gerusalemme nel 1999, Mosca nel 2000, Erevan e Istanbul nel 2001, New York nel 2002, Il Cairo nel 2003 e Damasco nel 2004.a Sarajevo nel 2009, a Nairobi tra tre settimane. Così i "temi" che hanno ispirato la rassegna sono passati da indagini all'interno della storiografia musicale ("Cherubini e la scuola francese", "Intorno a Rossini", "Bellini e Wagner") a itinerari di viaggio e cammini di pellegrinaggio ("Cantastorie, gitani e trovatori...", "Dalla via dell'ambra alla via della seta...in compagnia del grande bardo", "Ravenna visionaria, pellegrina e straniera").
La rassegna ha celebrato, di volta in volta, quasi tutti i nomi di coloro che hanno creato il "moderno" in musica: Poulenc, Mahler, Richard Strauss, Britten, Debussy, Ravel, Satie, Bartók, Schönberg, Berg e Webern, gli americani Bernstein, Copland ed il visionario Varèse, poi Busoni, Milhaud, Weill, Messiaen, Janáchek, Petrassi, e i russi Rachmaninov, Mussorgskij, Stravinskij, Prokof'ev, Shostakovich, e ancora i 'post-weberniani' Nono, Boulez, Donatoni, Maderna, Berio, fino a Sciarrino, Manzoni, Mansurjan, Górecki, Pärt, Kancheli, Sollima, ma anche Piazzolla, Morricone, Nyman. Senza, peraltro, mai rinunciare alla tradizione operistica classica, riproposta in versioni particolari come la trilogia italiana di Mozart e Da Ponte realizzata da Riccardo Muti insieme ai Wiener Philharmoniker, o gli atti unici di Mascagni e Leoncavallo riletti dallo stesso Muti per la regia di Liliana Cavani. Un Festival da sempre interdisciplinare, dunque, all'insegna della commistione tra i generi, che ha proposto le voci dei maggiori interpreti della tradizione classica, quali Luciano Pavarotti, Barbara Frittoli, Juan Pons, Placido Domingo, Renato Bruson, Barbara Hendricks, José Cura, insieme a quelle di Bob Dylan, Marianne Faithfull, Lou Reed, Paolo Conte, Renato Zero, Franco Battiato, Youssou N'Dour.
I palcoscenici della città hanno ospitato nel tempo i grandi nomi della danza, da Alessandra Ferri ad Emio Greco, da Antonio Gades a Cristina Hoyos a Julio Bocca e tanti altri, fino ai prodigiosi "galà" del Bolshoi di Mosca e del teatro di prosa: Federico Tiezzi e Sandro Lombardi, Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Il Festival è sostenuto, principalmente da enti locali, fondazioni bancarie ed imprese private che ne coprono oltre due terzi del bilancio; di conseguenza, il consiglio d’amministrazione è composto principalmente dai loro rappresentanti. Circa l’80 per cento della spesa è direttamente per fini artistici. Un buon 12 per cento è destinato alla manutenzione e al miglioramento degli impianti. La spesa per promozione, marketing e comunicazione non supera il 4 per cento del totale. Il Festival chiude regolarmente i propri conti in pareggio ed ha la reputazione di essere una delle manifestazioni musicali meglio gestite in Italia. Il pubblico (circa 60 mila presenze l’anno, a cui aggiungere 5-10 mila ogni anno al concerto delle “via dell’amicizia”) è in gran misura (70 per cento) italiano e la partecipazione di residenti in Emilia-Romagna è pari ad oltre la metà del totale; a differenza di altre manifestazioni, ad esempio il Rossini Opera Festival di Pesaro, il cui pubblico è per due terzi non italiano e per circa l’80 per cento non residente nella Regione, il Ravenna Festival ha un forte radicamento nel territorio.
I suoi programmi e le sue attività di collaborazioni con altre istituzioni artistiche i nel corso degli anni (da quella con il Teatro dell’Opera Helikon di Mosca a quella con il Festival di Pentecoste di Salisburgo) hanno avuto tra i loro obiettivi principali di offrire a spettatori italiani, e specialmente della Regione, spettacoli di alto valore culturale, di cui altrimenti non avrebbero potuto fruire. In primo luogo, il Festival di Ravenna è nato proprio quando l’altro maggiore Festival multidisciplinare italiano (il Festival di Spoleto) stava attraversando una profonda crisi, peraltro non ancora superata. Ciò è stato, indubbiamente, una determinante che unitamente alla qualità e varietà dell’offerta, alla durata (circa sei settimane) e alle partnership internazionali ha contribuito ad attrarre attenzione sull’evento, anche in quanto si differenziava marcatamente da altri o monografici (come i Festival dedicati a Rossini ed a Puccini) o dedicati esclusivamente alla musica lirica (Sferisterio, Verona). Il mix di offerta è stato tale da attirare varie fasce di età e la vasta gamma di preferenze è stato elemento importante per fare conoscere Ravenna ed indurre ad affrontare le stesse difficoltà logistiche afferenti la localizzazione della città e del suo hinterland. In secondo luogo, occorre notare che non solo nei periodi storici in cui Ravenna è stata capitale, ma anche nell’Ottocento le arti dal vivo sono probabilmente state un motore dello sviluppo economico della città. Ravenna - vale la pena ricordarlo - ha un bellissimo teatro, il Teatro Alighieri, nel pieno centro della città.
Un appuntamento immediato e di grande interesse per gli appassionati di musica lirica. Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, approda dal 24 al 26 giugno al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per caso, di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. È un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segno importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano. I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Antonio Poli, un promettente tenore lirico. Anche se “I due Figaro” non appartengono interamente alla “scuola napoletana”, occorre chiedersi quante delle opere “ritrovate” nell’ambito di questo progetto quinquennale verranno riprese in futuro ed entreranno nei cartelloni.
domenica 19 giugno 2011
I tagli della Lega aprono a una grande coalizione "americana"? Il Sussidairo 20 gugno
Economia e Finanza
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MANOVRE/ I tagli della Lega aprono a una grande coalizione "americana"?
Giuseppe Pennisi
lunedì 20 giugno 2011
Una delle richieste del popolo di Pontida (Foto Ansa)
Approfondisci
MANOVRE/ Negli Usa si studia un’altra sconfitta dell’Europa, di G. Pennisi
QUALCOSA DI SINISTRA/ Perchè il "nuovo" Tremonti non piace più a Pdl e Lega?, di S. Luciano
In sintesi, il “raduno” di Pontida del 19 giugno si è concluso con due punti essenziali. Il primo è di corto respiro: la Lega concede un canone di locazione a breve termine al Governo, confermando la “leadership” del Presidente del Consiglio sino a quando l’esecutivo durerà, ma dettando una serie di condizioni per mantenere il Governo in vita.
Il secondo, con implicazioni a più lungo termine, è la sospensione, ove non la cessazione, dell’alleanza tra la Lega e il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, perché gran parte delle condizioni in materia economica poste dai leader del Carroccio (e applaudite con calore dal “popolo della Lega” riunito a Pontina) cozzano con le politiche impostate dal dicastero di via XX Settembre, dato che comportano una consistente riduzione di gettito fiscale preliminare all’eventuale contrazione della spesa, proprio mentre si annuncia, invece, una maxi-manovra di 20 miliardi di euro (per essere in linea con il patto euro-plus) e la Bce ci invita a fare ancora di più.
I due aspetti sono interdipendenti, in quanto possono portare o all’uscita della Lega dal Governo a breve termine o al cambiamento di inquilino a via XX Settembre per traslocare non verso Palazzo Chigi (come alcuni pensavano sino a pochi mesi fa), ma verso lidi non ancora chiari a nessuno (neanche al diretto interessato).
È interessante notare che le condizioni in materia di politica economica non sono molto differenti da quelle presentate il giorno prima in piazza del Popolo a Roma da Cisl e Uil: i vertici della Lega rafforzano il proprio nesso (mai abbandonato) con il ceto “che lavora e che produce” e che si considera “tartassato”. È anche interessante notare che, sotto il profilo dei costi da ridurre, da un lato si propone il ritiro dell’Italia da missioni internazionali pattuite con altri Stati nell’ambito di accordi a vasto raggio e da un altro si delinea una vera e propria riforma costituzionale (nella piena consapevolezza che tali riforme in nessuna parte del mondo occidentale vengono fatte da Governi “di parte”).
Occorre lasciare a commentatori poco informati l’uso dell’aggettivo “folcloristico” a proposito delle proposte relative al trasferimento di alcuni dicasteri al Nord: nella “devolution” britannica parte della pubblica amministrazione di Sua Maestà lasciò Whitehall per andare, senza traumi eccessivi, nei pressi di Bristol e di Edinburgo.
Come indicato in alcune mail inviati a Roma da Washington la settimana scorsa, l’Amministrazione Obama era perfettamente consapevolmente già da alcuni giorni, pur senza la ricchezza di dettagli enunciati a Pontida, degli intenti dei leader della Lega. Il partito ha da anni propri rappresentanti negli Stati Uniti - un tempo anche un ufficio al Rockefeller Center di New York che non so se sia ancora in funzione. Il quotidiano America Oggi, l’unico in lingua italiana negli Stati Uniti, (30.000 copie vendute in settimana, 60.000 la domenica) non cela le proprie simpatie leghiste.
Da quando Obama è alla Casa Bianca, i “leghisti americani” (chiamiamoli così) hanno consolidato rapporti diretti con il Tesoro e con il Comitato dei Consiglieri Economici del Presidente, soprattutto in quanto gli obamiani non sembrano avere mai stretto un rapporto intenso con Giulio Tremonti, da loro considerato (a torto o a ragione) troppo vicino a Larry Lindsey (il consigliere speciale di Bush). Da Washington, quindi, informano Via Bellerio che su una sponda americana l’attuale inquilino di via XX Settembre non può più contare.
Al Tesoro e al Dipartimento di Stato si auspica che l’Italia riesca a evitare un declassamento dei propri titoli di Stato (quale quello minacciato da Moody’s) e avvii una “grande coalizione” per presentare, e attuare, un programma rigoroso di riduzione della spesa tale da rendere possibile quell’abbassamento della pressione tributaria e quell’allentamento del giogo regolatorio senza il quale nessuna ripresa significativa è possibile.
