martedì 31 agosto 2010

Cosa c'è dietro il brindisi di Villa Campari FFwebmagazine del 31 agosto

L'ANALISI


Motivi economici, perché le elezioni sono un costo. Ma non solo
Cosa c'è dietro
il brindisi di Villa Campari
di Giuseppe Pennisi Quali sono gli elementi del cocktail di Villa Campari che hanno indotto, per il momento, ad allontanare e,se possibile, a fugare la prospettive di termine anticipato della legislatura e di elezioni anticipate?
I politologici e i dietrologi si sono sbizzarriti in una vasta varietà di ipotesi, tra cui la possibile data e il possibile esito del dibattito alla Corte Costituzionale sul così detto “legittimo impedimento”. Per un semplice economista, gli elementi principali sono tre:
Primo. Il costo di eventuali elezioni anticipate. I costi diretti sul bilancio dello Stato non sono facilmente ricavabili se non si effettua una meticolosa ricognizione dei dati della Ragioneria Generale dello Stato (R.G.S.) in materia di trasferimento al Ministero dell’Interno per la macchina amministrativa; secondo le mie stime ci si avvicina ai 5 milioni di euro, a cui aggiungere i circa 40 milioni di euro di rimborsi elettorali ai partiti. Non solamente molti partiti non hanno accantonamenti da utilizzare in attesa dei rimborsi, ma sarebbe stato difficile spiegare agli italiani, l’impegno di questa spesa aggiuntiva in una fase in cui si è chiesto a tutti di fare sacrifici.
Secondo.Tali costi non si sarebbero potuti celare. La vigilia di Ferragosto una società di consulenza finanziaria ha stimato in 400 punti base l’eventuale aumento dei tassi sui titoli di Stato decennali a ragione dell’aumento del fabbisogno di ricorso al mercato dovuto da un aumento non programmato della spesa pubblica come la chiamata anticipata alle urne. La stima, a mio avviso esagerata, sarebbe stata inclusa anche in un appunto del Ministro dell’Economia e delle Finanze al presidente del Consiglio. Ancora più eloquente il costo di andare alle urne senza potere mostrare ancora risultati concreti nei punti più qualificati del programma. Il 30 agosto, il “consensus” dei 20 maggiori istituti econometrici dava all’1% la crescita nel Pil italiano negli ultimi 12 mesi ma segnalava anche il rischio di decelerazione allo 0,7% per i prossimi 12 mesi se si fosse tenuta salda la barra della finanza pubblica.
Terzo. A questi elementi strettamente economici si aggiunge il fatto che un settimanale finanziario di Milano nei giorni successivi a Ferragosto ha mostrato, in toni positivi, quale sarebbe stato l’obiettivo effettivo di anticipare le elezioni: con un Presidente del Consiglio che ha appena compiuto 74 anni, ora meglio che tra due anni e mezzo, sarebbe stata possibile una sua vittoria (anche perché gli altri non sono pronti alla campagna elettorale) avrebbe preparato la sua ascesa al Quirinale (allo spirare del mandato dell’attuale Capo dello Stato). Il settimanale delineava dieci anni di stabilità e, quindi, vedeva con favore tale prospettiva. Non la hanno accolta con pari entusiasmo autorevoli esponenti del Pdl e della Lega ; il presidente del Consiglio è al centro della scena politica da 17 anni circa. Aggiungerne altri dieci è parso eccessivo.

31 agosto 2010

lunedì 30 agosto 2010

Lirica, una guida alla musica sinfonica per la prossima stagione Il Velino 30 agosto

CLT -Roma, 30 ago (Il Velino) - Pur occupandoci principalmente di teatro in musica e solo di rado di letteratura musicale, è il caso di informare che prima dell’inizio delle prossima stagione uscirà (sarà in libreria all’inizio di ottobre) un’opera che merita di essere segnalata: “La Guida alla Musica Sinfonica”, curata da Ettore Napoli per conto dell’editore Zecchini, un piccolo editore specializzato nella diffusione della cultura musicale in un mondo in cui scuola e famiglia fanno molto poco per preparare le nuove generazioni e le grandi casi editrici trattano, in campo musicale, principalmente i divi dei media (in gran parte “pop” e “rock”). Torneremo sulla “Guida” quando sarà disponibile. Già si presenta, però, come strumento indispensabile per tutti coloro che seguono la grande sinfonica e che affollano a Roma il Parco della Musica e l’Auditorium di via della Conciliazione, a Milano la Sala del Conservatorio e la Scala per la Filarmonica, a Bologna il Teatro Manzoni e via discorrendo. Specialmente quando il programma si allontana dal tradizionale, è consueto vedere il pubblico leggere frettolosamente il libretto di sala e ascoltare meno preparato del necessario concerti che andrebbero gustati raffinatamente.

