giovedì 21 settembre 2017

Senza riforme e investimenti l’Italia ha perso molto del suo potenziale di crescita In Avvenire 21 settembre



Senza riforme e investimenti l’Italia ha perso molto del suo potenziale di crescita
In questi giorni, si sta preparando l’'aggiornamento' del Documento di economia e finanza (Def ). Tale aggiornamento non è un esercizio accademico ma la base della Legge di Bilancio, sui cui contenuti è in atto un dibattito vivace. C’è un numero chiave che regge l’aggiornamento. E sarà il cardine della Legge di Bilancio: quello che sintetizza la crescita del Pil nel 2017 e nei prossimi anni. I più recenti dati Istat suggeriscono che è in corso una 'ripresina'; restiamo pur sempre il fanalino di coda dell’Unione monetaria ma ci sono buone probabilità che nell’anno in corso l’aumento del Pil non sia solo qualche decimale ma l’1,5%. Dall’interno dei Ministeri competenti giungono 'spifferi' secondo cui nei prossimi due anni si potrebbe arrivare all’1,7%. Al di là di questi numeri si pone una questione di fondo: la ripresina è l’inizio di una tendenza di fondo che ci riporterebbe ad un tasso di crescita del 2 2,5% degli anni Ottanta od un fenomeno di breve durata (un tempo lo si sarebbe chiamato 'congiunturale') a rimorchio dell’eurozona (che sta crescendo al 2%) e soprattutto della Germania (2,5%)?
I 20 istituti del consensus (centri di analisi econometrica e previsionale internazionali privati e di grande prestigio), non vedono il rafforzarsi della ripresa in Italia, ma un rallentamento più o meno marcato, anche nell’ipotesi di un buon traino del resto d’Europa.
Perché? Occorre andare alla teoria economica, a quello che negli anni Settanta veniva chiamato tasso naturale di crescita o più di recente tasso potenziale di crescita, nonché ai dibattiti sulla stima dell’output gap. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione europea, il Fondo monetario, l’Ocse e le altre maggiori istituzioni internazionali (esiste a riguardo un ottimo documento del servizio studi della Banca centrale europea) stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Pil dell’Italia. Per avere un termine di paragone i 'piani triennali' predisposti all’inizio degli anni Ottanta la ponevano sul 2-2.5%, spiegando eloquentemente che è quello che ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché del peso del debito che incide comunque sulla crescita. Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato un lavoro di Antonio Bassanetti, Michele Caivano ed Alberto Locarno (il 'Temi di Discussione' n. 771) che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia pre-crisi) con vari metodi e poneva l’output gap tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva attorno tra lo 0,8% e lo 0,6% (come infatti era).
In effetti, la Commissione europea pare abbia rivisto al ribasso il 'tasso naturale' o 'tasso potenziale' di crescita dell’Italia a ragione del fatto che non si sono fatte, a loro parere, le riforme che avrebbero potuto incidere sulla produttiva. Anzi, l’investimento in capitale umano (scuola, formazione) è stato trascurato (come indicano i test Pisa dell’Ocse) e l’investimento pubblico è crollato (un’analisi certosina della Cassa depositi e prestiti conclude che tra il 2008 ed il 2016, gli investimenti degli locali, i maggiori attori del settore, sono crollati del 32%). Inoltre, il debito minaccia di pesare sempre di più con la fine del QE ed il probabile aumento dei tassi.
Giuseppe Pennisi
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