Si è detto che la riforma istituzionale preconizzata a Pontida (la riduzione del numero dei Parlamentari e la costituzione del Senato delle Regioni) non può essere realizzata senza l’accordo di un vasto arco del Parlamento. Analogamente, l’eventuale cambiamento degli accordi internazionali sulle missioni militari all’estero richiedono il supporto di un vasto arco parlamentare. E, soprattutto, la leadership leghista non vuole elezioni subito per evitare al centrodestra una terza bruciante sconfitta elettorale.
Tutto pare spingere verso una “grande coalizione”, anche se è difficile ipotizzare non solamente se Silvio Berlusconi sarà pronto a fare un passo indietro, se Tremonti (considerato una garanzia per l’Ue) possa restare al proprio posto nell’eventualità di cambiamento di Governo (si parla, anche negli Usa, di Presidenza del Consiglio a Maroni). Ancora più arduo delineare quale potrebbe essere la struttura di un eventuale nuovo Esecutivo in grado di rassicurare i mercati e realizzare le riforme (inclusa quella della Costituzione).
Siamo in mezzo a un guado: abbiamo lasciato la sponda degli ultimi anni, ma non intravediamo ancora quella dove approdare.
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MANOVRE/ I tagli della Lega aprono a una grande coalizione "americana"?
Giuseppe Pennisi
lunedì 20 giugno 2011
Una delle richieste del popolo di Pontida (Foto Ansa)
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MANOVRE/ Negli Usa si studia un’altra sconfitta dell’Europa, di G. Pennisi
QUALCOSA DI SINISTRA/ Perchè il "nuovo" Tremonti non piace più a Pdl e Lega?, di S. Luciano
In sintesi, il “raduno” di Pontida del 19 giugno si è concluso con due punti essenziali. Il primo è di corto respiro: la Lega concede un canone di locazione a breve termine al Governo, confermando la “leadership” del Presidente del Consiglio sino a quando l’esecutivo durerà, ma dettando una serie di condizioni per mantenere il Governo in vita.
Il secondo, con implicazioni a più lungo termine, è la sospensione, ove non la cessazione, dell’alleanza tra la Lega e il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, perché gran parte delle condizioni in materia economica poste dai leader del Carroccio (e applaudite con calore dal “popolo della Lega” riunito a Pontina) cozzano con le politiche impostate dal dicastero di via XX Settembre, dato che comportano una consistente riduzione di gettito fiscale preliminare all’eventuale contrazione della spesa, proprio mentre si annuncia, invece, una maxi-manovra di 20 miliardi di euro (per essere in linea con il patto euro-plus) e la Bce ci invita a fare ancora di più.
I due aspetti sono interdipendenti, in quanto possono portare o all’uscita della Lega dal Governo a breve termine o al cambiamento di inquilino a via XX Settembre per traslocare non verso Palazzo Chigi (come alcuni pensavano sino a pochi mesi fa), ma verso lidi non ancora chiari a nessuno (neanche al diretto interessato).
È interessante notare che le condizioni in materia di politica economica non sono molto differenti da quelle presentate il giorno prima in piazza del Popolo a Roma da Cisl e Uil: i vertici della Lega rafforzano il proprio nesso (mai abbandonato) con il ceto “che lavora e che produce” e che si considera “tartassato”. È anche interessante notare che, sotto il profilo dei costi da ridurre, da un lato si propone il ritiro dell’Italia da missioni internazionali pattuite con altri Stati nell’ambito di accordi a vasto raggio e da un altro si delinea una vera e propria riforma costituzionale (nella piena consapevolezza che tali riforme in nessuna parte del mondo occidentale vengono fatte da Governi “di parte”).
Occorre lasciare a commentatori poco informati l’uso dell’aggettivo “folcloristico” a proposito delle proposte relative al trasferimento di alcuni dicasteri al Nord: nella “devolution” britannica parte della pubblica amministrazione di Sua Maestà lasciò Whitehall per andare, senza traumi eccessivi, nei pressi di Bristol e di Edinburgo.
Come indicato in alcune mail inviati a Roma da Washington la settimana scorsa, l’Amministrazione Obama era perfettamente consapevolmente già da alcuni giorni, pur senza la ricchezza di dettagli enunciati a Pontida, degli intenti dei leader della Lega. Il partito ha da anni propri rappresentanti negli Stati Uniti - un tempo anche un ufficio al Rockefeller Center di New York che non so se sia ancora in funzione. Il quotidiano America Oggi, l’unico in lingua italiana negli Stati Uniti, (30.000 copie vendute in settimana, 60.000 la domenica) non cela le proprie simpatie leghiste.
Da quando Obama è alla Casa Bianca, i “leghisti americani” (chiamiamoli così) hanno consolidato rapporti diretti con il Tesoro e con il Comitato dei Consiglieri Economici del Presidente, soprattutto in quanto gli obamiani non sembrano avere mai stretto un rapporto intenso con Giulio Tremonti, da loro considerato (a torto o a ragione) troppo vicino a Larry Lindsey (il consigliere speciale di Bush). Da Washington, quindi, informano Via Bellerio che su una sponda americana l’attuale inquilino di via XX Settembre non può più contare.
Al Tesoro e al Dipartimento di Stato si auspica che l’Italia riesca a evitare un declassamento dei propri titoli di Stato (quale quello minacciato da Moody’s) e avvii una “grande coalizione” per presentare, e attuare, un programma rigoroso di riduzione della spesa tale da rendere possibile quell’abbassamento della pressione tributaria e quell’allentamento del giogo regolatorio senza il quale nessuna ripresa significativa è possibile.
Si è detto che la riforma istituzionale preconizzata a Pontida (la riduzione del numero dei Parlamentari e la costituzione del Senato delle Regioni) non può essere realizzata senza l’accordo di un vasto arco del Parlamento. Analogamente, l’eventuale cambiamento degli accordi internazionali sulle missioni militari all’estero richiedono il supporto di un vasto arco parlamentare. E, soprattutto, la leadership leghista non vuole elezioni subito per evitare al centrodestra una terza bruciante sconfitta elettorale.
Tutto pare spingere verso una “grande coalizione”, anche se è difficile ipotizzare non solamente se Silvio Berlusconi sarà pronto a fare un passo indietro, se Tremonti (considerato una garanzia per l’Ue) possa restare al proprio posto nell’eventualità di cambiamento di Governo (si parla, anche negli Usa, di Presidenza del Consiglio a Maroni). Ancora più arduo delineare quale potrebbe essere la struttura di un eventuale nuovo Esecutivo in grado di rassicurare i mercati e realizzare le riforme (inclusa quella della Costituzione).
Siamo in mezzo a un guado: abbiamo lasciato la sponda degli ultimi anni, ma non intravediamo ancora quella dove approdare.
L'orchestrazione in primo piano ne "La bohème" diretta da James Conlon Il Sussidiario 20 giugno
PUCCINI/ L'orchestrazione in primo piano ne "La bohème" diretta da James Conlon
Giuseppe Pennisi
lunedì 20 giugno 2011
La Bohème al Teatro dell'Opera di Roma
Approfondisci
VERDI/ La prima esecuzione integrale de Les Vêpres Siciliennes di Verdi al San Carlo di Napoli
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana
Tra le tante leggende metropolitane che dominano il teatro lirico e il suo pubblico c’è quella secondo cui La Bohème è un’opera di voci in cui buoni cantanti possono essere affiancati anche da maestri concertatori di routine. Nel suo volume su Puccini, Julian Budden ci ricorda come in quel periodo, invece, il compositore lucchese fosse particolarmente interessato dall’orchestrazione; in Manon Lescaut aveva mostrato di avere assimilato il sinfonismo wagneriano ed era alla ricerca di nuove strade per la musica del secolo che stava per iniziare. Pochi ricordano che La Bohème è stata tenuta a battesimo da Toscanini e che sia von Karajan sia Bernstein la consideravano tra le partiture orchestrali più difficili, e più belle, da dirigere. Ancora meno coloro che rammentano come 15 anni dopo la prima rappresentazione, le terzine del secondo atto appassionarono Stravinsky e che Debussy, il meno pucciniano dei compositori del periodo, in una conversazione con De Falla, disse, con una punta di rimpianto, che invidiava il suono dei fiocchi di neve nel terzo atto ottenuto con flauti, arpe e un violoncello.
Lo ha tenuto presente il Teatro dell’Opera di Roma affidando la concertazione della nuova edizione di La Bohème a uno dei maggiori specialisti di musica del Novecento, James Conlon a cui si deve la riscoperta di autori come Zemlisky, Korngold, Schreker, Ullman nonché le diffusione di Britten in tutto il mondo. In mano a Conlon, abbiamo La Bohème differente da quelle ascoltate con la concertazione di Oren, Gelmetti, e molti altri. E’ un’opera in cui l’orchestra è protagonista: intrecciando una quindicina di motivi tematici, introducendo dissonanze a quelle che dieci anni dopo avrebbero fatto il successo di Richard Strauss, si creano le atmosfere per palpare la gioventù come la sola stagione che non ritorna, per passare dai momenti lievi (quasi sognatori) del primo atto al ritmo incalzante del secondo atto, all’inconsolabili melanconie del terzo al tragico raggiungimento dell’età adulta nel quarto.
C’è una finezza orchestrale delicatissima, la stessa che quasi 14 anni più tardi Puccini ritroverà nel mondo ruvido, e per certi aspetti non verosimile, de La Fanciulla del West. L’orchestra e il coro sono stati perfettamente all’altezza delle richieste di Conlon.
Naturalmente non basta mettere in valore l’orchestrazione per una buona La Bohème. Le voci e l’occhio hanno la loro parte. Il Teatro dell’Opera schiera due cast per 10 rappresentazioni, Ramòn Vargas e Hibla Gerzmava si alternano con Stefano Secco e Maria Josè Siri nel ruolo degli innamorati e tormentati protagonisti, Rodolfo e Mimì; accanto a loro Vito Priante/Guido Loconsolo (Schaunard), Franco Vassallo/Luca Salsi (Marcello), Marco Spotti/Giovanni Battista Parodi (Colline), Patrizia Ciofi/Ellie Dehn (Musetta).