La “Guida” non nasce per caso. Non solo c’è una domanda, ma da anni una collana di successo (sempre di Zecchini) tratta dei grandi direttori. Tempo fa, abbiamo esaminato, il libro di Alessandro Zignani su Leonard Bernstein. Adesso lo stesso autore ha appena pubblicato “Carlo Kleiber: il Tramonto dell’Occidente”, un saggio appassionante non solo per gli specialisti o gli appassionati di musica ma nella spiegazione dell’“enigma Kleiber”, timoroso del successo, sempre incerto dei risultati che avrebbe dato, timido e riservato al punto di essere misterioso, raro nelle sue apparizioni in teatro e in sale da concerto (tanto da diventare il concertatore più pagato al mondo), che ha lasciato poche mirabili registrazioni (impagabile il dvd del “Der Ronsekavalier”). Kleiber, documenta Zignani, sentiva su di sé il peso etico della musica . La responsabilità di esserne il depositario in un mondo in declino, ultimo umanista della musica: nella sua aspirazione all’ideale il tramonto dell’Occidente veniva da lui visto al tempo stesso come festa e come banchetto funebre.

(Hans Sachs) 30 ago 2010 13:29



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sabato 28 agosto 2010

IL PATTO SOCIALE CI SI PUO’ STARE SE E’ AGGRESSIVO Il Tempo 28 agosto

IL PATTO SOCIALE CI SI PUO’ STARE SE E’ AGGRESSIVO
Giuseppe Pennisi
Prima di discutere i contenuti e le specifiche di un nuovo “patto sociale”, occorre risolvere due nodi: a) quale tipologia di accordo ci si appresta a negoziare; b) come si inserisce nell’”efficienza adattiva” dell’industria italiana (ossia del modo in cui le imprese del nostro Paese all’integrazione economica internazionali ed alle trasformazioni che essa comporta).
Il primo nodo è stato chiaramente individuato , circa 20 anni fa, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’unica agenzia internazionale nei cui organi di governo siedono i rappresentanti delle confederazioni sindacali mondiali. Ci sono due vaste categorie di “patti”: quelli “difensivi” – diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato)- e quelli “aggressivi” – diretti, invece, a facilitare l’adattamento ad un contesto in rapida evoluzione e, se possibile, a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 ed il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda.
Del secondo nodo, in Italia co-esistono due modelli, distinti tra loro e per certi aspetti contrapposti. Il primo è quello importato negli Anni Ottanta dalle Isole nipponiche in molti Paesi europei (anche in Francia ed in Germania): in giapponese esiste un termine kaizen, evoluzione graduale e progressiva ma all’insegna della tradizione aziendale e della continuità. Le medie imprese seguono, invece, un altro modello – ben individuato dall’economista inglese D.H. Pyle nei “distretti” dell’Italia centrale e della costiera adriatica e ionica: mutamento tramite discontinuità in stile anglosassone– ossia cambiamenti secchi caratterizzati da segnali forti a tutti gli interessati (dipendenti in primo luogo).
Chiaramente un’intesa su come sciogliere il primo nodo è la premessa per risolvere il secondo e porre le basi per delineare i contenuti di un eventuale “patto” . Il passato non può cambiare, ma non può neanche tornare. Un “patto” difensivo è votato al fallimento, come lo sono stati il Patto di San Tommaso del 1993 e l’Accordo di Natale del 1998. Occorre oggi un “patto” molto più aggressivo di quello, limitato peraltro al welfare, di circa tre anni fa: un “patto” che promuova meritocrazia, mobilità sociale , disponibilità al mutamento di mansioni e di sede di lavoro, con l’obiettivo di portare l’industria italiana in posizione di leadership non di traino.
La Fiat, al pari di molte altre grandi imprese italiane, è stata per decenni una delle cariatidi del kaizen. Per questo motivo, Sergio Marchionne ha inteso dare forti segni di discontinuità (da ultimo a Pomigliano e a Melfi). Alla discontinuità i fautori delle vecchie prassi potranno irrigidirsi , non solo da parte sindacale ma anche all’interno della stessa Fabbrica Italia, e rendere il nodo ancora più stretto. Abbiamo fiducia nel detto napoleonico: “L’intendenza seguirà”.