La sera del 16 giugno, prima rappresentazione, la sorpresa è stata la giovane Hibla Gerzmava; con un bel viso, ma non certo con il fisico di una malata di tisi ha strappato applausi al primo atto e ovazioni nel finale, accompagnate da qualche contestazione dal loggione (non chiaramente indirizzate a lei o alla spettacolo, differente da quello inizialmente annunciato lo scorso autunno). Vargas ha i suoi anni e scansa gli acuti più difficili, ma compensa con un timbro chiaro ed ottimi legato e mezza voce. Vassallo è un Marcello vigoroso e maschio. Ciofi una Musetta piena di brio. Buona gli altri.
Due parole sull’allestimento scenico. Era stata annunciata una ripresa di quello di Zeffirelli, pensato per La Scala 53 anni fa e da allora visto in tutto il mondo anche in quanto acquistato dai teatri d’opera di New York, Vienna, Parigi.
Il costo nel noleggio e della messa in scena, si è rivelato eccessivo. Quindi, il Teatro dell’Opera ha riproposto una squisita produzione di Pierluigi Samaritani, scomparso nel 1994. E’ ripresa da Marco Gardini con i costumi disegnati da Anna Biagiotti per la sartoria del teatro. Da un lato, l’edizione di Samaritani, meno colossale di quella di Zeffirelli, ha più di quest’ultima come chiave interpretativa il senso dell’opera: “la giovinezza ha una stagione sola”, che non ritorna. Dall’altro, la messa in scena è stata concepita per il teatro, il Massimo Bellini di Catania, quello che ha in Italia la migliore acustica, tanto che è qui che la stupenda Dame Joan Sutheland amava cantare e registrare dischi (l’architetto che lo progettò realizzò in seguito quel teatro Colòn di Buenos Aires noto per l’eccellenza delle sue stagioni nella prima metà del Novecento).
Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana. Anche per questo l’allestimento di Samaritani, a cui si deve, tra l’altro , una memorabile Thais merita di ricominciare a girare in Italia ed all’estero.
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Giuseppe Pennisi
lunedì 20 giugno 2011
La Bohème al Teatro dell'Opera di Roma
Approfondisci
VERDI/ La prima esecuzione integrale de Les Vêpres Siciliennes di Verdi al San Carlo di Napoli
MONTEGRAL/ La perla dei festival musicali estivi in un convento sulla Garfagnana
Tra le tante leggende metropolitane che dominano il teatro lirico e il suo pubblico c’è quella secondo cui La Bohème è un’opera di voci in cui buoni cantanti possono essere affiancati anche da maestri concertatori di routine. Nel suo volume su Puccini, Julian Budden ci ricorda come in quel periodo, invece, il compositore lucchese fosse particolarmente interessato dall’orchestrazione; in Manon Lescaut aveva mostrato di avere assimilato il sinfonismo wagneriano ed era alla ricerca di nuove strade per la musica del secolo che stava per iniziare. Pochi ricordano che La Bohème è stata tenuta a battesimo da Toscanini e che sia von Karajan sia Bernstein la consideravano tra le partiture orchestrali più difficili, e più belle, da dirigere. Ancora meno coloro che rammentano come 15 anni dopo la prima rappresentazione, le terzine del secondo atto appassionarono Stravinsky e che Debussy, il meno pucciniano dei compositori del periodo, in una conversazione con De Falla, disse, con una punta di rimpianto, che invidiava il suono dei fiocchi di neve nel terzo atto ottenuto con flauti, arpe e un violoncello.
Lo ha tenuto presente il Teatro dell’Opera di Roma affidando la concertazione della nuova edizione di La Bohème a uno dei maggiori specialisti di musica del Novecento, James Conlon a cui si deve la riscoperta di autori come Zemlisky, Korngold, Schreker, Ullman nonché le diffusione di Britten in tutto il mondo. In mano a Conlon, abbiamo La Bohème differente da quelle ascoltate con la concertazione di Oren, Gelmetti, e molti altri. E’ un’opera in cui l’orchestra è protagonista: intrecciando una quindicina di motivi tematici, introducendo dissonanze a quelle che dieci anni dopo avrebbero fatto il successo di Richard Strauss, si creano le atmosfere per palpare la gioventù come la sola stagione che non ritorna, per passare dai momenti lievi (quasi sognatori) del primo atto al ritmo incalzante del secondo atto, all’inconsolabili melanconie del terzo al tragico raggiungimento dell’età adulta nel quarto.
C’è una finezza orchestrale delicatissima, la stessa che quasi 14 anni più tardi Puccini ritroverà nel mondo ruvido, e per certi aspetti non verosimile, de La Fanciulla del West. L’orchestra e il coro sono stati perfettamente all’altezza delle richieste di Conlon.
Naturalmente non basta mettere in valore l’orchestrazione per una buona La Bohème. Le voci e l’occhio hanno la loro parte. Il Teatro dell’Opera schiera due cast per 10 rappresentazioni, Ramòn Vargas e Hibla Gerzmava si alternano con Stefano Secco e Maria Josè Siri nel ruolo degli innamorati e tormentati protagonisti, Rodolfo e Mimì; accanto a loro Vito Priante/Guido Loconsolo (Schaunard), Franco Vassallo/Luca Salsi (Marcello), Marco Spotti/Giovanni Battista Parodi (Colline), Patrizia Ciofi/Ellie Dehn (Musetta).
La sera del 16 giugno, prima rappresentazione, la sorpresa è stata la giovane Hibla Gerzmava; con un bel viso, ma non certo con il fisico di una malata di tisi ha strappato applausi al primo atto e ovazioni nel finale, accompagnate da qualche contestazione dal loggione (non chiaramente indirizzate a lei o alla spettacolo, differente da quello inizialmente annunciato lo scorso autunno). Vargas ha i suoi anni e scansa gli acuti più difficili, ma compensa con un timbro chiaro ed ottimi legato e mezza voce. Vassallo è un Marcello vigoroso e maschio. Ciofi una Musetta piena di brio. Buona gli altri.
Due parole sull’allestimento scenico. Era stata annunciata una ripresa di quello di Zeffirelli, pensato per La Scala 53 anni fa e da allora visto in tutto il mondo anche in quanto acquistato dai teatri d’opera di New York, Vienna, Parigi.
Il costo nel noleggio e della messa in scena, si è rivelato eccessivo. Quindi, il Teatro dell’Opera ha riproposto una squisita produzione di Pierluigi Samaritani, scomparso nel 1994. E’ ripresa da Marco Gardini con i costumi disegnati da Anna Biagiotti per la sartoria del teatro. Da un lato, l’edizione di Samaritani, meno colossale di quella di Zeffirelli, ha più di quest’ultima come chiave interpretativa il senso dell’opera: “la giovinezza ha una stagione sola”, che non ritorna. Dall’altro, la messa in scena è stata concepita per il teatro, il Massimo Bellini di Catania, quello che ha in Italia la migliore acustica, tanto che è qui che la stupenda Dame Joan Sutheland amava cantare e registrare dischi (l’architetto che lo progettò realizzò in seguito quel teatro Colòn di Buenos Aires noto per l’eccellenza delle sue stagioni nella prima metà del Novecento).
Nella produzione pucciniana, La Bohème è un’opera unica, dal colore inconfondibile. Eclettica, tale da fondere mirabilmente il melodramma, il romanticismo tedesco, l’opéra lyrique francese e la romanza-canzone da salotto: è il più fulgido esempio italiano di literaturoper. Anche per questo motivo, è memore di Bizet, di Massenet e di Gounod più che della tradizione italiana. Anche per questo l’allestimento di Samaritani, a cui si deve, tra l’altro , una memorabile Thais merita di ricominciare a girare in Italia ed all’estero.
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venerdì 17 giugno 2011
“I DUE FIGARO” GUARDANO A SALISBURGO PIU’ CHE A NAPOLI IN Milano Finanza 18 giugno
Giuseppe Pennisi
Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, approda dal 24 al 26 giugno al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per ,caso di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. E’ un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segnoe importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano.
I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Antonio Poli, un promettente tenore lirico. Anche se “I due Figaro” non appartengono interamente alla “scuola napoletana”, occorre chiedersi quante delle opere “ritrovate” nell’ambito di questo progetto quinquennale verranno riprese in futuro ed entreranno nei cartelloni.
Dopo il debutto al Festival di Pentecoste di Salisburgo e prima di andare a Madrid, approda dal 24 al 26 giugno al Ravenna Festival “I due Figaro” di Saverio Mercadante, la cui partitura è stata scoperta, quasi per ,caso di recente. L’opera, che probabilmente si vedrà anche in un circuito regionale il prossimo inverno, conclude il ciclo quinquennale di “riscoperte” di opere del Settecento napoletano proposto da Riccardo Muti a Salisburgo. E’ un lavoro divertente, composto nel 1826 (ma andato in scena solo nel 1835 a causa di difficoltà con la censura ). La trama è un seguito de “Le Nozze di Figaro”; la scrittura vocale e musicale risente più dello stile di Mozart (con echi di Bellini, Donizetti e Rossini nonché di musica spagnola) che del brio farsesco della “scuola napoletana” in senso stretto. L’opera è un segnoe importante di come l’ombra lunga del salisburghese si era estesa in Europa; in Italia avrebbe avuto un’influenza ancora maggiore se non le fosse stato contrapposto il melodramma verdiano.
I tre teatri (Salisburgo, Ravenna, Madrid) che co-producono l’allestimento non hanno lesinato nella messa in scena. Spigliata la regia di Emilio Sagi. Eleganti le scene di Daniel Bianco ed i costumi di Jesus Ruiz. Buoni l’orchestra giovanile Cherubini ed cast (in gran misura di debuttanti). Spicca Antonio Poli, un promettente tenore lirico. Anche se “I due Figaro” non appartengono interamente alla “scuola napoletana”, occorre chiedersi quante delle opere “ritrovate” nell’ambito di questo progetto quinquennale verranno riprese in futuro ed entreranno nei cartelloni.
Towards a Better World Music and Vision June 2
Towards a Better World
Daniel Barenboim and the
West-Eastern Divan Orchestra
are currently on a world tour.
GIUSEPPE PENNISI listens
to their concert in Rome
18 May is an important date for all music lovers: it is the anniversary, this year the centenary, of the death of Gustav Mahler, one of the most important composers and conductors of the twentieth century. Rome had the privilege of celebrating it in a fully packed 3000 seat Sala Santa Cecilia, in the presence of the President of the Republic and of other authorities (but mostly by ordinary ticket-paying mmusic lovers) with a concert that featured the only movement of the tenth symphony Mahler actually achieved. More importantly, this was not a regular subscription concert but a special fundraising event during the worldwide tour of the West-Eastern Divan Orchestra conducted by Daniel Barenboim. The tour started in Doha; after a pause in June, he will take the orchestra to the Far East and end in Lucerne and Salzburg in August. The Argentine-Israeli conductor Daniel Barenboim and the late Palestinian-American academic Edward Said co-founded the orchestra in 1999, and named the ensemble after an anthology of poems by Goethe. The first orchestral workshop was in Weimar in 1999, after the organisation had received over two hundred applications from Arabic music students.
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The West-Eastern Divan is a youth orchestra based in Seville, consisting of musicians from countries in the Middle East of Egyptian, Iranian, Israeli, Jordanian, Lebanese, Palestinian, and Syrian backgrounds: Its aim is to promote understanding, intercultural dialogue and the experience of collaboration among young talented musicians coming from this troubled area, where listening to each other is too often replaced by violent conflict. And, of course, its aim is to make great music. Barenboim himself has spoken of the ensemble as follows:
'The Divan is not a love story, and it is not a peace story. It has very flatteringly been described as a project for peace. It isn't. It's not going to bring peace, whether you play well or not so well. The Divan was conceived as a project against ignorance. A project against the fact that it is absolutely essential for people to get to know the other, to understand what the other thinks and feels, without necessarily agreeing with it. I'm not trying to convert the Arab members of the Divan to the Israeli point of view, and (I'm) not trying to convince the Israelis of the Arab point of view. But I want to -- and unfortunately I am alone in this now that Edward died a few years ago -- create a platform where the two sides can disagree and not resort to knives.'
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
One of the young musicians of the orchestra reinforced this point:
'Barenboim is always saying his project is not political. But one of the really great things is that this is a political statement by both sides. It is more important not for people like myself, but for people to see that it is possible to sit down with Arab people and play. The orchestra is a human laboratory that can express to the whole world how to cope with the other.'
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
Since 2002, the Junta de Andalucía (Regional Government of Andalusia) and a private foundation have provided a base for the ensemble in Seville, Spain (see www.west-eastern-divan.org). Now, forty per cent of musicians are Palestinians, forty per cents Israelis. The remaining twenty percent is mostly made up by Spaniards, especially from Andalucía. They are all young, normally in their late twenties. By playing music together, they contribute more to the international peace effort in the Middle East than many conferences and shuttle diplomacy efforts.
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The West-Eastern Divan Orchestra has been awarded several prizes, among them the Prize Príncipe de Asturias of the Concorde in 2002 for Said and Barenboim, and the Imperial Premium awarded by the Japan Arts Association (ie the Asian equivalent of a Nobel Prize.
In 2004, the Barenboim-Said Foundation was established and financed by the Junta de Andalucía (Regional Government of Andalusia) with the purpose of developing several other education projects through music and based on the principles of coexistence and dialogue promoted by Said and Barenboim. In addition to managing the orchestra, the Barenboim-Said Foundation assists with other projects such as the Academy of Orchestral Studies, the Musical Education in Palestine project and the Early Childhood Musical Education Project in Seville. A film about the orchestra by Paul Smaczny, Knowledge is the Beginning, won the Emmy Award for the best documentary related to the arts of 2006.
Daniel Barenboim and the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The 18 May 2011 concert included, in addition to Mahler's Andante-Adagio (the first movement of the unfinished tenth symphony), Beethoven's third symphony in E flat major. In short, two very well known pieces that do not require any explanation to Music & Vision readers.
Barenboim conducted Mahler's movement by slowing and expanding its tempos; it lasted thirty-five minutes -- nearly ten minutes longer than the same piece as performed, only a few weeks earlier, by the Orchestra Sinfonica di Roma under Francesco La Vecchia's baton. In Barenboim's reading, the violas emphasize a theme that comes back several times. Each time it is modified like the flow of waters in a river -- Mahler's central idea for the movement. After a choral part by the brass, a strong dissonance shakes the orchestra and the notes seem to slowly disappear into the sky. Mahler -- we know -- was aware of his imminent death, had been left by his much loved wife, and had returned to being a non-believing Jew with a pantheist vision of nature and of mankind -- the Zen vision which permeates the song cycle he was composing at the same time -- Das Lied von der Erde. Thus, a tormented movement which the orchestra mastered very well. The audience responded with accolades.
Daniel Barenboim (left) in conversation with the President of the Italian Republic, Giorgio Napolitano, and the First Lady, Ms Clio Napolitano. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
It is somewhat easier for an orchestra of young people to feel Beethoven's Symphony No 3 in E Flat major, normally called 'The Heroic Symphony'. It is a classical four movement symphony. In Barenboim's and the orchestra's interpretation, the Allegro con Brio has no Napoleonic undertones. The 'hero' is mankind itself. The theme is a passionate loving vision of the liberation, the awakening and re-invention of mankind. A flight into space with motifs of the French revolution. It is followed by Marcia Funebre / Adagio Assai -- a dark, gloomy march which does not lead to a desolate nothing but to a new beginning. Hence to the Scherzo / Allegro Vivace full of promises exploding in the Finale / Allegro Molto. Under Barenboim's baton, the symphony lasted sixty-two minutes. It was the heroic strive towards a better world -- first of all, a world of peace.
There were no accolades but a fourteen minute standing ovation.
Copyright © 2 June 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
DANIEL BARENBOIM
GUSTAV MAHLER
LUDWIG VAN BEETHOVEN
ROME
ITALY
ORCHESTRAL MUSIC
<< M&V home Concert reviews Shostakovich >>
Daniel Barenboim and the
West-Eastern Divan Orchestra
are currently on a world tour.
GIUSEPPE PENNISI listens
to their concert in Rome
18 May is an important date for all music lovers: it is the anniversary, this year the centenary, of the death of Gustav Mahler, one of the most important composers and conductors of the twentieth century. Rome had the privilege of celebrating it in a fully packed 3000 seat Sala Santa Cecilia, in the presence of the President of the Republic and of other authorities (but mostly by ordinary ticket-paying mmusic lovers) with a concert that featured the only movement of the tenth symphony Mahler actually achieved. More importantly, this was not a regular subscription concert but a special fundraising event during the worldwide tour of the West-Eastern Divan Orchestra conducted by Daniel Barenboim. The tour started in Doha; after a pause in June, he will take the orchestra to the Far East and end in Lucerne and Salzburg in August. The Argentine-Israeli conductor Daniel Barenboim and the late Palestinian-American academic Edward Said co-founded the orchestra in 1999, and named the ensemble after an anthology of poems by Goethe. The first orchestral workshop was in Weimar in 1999, after the organisation had received over two hundred applications from Arabic music students.
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The West-Eastern Divan is a youth orchestra based in Seville, consisting of musicians from countries in the Middle East of Egyptian, Iranian, Israeli, Jordanian, Lebanese, Palestinian, and Syrian backgrounds: Its aim is to promote understanding, intercultural dialogue and the experience of collaboration among young talented musicians coming from this troubled area, where listening to each other is too often replaced by violent conflict. And, of course, its aim is to make great music. Barenboim himself has spoken of the ensemble as follows:
'The Divan is not a love story, and it is not a peace story. It has very flatteringly been described as a project for peace. It isn't. It's not going to bring peace, whether you play well or not so well. The Divan was conceived as a project against ignorance. A project against the fact that it is absolutely essential for people to get to know the other, to understand what the other thinks and feels, without necessarily agreeing with it. I'm not trying to convert the Arab members of the Divan to the Israeli point of view, and (I'm) not trying to convince the Israelis of the Arab point of view. But I want to -- and unfortunately I am alone in this now that Edward died a few years ago -- create a platform where the two sides can disagree and not resort to knives.'
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
One of the young musicians of the orchestra reinforced this point:
'Barenboim is always saying his project is not political. But one of the really great things is that this is a political statement by both sides. It is more important not for people like myself, but for people to see that it is possible to sit down with Arab people and play. The orchestra is a human laboratory that can express to the whole world how to cope with the other.'
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
Since 2002, the Junta de Andalucía (Regional Government of Andalusia) and a private foundation have provided a base for the ensemble in Seville, Spain (see www.west-eastern-divan.org). Now, forty per cent of musicians are Palestinians, forty per cents Israelis. The remaining twenty percent is mostly made up by Spaniards, especially from Andalucía. They are all young, normally in their late twenties. By playing music together, they contribute more to the international peace effort in the Middle East than many conferences and shuttle diplomacy efforts.
Daniel Barenboim conducts the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The West-Eastern Divan Orchestra has been awarded several prizes, among them the Prize Príncipe de Asturias of the Concorde in 2002 for Said and Barenboim, and the Imperial Premium awarded by the Japan Arts Association (ie the Asian equivalent of a Nobel Prize.
In 2004, the Barenboim-Said Foundation was established and financed by the Junta de Andalucía (Regional Government of Andalusia) with the purpose of developing several other education projects through music and based on the principles of coexistence and dialogue promoted by Said and Barenboim. In addition to managing the orchestra, the Barenboim-Said Foundation assists with other projects such as the Academy of Orchestral Studies, the Musical Education in Palestine project and the Early Childhood Musical Education Project in Seville. A film about the orchestra by Paul Smaczny, Knowledge is the Beginning, won the Emmy Award for the best documentary related to the arts of 2006.
Daniel Barenboim and the West-Eastern Divan Orchestra in Rome. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
The 18 May 2011 concert included, in addition to Mahler's Andante-Adagio (the first movement of the unfinished tenth symphony), Beethoven's third symphony in E flat major. In short, two very well known pieces that do not require any explanation to Music & Vision readers.
Barenboim conducted Mahler's movement by slowing and expanding its tempos; it lasted thirty-five minutes -- nearly ten minutes longer than the same piece as performed, only a few weeks earlier, by the Orchestra Sinfonica di Roma under Francesco La Vecchia's baton. In Barenboim's reading, the violas emphasize a theme that comes back several times. Each time it is modified like the flow of waters in a river -- Mahler's central idea for the movement. After a choral part by the brass, a strong dissonance shakes the orchestra and the notes seem to slowly disappear into the sky. Mahler -- we know -- was aware of his imminent death, had been left by his much loved wife, and had returned to being a non-believing Jew with a pantheist vision of nature and of mankind -- the Zen vision which permeates the song cycle he was composing at the same time -- Das Lied von der Erde. Thus, a tormented movement which the orchestra mastered very well. The audience responded with accolades.