venerdì 27 agosto 2010

Un alfiere musicale sulla riviera romagnola

Un alfiere musicale sulla riviera romagnola
di Giuseppe Pennisi


La sagra musicale di Rimini, giunta alla sessantunesima edizione, è un raro esempio di festival finanziato quasi interamente dagli enti locali, da imprese e dai biglietti. Dal 4 agosto al 6 novembre l'edizione 2010 comprende 4 concerti cameristici dedicati a Bach, 6 per grandi complessi sinfonici (Gewandausochester di Lipsia, Mahler Chamber Orchestra, Orchestra Filarmonica della Scala, Czech Philarmonic Orchestra, Bayerisches Staatsochester) con bacchette di rango (Riccardo Chailly, Costantinos Carydis, Seymon Bichkov, Ion Marin, Kent Nagano) e 7 affidati a giovani esecutori, in cui Schumann viene giustapposto al moderno (www.sagramalatestiana.it).
I concerti sinfonici vengono spesso replicati, dopo qualche giorno, al MiTo.
Gustata la rassegna dedicata a Bach, augurandosi che in Italia se ne facciano di più, anche quest'anno la Sagra presenta, il 31 agosto e il 1° settembre, la prima mondiale di un'opera di camera in versione scenica. Si tratta del Canto d'amore e di morte dell'Alfiere Christoph Rilke, un poema drammatico di Rainer Marie Rilke messo in musica separatamente da Frank Martin e da Viktor Ullman nel 1944. Il primo, rifugiato in Svizzera, compose un melologo per mezzosoprano. Il secondo riuscì a completare la musica per 12 parti del ciclo per voce recitante e pianoforte prima di essere deportato ad Auschwitz, dove sarebbe morto. Una vera sfida per il regista, Denis Krief, che in solo spettacolo darà vita scenica alle due composizioni. È probabile che lo si vedrà in giro per l'Italia. (riproduzione riservata)

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Perché tutta questa attenzione ai tassi? Il Foglio 28 agosto

Perché tutta questa attenzione ai tassi?
Discussione e polemiche sui tassi d’interesse nell’area Ocse e in Europa in particolare. Prima di Ferragosto un documento di una società di consulenza finanziaria, la Frumiez di Torino, avvertiva che non ci sarebbero state né crisi né elezioni anticipate: secondo un’analisi inviata ai propri clienti, spifferava di un appunto del ministro dell’Economia e delle Finanza al Presidente del Consiglio, in copia al ministro delle Riforme Istituzionali, secondo cui in caso di chiamata alle urne i cds italiani sarebbero aumentati di ben 400 punti percentuali. Il 25 agosto Bloomberg ha diramato un’analisi sulle tensioni nei mercati finanziari europei, preconizzando, in ogni caso, un aumento dei tassi (oggi in Italia i titoli di Stato a tre mesi rendono lo 0,89 per cento l’anno ed a dieci anni il 3,74). Si è mormorato di un nuovo appunto sul tavolo del vertice del Pdl in cui le elezioni anticipate sono state, per il momento accantonate.

Il 27 agosto la Banca centrale europea ha diramato, infatti, una nota raggelante in contro-tendenza con Bloomberg e Frumiez: nonostante i bassi tassi d’interesse (la media nell’area dell’euro è 0,61% per i trimestrali e 2,13% per i decennali), in luglio il tasso di nuovo indebitamento da parte delle imprese ha segnato una contrazione ad un saggio annuo dell’1,3% , mentre quello delle famiglie è cresciuto ad uno del 2,9%. Interpretazione della Commerzbank: si crede poco alla ripresa della Germania e le famiglie sono al lumicino. Quindi , nonostante i timori ed i tremori, non ci sono aumenti in vista

Troppa attenzione ai tassi? I tassi, come la bellezza, sono negli occhi di chi guarda: per l’Italia un incremento possibile dello spread rispetto al resto dell’area dell’euro fa venire i brividi. Per l’Eurozona, invece, nonostante la disponibilità di liquidità, il cavallo non beve.