Daniel Barenboim (left) in conversation with the President of the Italian Republic, Giorgio Napolitano, and the First Lady, Ms Clio Napolitano. Photo © 2011 Musacchio & Ianniello. Click on the image for higher resolution
It is somewhat easier for an orchestra of young people to feel Beethoven's Symphony No 3 in E Flat major, normally called 'The Heroic Symphony'. It is a classical four movement symphony. In Barenboim's and the orchestra's interpretation, the Allegro con Brio has no Napoleonic undertones. The 'hero' is mankind itself. The theme is a passionate loving vision of the liberation, the awakening and re-invention of mankind. A flight into space with motifs of the French revolution. It is followed by Marcia Funebre / Adagio Assai -- a dark, gloomy march which does not lead to a desolate nothing but to a new beginning. Hence to the Scherzo / Allegro Vivace full of promises exploding in the Finale / Allegro Molto. Under Barenboim's baton, the symphony lasted sixty-two minutes. It was the heroic strive towards a better world -- first of all, a world of peace.
There were no accolades but a fourteen minute standing ovation.
Copyright © 2 June 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
DANIEL BARENBOIM
GUSTAV MAHLER
LUDWIG VAN BEETHOVEN
ROME
ITALY
ORCHESTRAL MUSIC
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Artistic Freedom in Music and Vision May 31st
Artistic Freedom
GIUSEPPE PENNISI visits the sophisticated
music festival in a Tuscan mountain convent
and stays for the full three days
This year too, the Montegral Academy held its annual three day festival at the end of the Spring in the breathtaking Convento dell'Angelo on the top of a Tuscan mountain. General information on the Academy was provided in Music & Vision on 10 May 2010 and there's further information at the www.montegral.com website. In short, the Academy was created some ten years ago on the basis of a long-term agreement between the Passion Fathers (owners of the Convent) and a foundation established under the aegis of the composer and conductor Gustav Kuhn, considered by Herbert von Karajan as his favorite heir. Its main purpose is to train instrumentalists and singers for two major festivals, the Tyrol Festival (www.tiroler-festpiele.at) in July (mostly opera) and the Alto Adige Festival (www.altoadige-festival.it) in September (mostly symphonic music). Often, the young musicians are recruited by Austrian and German orchestras and opera houses. An Austrian record company Col-Legno (www.col-legno.com) provides its own support and stirs that of savings & loans associations, banks and local authorities. Diversified financing is the road to artistic freedom.
The Convent at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
In four years, the Montegral Festival has become the most sophisticated spring music appointment in continental Europe. From 20 to 22 May 2011, the Convent (seventy cells for monks and a few grand rooms for senior authorities, conceived for bishops and aristocrats) and a few hotels in the valley and in Lucca have had as their guests nearly forty musicians and an audience of no more than a hundred, the full capacity of the convent's 1830 neoclassical church.
Violinist Fjodor Lushch plays for some of the select audience at Montegral including, front right, composer/conductor Gustav Kuhn. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
The audience was, of course, very selective: the President of the Austrian National Bank, the Tyrol Prime Minister, a few Italian bankers and industrialists, a limited number of music lovers, chosen among those normally going to the July and September Festival in Tyrol and Alto Adige, very few journalists (but from all over continental Europe). A three-day retreat of this kind may make the media about an Austrian-German-Italian plot to take over the euro area. Nothing like that: just the pleasure of music in astounding surroundings.
Violinist Fjodor Lushch and composer/conductor Gustav Kuhn lead the procession from the terrace to the church at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
The church serves as the main auditorium for the festival according to a strict ritual: 6pm aperitif on the terrace (with a breathtaking view over a Tuscan valley); 6.30pm a walk from the terrace to the church to the sound of the violin played by virtuoso Fjodor Lushch. Then a chamber music concert followed by dinner, and around 10.30pm a second chamber music concert until very late at night. On Sunday morning, Mass is celebrated in the church with a philological edition of Rossini's Petite Messe Solennelle (with no orchestra but three grand-pianos).
The end of Girolamo Deraco's micro-opera 'REDazione' in Montegral convent's neo-classical church. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
Two ingredients are at the basis of the festival's success: a) young artists; and b) a careful balance between classical music (Bach, Beethoven, Mozart), nineteen century music (Catalani, Puccini, Mahler) and contemporary music (Ligeti, Deraco). There is also chamber opera, or rather micro-opera -- very few instrumentalists and soloists. Last year the micro-opera was Deraco's Checkinaggio on what happens at an airport check-in if terrorists or people thought to be terrorists fiddle in. This year Deraco premiered a 'Delirium Drama' titled 'REDazione': what happens in a newspaper newsroom if cell phones make everyone go mad. REDazione will go to a major Scandinavian contemporary music festival in the Summer, to Milan in September and to Rome in November.
The duo Akkosax - Hannes Sprenger, saxophone and Siggi Haider, harmonium - perform at the Montegral festival. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
Another feature is that the three young pianists Jasminka Stancul, Alfonso Alberti and Davide Cabassi started out in the Academy but are now well known in Europe and the US: recently, Italian Television devoted a one hour program only to Cabassi and the passionate way he approaches the piano. This year a new special entry in the pianist group was Vincenzo Maltempo. Finally, the chorus is made up entirely from soloists; eg two of the tenors (Zvetan Michailov and Andreas Schager) will have major roles in Parsifal and in Die Meistersinger at the Tyrol Festival in July. Wait for the review!
Patrice and Giuseppe Pennisi talk to composer Marcello Filotei at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
In short, a full and extraordinary musical immersion. Thanks to the recordings, it is not only for the lucky few.
Copyright © 31 May 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
ITALY
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GIUSEPPE PENNISI visits the sophisticated
music festival in a Tuscan mountain convent
and stays for the full three days
This year too, the Montegral Academy held its annual three day festival at the end of the Spring in the breathtaking Convento dell'Angelo on the top of a Tuscan mountain. General information on the Academy was provided in Music & Vision on 10 May 2010 and there's further information at the www.montegral.com website. In short, the Academy was created some ten years ago on the basis of a long-term agreement between the Passion Fathers (owners of the Convent) and a foundation established under the aegis of the composer and conductor Gustav Kuhn, considered by Herbert von Karajan as his favorite heir. Its main purpose is to train instrumentalists and singers for two major festivals, the Tyrol Festival (www.tiroler-festpiele.at) in July (mostly opera) and the Alto Adige Festival (www.altoadige-festival.it) in September (mostly symphonic music). Often, the young musicians are recruited by Austrian and German orchestras and opera houses. An Austrian record company Col-Legno (www.col-legno.com) provides its own support and stirs that of savings & loans associations, banks and local authorities. Diversified financing is the road to artistic freedom.
The Convent at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
In four years, the Montegral Festival has become the most sophisticated spring music appointment in continental Europe. From 20 to 22 May 2011, the Convent (seventy cells for monks and a few grand rooms for senior authorities, conceived for bishops and aristocrats) and a few hotels in the valley and in Lucca have had as their guests nearly forty musicians and an audience of no more than a hundred, the full capacity of the convent's 1830 neoclassical church.
Violinist Fjodor Lushch plays for some of the select audience at Montegral including, front right, composer/conductor Gustav Kuhn. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
The audience was, of course, very selective: the President of the Austrian National Bank, the Tyrol Prime Minister, a few Italian bankers and industrialists, a limited number of music lovers, chosen among those normally going to the July and September Festival in Tyrol and Alto Adige, very few journalists (but from all over continental Europe). A three-day retreat of this kind may make the media about an Austrian-German-Italian plot to take over the euro area. Nothing like that: just the pleasure of music in astounding surroundings.
Violinist Fjodor Lushch and composer/conductor Gustav Kuhn lead the procession from the terrace to the church at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
The church serves as the main auditorium for the festival according to a strict ritual: 6pm aperitif on the terrace (with a breathtaking view over a Tuscan valley); 6.30pm a walk from the terrace to the church to the sound of the violin played by virtuoso Fjodor Lushch. Then a chamber music concert followed by dinner, and around 10.30pm a second chamber music concert until very late at night. On Sunday morning, Mass is celebrated in the church with a philological edition of Rossini's Petite Messe Solennelle (with no orchestra but three grand-pianos).
The end of Girolamo Deraco's micro-opera 'REDazione' in Montegral convent's neo-classical church. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
Two ingredients are at the basis of the festival's success: a) young artists; and b) a careful balance between classical music (Bach, Beethoven, Mozart), nineteen century music (Catalani, Puccini, Mahler) and contemporary music (Ligeti, Deraco). There is also chamber opera, or rather micro-opera -- very few instrumentalists and soloists. Last year the micro-opera was Deraco's Checkinaggio on what happens at an airport check-in if terrorists or people thought to be terrorists fiddle in. This year Deraco premiered a 'Delirium Drama' titled 'REDazione': what happens in a newspaper newsroom if cell phones make everyone go mad. REDazione will go to a major Scandinavian contemporary music festival in the Summer, to Milan in September and to Rome in November.
The duo Akkosax - Hannes Sprenger, saxophone and Siggi Haider, harmonium - perform at the Montegral festival. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
Another feature is that the three young pianists Jasminka Stancul, Alfonso Alberti and Davide Cabassi started out in the Academy but are now well known in Europe and the US: recently, Italian Television devoted a one hour program only to Cabassi and the passionate way he approaches the piano. This year a new special entry in the pianist group was Vincenzo Maltempo. Finally, the chorus is made up entirely from soloists; eg two of the tenors (Zvetan Michailov and Andreas Schager) will have major roles in Parsifal and in Die Meistersinger at the Tyrol Festival in July. Wait for the review!
Patrice and Giuseppe Pennisi talk to composer Marcello Filotei at Montegral. Photo © 2011 Judith Pfahnl. Click on the image for higher resolution
In short, a full and extraordinary musical immersion. Thanks to the recordings, it is not only for the lucky few.
Copyright © 31 May 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
ITALY
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When Verdi Slept Music and Vision May 31
When Verdi Slept
'La Battaglia di Legnano',
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
La Battaglia di Legnano is the only outright patriotic opera in Giuseppe Verdi's catalogue. It was commissioned by the Teatro Argentina after the 1848 riots; at that time in Rome, following the uprising, Pope Pius IX attempted to create a semi-constitutional monarchy with a Parliamentary Assembly and a Prime Minister to run the State. The attempt did not last long; after the murder of a reformist Prime Minister and new upheavals, the Pope escaped to a French fortress and garrison in Gaeta. A Roman Republic was established with a lot of revolutionary fervour; it lasted merely five months and was overtaken by French troops. La Battaglia di Legnano was premiered with tremendous success on 27 January 1849, just before the Pope's escape to Gaeta and the proclamation of the Roman Republic; for several nights, its entire fourth act was enthusiastically encored. The opera was meant to be patriotic right from the decision to commission it.
Initially, the author of the libretto Salvatore Cammarano thought to base it upon Bulwer Lytton's novel Cola di Rienzi, which a few years earlier had been the inspiration for Wagner's grand-opéra. But the novel did not a have a love story, and thus no important role for a soprano. Therefore, Cammarano turned to Joseph Merry du Locle's play La Battaille de Toulouse, a plot of Napoleonic heroism and love. There's no doubt that looking into some other country's history is a peculiar way to build a truly patriotic opera! Toulouse became Legnano, near Milan, where in 1173 there had been a battle between the 'City States' or 'Communes' forces (with the Pope's flag) against the Holy Roman Emperor Frederic. Historians tend to downgrade the importance of the battle. But the confrontation between the 'Communes' and the Empire became a myth at the time of the Italian national unification movement; even now it is credited to have had a significant importance in the future development of Italy's Northern regions.
The opera's success was intense but short-lived. The late Paul Hume said the public accolades were 'based more on national aspiration than on sound musical judgment'. Many Italian musicologists would agree. Franco Abbiati, the best known twentieth century Italian music expert, wrote that 'the historical context was poorly moulded with a peculiarly unwilling adultery'. Massimo Mila, one of the major Verdi scholars, added that 'love cabalettas are approximately mixed with emphatic choral parts'. Most likely, Verdi slept while composing.
However, La Battaglia di Legnano could not be that bad: Verdi was Verdi, even when asleep and while fulfilling a mere commission. Important music directors such as Gianandrea Gavazzeni, Lamberto Gardelli and Gabriele Ferro have considered the opera to be a masterpiece. Julian Budden credited La Battaglia di Legnano with importing French style and carefully mixing it with that of Italian melodrama.
It was meant to be a 'grand opéra' but the size (and the finances) of the Teatro Argentina had to moderate the initial ambitions. After the fall of the Roman Republic, it disappeared from Italian theatres, for evident political reasons but also for its intrinsic weakness, both dramatically and musically. It is seldom offered abroad, even though the Budapest Opera House had for years a production with quite transparent anti-Russian undertones. It was revived at La Scala in 1961 (the centenary of Italian unification) and at the Rome Teatro dell'Opera in 1983 and on 24 May 2011 -- this review is based on that performance. The Rome production will go to Barcelona as a part of a collaboration agreement. Two additional productions of this patriotic opera are scheduled soon, in the Fall at La Scala and at the tiny Busseto Theatre during the Verdi Festival. Look out for the reviews!
La Battaglia di Legnano gets this new lease on life because 2011 is the 150th anniversary of the unification of Italy. Will this poorly known and rather misbegotten opera be given a chance for a new season of success? I am sceptical, in spite of the major effort made by this Teatro dell'Opera production.
First of all, the musical and the choral direction by two highly experienced professionals (Pinchas Steinberg and Roberto Gabbiani) gave a cohesion rarely heard in the only other performance I witnessed (Rome, 1983) and even in Gardelli's studio recording. The quality of the musical direction was clear since the compact, two movement (Adagio, Allegro / March) overture. The chorus sounded rather uneven at the start of the first act, but thereafter was increasingly taken by youthfulness and patriotic élan. Steinberg kept a very good balance between the pit, the voices of the soloists and the chorus. A balance especially delicate because in La Battaglia di Legnano Verdi's writing is not as polished as in previous works such as Macbeth or Il Corsaro. As Gianandrea Gavazzeni did (there is a mono 1961 recording of La Scala performances), Steinberg places more emphasis on the wholeness of the picture than on the details. Also because the details (so important in Gardelli's 1977 recording) are of little importance in an opera where there is no psychological development.
Secondly, the vocal cast was particularly good. The young and handsome Yonghoon Lee (Arrigo), a lyric tenor 'spinto' (eg of the Verdi's family of Manrico in Il Trovatore) appeared to be extraordinary (in the literal meaning of 'out-of-the-ordinary') right from his first act 'cavatina' or entrance aria where he received accolades. He has a clear timbre, plenty of volume, excellent phrasing and a tender legato. He grew as the performance went on with his duets with Tatiana Serjan (Lida) and Luca Salsi (Rolando). Tatiana Serjan is an experienced and well-known dramatic soprano with a 'coloratura' flair; she is one of the best Lady Macbeths in the market; she did quite well in her two major arias where she had open stage applause. Luca Salsi is a versatile baritone equally at ease with Rossini (see Music & Vision on 21 April) and with Verdi. Both of them received open stage applause. Two basses, Dmitry Beloselskiy and Gianfranco Montresor, completed the core group of the cast well.
The stage direction (Ruggero Cappuccio), sets and costumes (Carlo Salvi) could be considered controversial but the audience took them quite well. The action was moved from 1173 to some undetermined place in the twentieth century. Also it was entirely indoors, in a museum being refurbished. Thus, no castles, churches or battlefields, but statues and paintings of battles and love being restored. According to Ruggero Cappuccio, it was meant to symbolize that battles are now essentially cultural. I do not know whether the audience caught the meaning. However, they did not seem bothered; on the contrary they rather enjoyed it.
There were nearly fifteen minutes of applause at curtain calls. A real ovation for Yonghoon Lee. It was a special celebration evening. Thus, the success is not a sure path for La Battaglia di Legnano to find a place in Verdi's frequently performed repertory.
Copyright © 31 May 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GIUSEPPE VERDI
TEATRO DELL'OPERA
ROME
ITALY
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'La Battaglia di Legnano',
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
La Battaglia di Legnano is the only outright patriotic opera in Giuseppe Verdi's catalogue. It was commissioned by the Teatro Argentina after the 1848 riots; at that time in Rome, following the uprising, Pope Pius IX attempted to create a semi-constitutional monarchy with a Parliamentary Assembly and a Prime Minister to run the State. The attempt did not last long; after the murder of a reformist Prime Minister and new upheavals, the Pope escaped to a French fortress and garrison in Gaeta. A Roman Republic was established with a lot of revolutionary fervour; it lasted merely five months and was overtaken by French troops. La Battaglia di Legnano was premiered with tremendous success on 27 January 1849, just before the Pope's escape to Gaeta and the proclamation of the Roman Republic; for several nights, its entire fourth act was enthusiastically encored. The opera was meant to be patriotic right from the decision to commission it.
Initially, the author of the libretto Salvatore Cammarano thought to base it upon Bulwer Lytton's novel Cola di Rienzi, which a few years earlier had been the inspiration for Wagner's grand-opéra. But the novel did not a have a love story, and thus no important role for a soprano. Therefore, Cammarano turned to Joseph Merry du Locle's play La Battaille de Toulouse, a plot of Napoleonic heroism and love. There's no doubt that looking into some other country's history is a peculiar way to build a truly patriotic opera! Toulouse became Legnano, near Milan, where in 1173 there had been a battle between the 'City States' or 'Communes' forces (with the Pope's flag) against the Holy Roman Emperor Frederic. Historians tend to downgrade the importance of the battle. But the confrontation between the 'Communes' and the Empire became a myth at the time of the Italian national unification movement; even now it is credited to have had a significant importance in the future development of Italy's Northern regions.
The opera's success was intense but short-lived. The late Paul Hume said the public accolades were 'based more on national aspiration than on sound musical judgment'. Many Italian musicologists would agree. Franco Abbiati, the best known twentieth century Italian music expert, wrote that 'the historical context was poorly moulded with a peculiarly unwilling adultery'. Massimo Mila, one of the major Verdi scholars, added that 'love cabalettas are approximately mixed with emphatic choral parts'. Most likely, Verdi slept while composing.
However, La Battaglia di Legnano could not be that bad: Verdi was Verdi, even when asleep and while fulfilling a mere commission. Important music directors such as Gianandrea Gavazzeni, Lamberto Gardelli and Gabriele Ferro have considered the opera to be a masterpiece. Julian Budden credited La Battaglia di Legnano with importing French style and carefully mixing it with that of Italian melodrama.
It was meant to be a 'grand opéra' but the size (and the finances) of the Teatro Argentina had to moderate the initial ambitions. After the fall of the Roman Republic, it disappeared from Italian theatres, for evident political reasons but also for its intrinsic weakness, both dramatically and musically. It is seldom offered abroad, even though the Budapest Opera House had for years a production with quite transparent anti-Russian undertones. It was revived at La Scala in 1961 (the centenary of Italian unification) and at the Rome Teatro dell'Opera in 1983 and on 24 May 2011 -- this review is based on that performance. The Rome production will go to Barcelona as a part of a collaboration agreement. Two additional productions of this patriotic opera are scheduled soon, in the Fall at La Scala and at the tiny Busseto Theatre during the Verdi Festival. Look out for the reviews!
La Battaglia di Legnano gets this new lease on life because 2011 is the 150th anniversary of the unification of Italy. Will this poorly known and rather misbegotten opera be given a chance for a new season of success? I am sceptical, in spite of the major effort made by this Teatro dell'Opera production.
First of all, the musical and the choral direction by two highly experienced professionals (Pinchas Steinberg and Roberto Gabbiani) gave a cohesion rarely heard in the only other performance I witnessed (Rome, 1983) and even in Gardelli's studio recording. The quality of the musical direction was clear since the compact, two movement (Adagio, Allegro / March) overture. The chorus sounded rather uneven at the start of the first act, but thereafter was increasingly taken by youthfulness and patriotic élan. Steinberg kept a very good balance between the pit, the voices of the soloists and the chorus. A balance especially delicate because in La Battaglia di Legnano Verdi's writing is not as polished as in previous works such as Macbeth or Il Corsaro. As Gianandrea Gavazzeni did (there is a mono 1961 recording of La Scala performances), Steinberg places more emphasis on the wholeness of the picture than on the details. Also because the details (so important in Gardelli's 1977 recording) are of little importance in an opera where there is no psychological development.