© - FOGLIO QUOTIDIANO
di Giuseppe Pennisi

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Tassi e urne: se i conti economoci allontanano le elezioni anticipate Il Velino 27 agosto

ECO - Tassi e urne: se i conti economoci allontanano le elezioni anticipate

Roma, 27 ago (Il Velino) - Alle fine più che le disquisizioni politiche (e “la guerra dei dossier”) all’interno delle forze che hanno vinto le elezioni del 2008, (e i cui risultati sono stati ampiamente confermati da quelli sia delle elezioni europee sia delle elezioni regionali) sono stati i conti economici a indurre tutti i litiganti ad accantonare l’idea delle elezioni anticipate. Di quali conti economici si tratta? Alla pari qualsiasi cittadino ho consultato il sito del ministero dell’Interno con l’intento di avere l’informazione di base da fonte autorizzata: il costo finanziario di organizzare una consultazione elettorale (come quella, per esempio, del 2008). Tale informazione è facilmente individuabile cliccando un motore di ricerca dei siti di dicasteri con funzioni analoghe della Francia, della Gran Bretagna, della Repubblica Federale Tedesca, nonché degli Stati Uniti (dove c’è un differente sistema elettorale per ciascuno dei 50 Stati dell’Unione e l’allestimento, l’organizzazione e il monitoraggio delle elezioni è responsabilità non della Federazione ma dei singoli Stati). Ho passato circa tre ore e, con mia grande delusione, non ho trovato un dato.

Al contrario, su siti non ufficiali e su blog il costo diretto delle elezioni viene computato tra i 700 e 1500 milioni di euro. Sarebbe utile se il ministero fornisse sul proprio sito questa informazione. È cruciale per verificare l’indiscrezione della finanziaria Frumiez SAS di Torino secondo cui l’arma finale che avrebbe convinto anche i più recalcitranti a mettere da parte il proposito d’elezioni anticipate sarebbe stata una nota del ministro e dell’Economia e delle finanze secondo cui elezioni anticipate avrebbero comportato un aumento dei tassi d’interesse valutabile, per i cds italiani, sino a 400 punti di base (un salto iperbolico) che avrebbe messo a repentaglio la finanza pubblica. L’impatto sui tassi dipende da due elementi: a) l’aumento del fabbisogno di ricorso al mercato dovuto alla spesa addizionale per le elezioni anticipate; b) gli effetti dell’incertezza incrementale sugli operatori privati (investitori, risparmiatori, consumatori). In materia di b) si può contare unicamente su stime – ce ne sono di recenti basate sull’esperienza di numerosi Stati. Ma in materia di a) si dovrebbe poter disporre almeno del dato certo ufficiale per effettuare una stima affidabile dell’aumento del fabbisogno di cassa. Pur se è difficile valutare le informazioni di Frumiez SAS (diramate, peraltro, il 12 agosto), le tensioni sui mercati finanziari europei – tema di un rapporto di Bloomberg diramato agli abbonati il 25 agosto – possono avere inciso sulla decisione di smettere di parlare di elezioni anticipate.

Il documento Bloomberg parla di “spettro d’insolvenza per alcuni Paesi europei, allontanato ma non scansato per sempre”. Ciò comporta probabilmente nuovi impegni (anche da parte dell’Italia) per rafforzare la strumentazione di salvataggio dell’area dell’euro messa a punto nel maggio scorso; tali impegni si sarebbero aggiunti alle spese per la macchina elettorali (e a quelli, li abbiamo dimenticati?, dei rimborsi ai partiti). Inoltre la spesa aggiuntiva (e il risultante fabbisogno aggiuntivo di ricorso al mercato) sarebbe avvenuti in una fase di tensioni sui mercati finanziari. Le preoccupazioni per i tassi, dunque, hanno, senza dubbio, influito sulla decisione. Forse ancora di più del costo opportunità delle mancate riforme (giustizia, Pa, sicurezza) e dei ritardi del Piano Sud (e possibile dirottamento dell'Ue dei fondi non spesi ad altri Stati membri).