Secondly, the vocal cast was particularly good. The young and handsome Yonghoon Lee (Arrigo), a lyric tenor 'spinto' (eg of the Verdi's family of Manrico in Il Trovatore) appeared to be extraordinary (in the literal meaning of 'out-of-the-ordinary') right from his first act 'cavatina' or entrance aria where he received accolades. He has a clear timbre, plenty of volume, excellent phrasing and a tender legato. He grew as the performance went on with his duets with Tatiana Serjan (Lida) and Luca Salsi (Rolando). Tatiana Serjan is an experienced and well-known dramatic soprano with a 'coloratura' flair; she is one of the best Lady Macbeths in the market; she did quite well in her two major arias where she had open stage applause. Luca Salsi is a versatile baritone equally at ease with Rossini (see Music & Vision on 21 April) and with Verdi. Both of them received open stage applause. Two basses, Dmitry Beloselskiy and Gianfranco Montresor, completed the core group of the cast well.
The stage direction (Ruggero Cappuccio), sets and costumes (Carlo Salvi) could be considered controversial but the audience took them quite well. The action was moved from 1173 to some undetermined place in the twentieth century. Also it was entirely indoors, in a museum being refurbished. Thus, no castles, churches or battlefields, but statues and paintings of battles and love being restored. According to Ruggero Cappuccio, it was meant to symbolize that battles are now essentially cultural. I do not know whether the audience caught the meaning. However, they did not seem bothered; on the contrary they rather enjoyed it.
There were nearly fifteen minutes of applause at curtain calls. A real ovation for Yonghoon Lee. It was a special celebration evening. Thus, the success is not a sure path for La Battaglia di Legnano to find a place in Verdi's frequently performed repertory.
Copyright © 31 May 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GIUSEPPE VERDI
TEATRO DELL'OPERA
ROME
ITALY
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Original and Controversial Music and Vision May 16
Original but Controversial
'Sicilian Vespers' as conceived by Verdi,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
Even at the New York Metropolitan Opera House, Les Vêpres Siciliennes is normally presented in Italian, also when the (nearly) full five act original version with a long third act ballet is on stage. In Italy, only the Teatro dell'Opera of Rome produced the full unabridged version in French: it was way back in 1997 with a good cast (John Nelson in the pit, Dessì, Kuelber, Coni and Furlanetto as protagonists), a decent staging (even though the time of the plot was updated from 1282 to around 1850) and a top-class ballet (with Alessandra Ferri and Maximiliano Guerra as stars). The experience has not been repeated until 15 May 2011 for several reasons: too long an opera (the whole evening lasts five hours), and too expensive a production. The recently fully refurbished Teatro San Carlo of Naples, back in its full splendor, organized a glittering new production of the full unabridged opera in French with the ballet and a top class cast (Gianluigi Gelmetti in the pit, Dario Solari, Gregory Kunde, Alexandrina Pendatchanska, Orlin Anastassov as protagonists), the stage direction of Nicolas Joel, the stage sets of Ezio Frigerio, the costumes of Franca Squarciapino and the choreography of Amedeo Amodio. No doubt a colossal production, similar to those that enthralled the Imperial Opera House in Paris when Verdi, for a fabulous fee, signed the contract that led to Les Vêpres Siciliennes. In 1855, Les Vêpres Siciliennes had as many as sixty two performances in the Parisian Imperial Opera House. In short, it was a major hit and the theatre recouped the high fee paid to Verdi and the huge production costs; it also made a handsome profit.
Verdi had already worked for 'la grande boutique' -- this was his name for the main Paris Opera House -- in 1847 when he had been invited to adapt I Lombardi alla Prima Crociata to the French taste and habits by translating the text, adding ballet music and changing the title into Jerusalem. But Les Vêpres Siciliennes was his first full experience with the workings of the Parisian theatre. Thirteen years later, in 1867, he was back in Paris for a new five act and ballet opera, Don Carlos, conceived especially to suit the French taste.
Alexandrina Pendatchanska as Hélène with the chorus in Act I of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
Verdi was well aware that the road to world fame, and financial success, went through Paris. He was ready to make great stylistic concessions to la grande boutique. He was nonetheless uneasy with the planned work because the libretto by Scribe and Duveyrier did not please him. He liked even less all the ceremonial processions and arbitrarily inserted ballets. The months of rehearsal, including continuous changes in the libretto (during the course of composing the music), proved an arduous, tiring and irritating way of operating. Luckily, only several years later, he discovered that he had not been provided with a new original text but that Scribe and Duveyrier had merely adapted an old libretto for an opera, Il Duca d'Alba, that Gaetano Donizetti had left incomplete -- it was finished later on the basis of Donizetti's notes and had its premiere at the Rome Teatro Apollo in 1882). Had he known, Verdi would have lost his temper and exploded. Eventually, Les Vêpres Siciliennes was presented on 13 June 1855 with outstanding success to mark the inauguration of the first World Exhibition.
This background information is needed to explain why the original French Les Vêpres Siciliennes had comparatively limited staging until mid-1970s, when it was revived in Paris. The plot is cumbersome and, even though it had been commissioned by Emperor Napoleon III Theatre, in Italy it was considered 'subversive' because its title is linked to a historical, or semi-legendary, episode of a Sicilian revolt against the French way back in the thirteenth century. Thus, for censorship reasons, the title was changed (mostly into Giovanna de' Guzman) and the plot moved from Sicily in 1282 to Portugal. In the process, several other changes (mostly cuts) were introduced by impresarios conscious of the very high production costs. Finally, in some versions, the final scene was modified to add a happy ending, a wedding banquet and a rondo.
Dario Solari as Guy de Montfort and Gregory Kunde as Henry in Act I of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
In the 1970s, only Paris had the courage to stage the original version; in Turin I Vespri Siciliani (in Italian, without ballet and with several cuts) had the privilege to be chosen for the inauguration of the reconstructed Teatro Regio with Maria Callas as protagonist; it is reported that on the black market, prices were outrageous with the ticket for an orchestra seat equivalent to the monthly salary of a middle level Fiat motor company employee. But all in all, Les Vêpres Siciliennes (in its various titles and editions) was never one of the most performed operas of the Verdi catalogue.
Nonetheless, it has marvelous music, from the overture, the longest Verdi wrote. It is often presented as a concert piece. It is made up of themes drawn from the opera. It is in two movements: a Largo, full of rhythmic tragic figures, even in its most lyrical major mode section, and an Allegro Agitato main theme, drawn from the Henry-Guy duet in the third act. The Allegro Agitato is repeated twice before a noisy Prestissimo brings the piece to a close. Also there are important arias, duets and concertati at the end of four of the five acts. The ballet music is some of the best composed by Verdi.
The Grand Ballet from Act III of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
The emphasis on the Henry-Guy duet is important. It shows that the opera has as its focal point the tormented father-son relationship (a main theme of Verdi's operas) and very little to do with the Italian national unification movement (the Risorgimento), as the censors, in their stupidity, thought. Musically, granted the very difficult production problems of a passionate and violent five act action, the opera marks a turning point in both strictly formal terms and in larger matters of operatic structures and conventions: it moves away from traditional melodrama and shows new emerging stylistic features that will be associated with subsequent Verdi works. In all later Verdi, the experience of Les Vêpres Siciliennes will be recalled and refined.
This review is based on the 15 May 2011 opening night. A first positive comment is on the staging. The five acts are presented in three parts; thus with only two intermissions. There is no attempt to update the action to 1850 or thereabouts, as was done in October in Parma, or to the 1990s Mafia Wars (with reference to current Italian politics) as was organized in January at the Teatro Regio in Turin. Nicolas Joël's staging, Ezio Frigerio's sets and Franca Squarciapino's costumes placed the plot right in 1382 or thereabouts, in a Palermo still imprinted by Byzantine and Arab architecture. Hence, there is no reference to Risorgimento: instead Les Vêpres Siciliennes is presented as a 1950s Hollywood colossal. This makes even the rather unlikely plot plausible and, in spite of the colorful context, it provides the setting to explore the complex father-son relationship. Also Jean Procida does not appear as a Risorgimento revolutionary but as a single-minded vindicator who causes the final grueling tragedy just when all the problems seem resolved and peace appears to be achieved for ever and ever. The setting was leased from the Teatro Massimo of Palermo where Les Vêpres Siciliennes was staged some six years ago but in Italian, without ballet and with several 'traditional cuts'.
Gregory Kunde as Henry and Alexandrina Pendatchanska as Hélène in Act IV of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
Gianluigi Gelmetti's musical direction is in line with this grand, yet intimate, conception of the production. There is plenty of rhythm in the orchestra pit and a lot of Agitato, especially in the concertati at the end of the first, third and fifth acts, but also Andante and Moderato cantabile in the key Henry-Guy scenes. He gently slows the tempos occasionally. The orchestra responded very well: the brass and the wind groups have greatly improved over the last few years, mostly thanks to Jeffrey Tate's efforts -- Tate has been the San Carlo musical director for nearly a decade. The overall performance lasts about five hours including the two intermissions.
Vocally, Les Vêpres Siciliennes is full of traps, especially for the tenor. It was composed for a typically French high pitched tenor who could rise from mezza voce to the impervious height of acute, while retaining a clear timbre and a sophisticated phrasing. A Donizetti or even a Rossini 'tenore di grazia' rather than a 'Verdian' tenor. There are very few of them around: Alfredo Kraus was perhaps the last one. Gregory Kunde was a 'tenore di grazia' some fifteen years ago when, for example, he was appreciated in Guillaume Tell in Pesaro. He has had vocal problems for a few years but has now fully recovered, even though he is more a 'tenore spinto' than a 'tenore di grazia'. He did extremely well in his main aria O jour de peine et de souffrance (when he received real accolades) and in the duets, trios and concertati. He has good phrasing, a well-tempered legato, a clear (albeit slightly darkened) timbre and a strong volume.
The final scene of Act V of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
The baritone and the bass roles are not especially hard: Dario Solari (Guy) and Orlin Anastassov (Jean) did quite well. Solari excelled in the duets with Kunde, Anastassov in his 'O toi Palerme' cavatina or entrance aria.
Alexandrina Pendatchanska had the main female role. It is a taxing part for a dramatic soprano with coloratura (just like Maria Callas or Susan Dunn). The role includes very tense arias (like that of the first act), a swinging bolero, several duets and the lead role in at least one of the concertati. She has a good emission but on 15 May her volume left quite a bit to be desired. This was especially apparent in her duets with Kunde.
Curtain calls. From left to right: Salvatore Caputo, Gianluigi Gelmetti, Mariano Bauduin, Alberto Cavallotti and Amedeo Amodio at the end of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
A generally weak point was the diction: only Kunde and Anastassov mastered French singing well. The chorus, directed by Lorenzo Caputo, was very willing but its French could barely be understood.
All the other soloists -- too many to be mentioned singularly -- were pretty good. The choreography designed by Amedeo Amodio was elegant; more than a princely ball scene, it was based on Sicilian youngsters discovering erotic expressions and love on a sunny beach. An original but a controversial choice.
After five hours in the theatre, there were accolades for Kunde, Anastassov and Gelmetti and applause for the others.
Copyright © 21 May 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy
GIUSEPPE VERDI
NAPLES
ITALY
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'Sicilian Vespers' as conceived by Verdi,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI
Even at the New York Metropolitan Opera House, Les Vêpres Siciliennes is normally presented in Italian, also when the (nearly) full five act original version with a long third act ballet is on stage. In Italy, only the Teatro dell'Opera of Rome produced the full unabridged version in French: it was way back in 1997 with a good cast (John Nelson in the pit, Dessì, Kuelber, Coni and Furlanetto as protagonists), a decent staging (even though the time of the plot was updated from 1282 to around 1850) and a top-class ballet (with Alessandra Ferri and Maximiliano Guerra as stars). The experience has not been repeated until 15 May 2011 for several reasons: too long an opera (the whole evening lasts five hours), and too expensive a production. The recently fully refurbished Teatro San Carlo of Naples, back in its full splendor, organized a glittering new production of the full unabridged opera in French with the ballet and a top class cast (Gianluigi Gelmetti in the pit, Dario Solari, Gregory Kunde, Alexandrina Pendatchanska, Orlin Anastassov as protagonists), the stage direction of Nicolas Joel, the stage sets of Ezio Frigerio, the costumes of Franca Squarciapino and the choreography of Amedeo Amodio. No doubt a colossal production, similar to those that enthralled the Imperial Opera House in Paris when Verdi, for a fabulous fee, signed the contract that led to Les Vêpres Siciliennes. In 1855, Les Vêpres Siciliennes had as many as sixty two performances in the Parisian Imperial Opera House. In short, it was a major hit and the theatre recouped the high fee paid to Verdi and the huge production costs; it also made a handsome profit.
Verdi had already worked for 'la grande boutique' -- this was his name for the main Paris Opera House -- in 1847 when he had been invited to adapt I Lombardi alla Prima Crociata to the French taste and habits by translating the text, adding ballet music and changing the title into Jerusalem. But Les Vêpres Siciliennes was his first full experience with the workings of the Parisian theatre. Thirteen years later, in 1867, he was back in Paris for a new five act and ballet opera, Don Carlos, conceived especially to suit the French taste.
Alexandrina Pendatchanska as Hélène with the chorus in Act I of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
Verdi was well aware that the road to world fame, and financial success, went through Paris. He was ready to make great stylistic concessions to la grande boutique. He was nonetheless uneasy with the planned work because the libretto by Scribe and Duveyrier did not please him. He liked even less all the ceremonial processions and arbitrarily inserted ballets. The months of rehearsal, including continuous changes in the libretto (during the course of composing the music), proved an arduous, tiring and irritating way of operating. Luckily, only several years later, he discovered that he had not been provided with a new original text but that Scribe and Duveyrier had merely adapted an old libretto for an opera, Il Duca d'Alba, that Gaetano Donizetti had left incomplete -- it was finished later on the basis of Donizetti's notes and had its premiere at the Rome Teatro Apollo in 1882). Had he known, Verdi would have lost his temper and exploded. Eventually, Les Vêpres Siciliennes was presented on 13 June 1855 with outstanding success to mark the inauguration of the first World Exhibition.
This background information is needed to explain why the original French Les Vêpres Siciliennes had comparatively limited staging until mid-1970s, when it was revived in Paris. The plot is cumbersome and, even though it had been commissioned by Emperor Napoleon III Theatre, in Italy it was considered 'subversive' because its title is linked to a historical, or semi-legendary, episode of a Sicilian revolt against the French way back in the thirteenth century. Thus, for censorship reasons, the title was changed (mostly into Giovanna de' Guzman) and the plot moved from Sicily in 1282 to Portugal. In the process, several other changes (mostly cuts) were introduced by impresarios conscious of the very high production costs. Finally, in some versions, the final scene was modified to add a happy ending, a wedding banquet and a rondo.
Dario Solari as Guy de Montfort and Gregory Kunde as Henry in Act I of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
In the 1970s, only Paris had the courage to stage the original version; in Turin I Vespri Siciliani (in Italian, without ballet and with several cuts) had the privilege to be chosen for the inauguration of the reconstructed Teatro Regio with Maria Callas as protagonist; it is reported that on the black market, prices were outrageous with the ticket for an orchestra seat equivalent to the monthly salary of a middle level Fiat motor company employee. But all in all, Les Vêpres Siciliennes (in its various titles and editions) was never one of the most performed operas of the Verdi catalogue.
Nonetheless, it has marvelous music, from the overture, the longest Verdi wrote. It is often presented as a concert piece. It is made up of themes drawn from the opera. It is in two movements: a Largo, full of rhythmic tragic figures, even in its most lyrical major mode section, and an Allegro Agitato main theme, drawn from the Henry-Guy duet in the third act. The Allegro Agitato is repeated twice before a noisy Prestissimo brings the piece to a close. Also there are important arias, duets and concertati at the end of four of the five acts. The ballet music is some of the best composed by Verdi.
The Grand Ballet from Act III of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
The emphasis on the Henry-Guy duet is important. It shows that the opera has as its focal point the tormented father-son relationship (a main theme of Verdi's operas) and very little to do with the Italian national unification movement (the Risorgimento), as the censors, in their stupidity, thought. Musically, granted the very difficult production problems of a passionate and violent five act action, the opera marks a turning point in both strictly formal terms and in larger matters of operatic structures and conventions: it moves away from traditional melodrama and shows new emerging stylistic features that will be associated with subsequent Verdi works. In all later Verdi, the experience of Les Vêpres Siciliennes will be recalled and refined.
This review is based on the 15 May 2011 opening night. A first positive comment is on the staging. The five acts are presented in three parts; thus with only two intermissions. There is no attempt to update the action to 1850 or thereabouts, as was done in October in Parma, or to the 1990s Mafia Wars (with reference to current Italian politics) as was organized in January at the Teatro Regio in Turin. Nicolas Joël's staging, Ezio Frigerio's sets and Franca Squarciapino's costumes placed the plot right in 1382 or thereabouts, in a Palermo still imprinted by Byzantine and Arab architecture. Hence, there is no reference to Risorgimento: instead Les Vêpres Siciliennes is presented as a 1950s Hollywood colossal. This makes even the rather unlikely plot plausible and, in spite of the colorful context, it provides the setting to explore the complex father-son relationship. Also Jean Procida does not appear as a Risorgimento revolutionary but as a single-minded vindicator who causes the final grueling tragedy just when all the problems seem resolved and peace appears to be achieved for ever and ever. The setting was leased from the Teatro Massimo of Palermo where Les Vêpres Siciliennes was staged some six years ago but in Italian, without ballet and with several 'traditional cuts'.
Gregory Kunde as Henry and Alexandrina Pendatchanska as Hélène in Act IV of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
Gianluigi Gelmetti's musical direction is in line with this grand, yet intimate, conception of the production. There is plenty of rhythm in the orchestra pit and a lot of Agitato, especially in the concertati at the end of the first, third and fifth acts, but also Andante and Moderato cantabile in the key Henry-Guy scenes. He gently slows the tempos occasionally. The orchestra responded very well: the brass and the wind groups have greatly improved over the last few years, mostly thanks to Jeffrey Tate's efforts -- Tate has been the San Carlo musical director for nearly a decade. The overall performance lasts about five hours including the two intermissions.
Vocally, Les Vêpres Siciliennes is full of traps, especially for the tenor. It was composed for a typically French high pitched tenor who could rise from mezza voce to the impervious height of acute, while retaining a clear timbre and a sophisticated phrasing. A Donizetti or even a Rossini 'tenore di grazia' rather than a 'Verdian' tenor. There are very few of them around: Alfredo Kraus was perhaps the last one. Gregory Kunde was a 'tenore di grazia' some fifteen years ago when, for example, he was appreciated in Guillaume Tell in Pesaro. He has had vocal problems for a few years but has now fully recovered, even though he is more a 'tenore spinto' than a 'tenore di grazia'. He did extremely well in his main aria O jour de peine et de souffrance (when he received real accolades) and in the duets, trios and concertati. He has good phrasing, a well-tempered legato, a clear (albeit slightly darkened) timbre and a strong volume.
The final scene of Act V of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
The baritone and the bass roles are not especially hard: Dario Solari (Guy) and Orlin Anastassov (Jean) did quite well. Solari excelled in the duets with Kunde, Anastassov in his 'O toi Palerme' cavatina or entrance aria.
Alexandrina Pendatchanska had the main female role. It is a taxing part for a dramatic soprano with coloratura (just like Maria Callas or Susan Dunn). The role includes very tense arias (like that of the first act), a swinging bolero, several duets and the lead role in at least one of the concertati. She has a good emission but on 15 May her volume left quite a bit to be desired. This was especially apparent in her duets with Kunde.
Curtain calls. From left to right: Salvatore Caputo, Gianluigi Gelmetti, Mariano Bauduin, Alberto Cavallotti and Amedeo Amodio at the end of Verdi's 'Les Vêpres Siciliennes' at Teatro San Carlo di Napoli. Photo © 2011 Francesco Squeglia. Click on the image for higher resolution
A generally weak point was the diction: only Kunde and Anastassov mastered French singing well. The chorus, directed by Lorenzo Caputo, was very willing but its French could barely be understood.
All the other soloists -- too many to be mentioned singularly -- were pretty good. The choreography designed by Amedeo Amodio was elegant; more than a princely ball scene, it was based on Sicilian youngsters discovering erotic expressions and love on a sunny beach. An original but a controversial choice.
After five hours in the theatre, there were accolades for Kunde, Anastassov and Gelmetti and applause for the others.
Copyright © 21 May 2011 Giuseppe Pennisi,
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