(Giuseppe Pennisi) 27 ago 2010 11:10

giovedì 26 agosto 2010

GUERRA DEI DAZI Il Foglio 27 agosto

GUERRA DEI DAZI
Giuseppe Pennisi
L’Amministrazione Obama ha inviato al Congresso un programma in 14 punti per rafforzare l’applicazione delle misure anti-dumping in vigore negli Stati Uniti e plasmate sui protocolli i conclusi in seno al Gatt (Accordo generale sulle tariffe doganali ed il commercio) nel 1967 e aggiornati nel quadro all’Omc (Organizzazione mondiale dl commercio) che nel 1995 ha sostituito il Gatt. Tre dei 14 punti sono specificatamente dirette alla Cina. Gli altri – ha spiegato il Segretario al Commercio Gary Locke- a tutti i partner degli Usa e sono parte di una più vasta revisione in corso delle prassi amministrative per debellare il “dumping”. La notizia non viene di buon auspicio a Ginevra, dove, nel bel Parc Mon Repos (un nome molto eloquente) ha ora sede l’Ocm.
L’”anti-dumping” è tradizionalmente uno strumento utilizzato , dagli Stati Uniti (ma non solo da loro), come grimaldello per bloccare (o almeno rendere difficili) le importazioni di questo a quel prodotto da questo o quel Paese. Nel lontano 1965, il negoziato multilaterale sul commercio chiamato “Kennedy Round” (il più importante, per risultati effettivamente ottenuti, dalla fine della seconda guerra mondiale) è stato sbloccato quando la delegazione Usa propose “uno scambio politico”: da un lato, riduzione lineare del 50% dei dazi sui manufatti ed i semi-manufatti tra i Paesi industriali; da un altro, un “protocollo internazionale anti-dumping” che consentisse misure unilaterali contro i sospettati di prassi scorrette (il grande inquisito era il Giappone).
Può sorprendere che solo pochi giorni fa la Casa Bianca abbia annunciato, in un ottica libero-scambistica, di voler raddoppiare l’export degli Stati Uniti nell’arco di cinque anni. In effetti, non ci sono alternative: negli ultimi 12 mesi il disavanzo commerciale americano ha sfiorato i 600 miliardi dollari (circa il 5% del Pil), un profondo rosso che potrebbe portare al tracollo del dollaro.
Obama è solo apparentemente amletico in materia di commercio internazione. I principali finanziatori della sua campagna elettorale (il maggiore è stato il potente sindacato dell’auto) sono fortemente protezionisti. Il suo programma elettorale prevedeva addirittura la fine della Nafta (la zona di libero scambio nordamericana) . Non ha incoraggiato il negoziato multilaterale in corso all’Omc dal 2001, il Doha development agenda Dda; anzi, lo ha sabotato non riproponendo al Congresso una legge “fast track” – quella precedente non è più in vigore dal 2007- per dare alla ratifica di un eventuale accordo multilaterale una corsia preferenziale al riparo di emendamenti. Ha atteso sino allo scorso aprile per nominare un Rappresentante degli Stati Uniti all’Ocm (ed avere, quindi, un capo negoziatore al Dda) e la sua scelta, Micheal Punke (un professore associato dell’Università del Montana noto soprattutto in quanto autore di un romanzo di successo e di due sceneggiature in attesa di diventare film) è stata letta dallo stesso Presidente della Camera di Commercio degli Stati Uniti come un’indicazione di poco interesse nel Dda da parte della Casa Bianca.
Ove ciò non bastasse negli ultimi anni sono stati conclusi circa 200 accordi commerciali bilaterali o regionale. Ciò indebolisce l’Omc che si regge sui due pilastri della reciprocità e della non-discriminazione. Stati Uniti poco attenti al commercio internazionale sono una minaccia alla ripresa mondiale: nel 2009 il Pil mondiale ha subito una contrazione dell0 0,6% ma il commercio un tracollo del 12,2%. Ora il commercio sta crescendo ad un tasso del 10% l’anno nonostante misure protezionistiche adottate un po’ da per tutto l’anno scorso: Un quarto di queste misure – scrive la Banca Mondiale – vestono l’abito dell’”anti-dumping”.

Lirica, Da Salisburgo a Vienna l’Elektra “a ellisse” di Gatti

POL - Lirica, Da Salisburgo a Vienna l’Elektra “a ellisse” di Gatti


Roma, 26 ago (Il Velino) - Nel commentare le due edizioni di “Elektra” in programma lo scorso inverno in vari teatri della Penisola (una a Erl nel Tirolo, Piacenza, Modena e Ferrara e l’altra a Catania), ricordammo che quando il drammaturgo Eugene O’Neill nel 1931 adattò la tragedia greca Elettra in un drammone di nove ore ambientato ai tempi della Guerra di Secessione americana, decise di intitolare il lavoro “Il lutto si addice ad Elettra” a ragione del vasto numero di morti che costellavano le tre parti dell’opera. O’ Neill si basò sulla trilogia di Eschilo. Nel 1903, invece, Hugo von Hofmannsthal scrisse “Elektra” traendola dalla tragedia di Sofocle; il lavoro, lanciato a Berlino da Gertrud Eysoldt, (la Duse tedesca dell’epoca) ebbe un immenso successo tanto che nel 1904 venne messa in scena da 22 teatri nel mondo di lingua germanica. L'opera fu successivamente adattata (leggermente accorciata per adeguarla ai tempi della musica) come libretto per l'omonima opera di Richard Strauss, rappresentata nel 1909. La tragedia in musica in un atto di Strauss dura poco meno di due ore. Sono due ore di tensione assoluta. Il sovrintendente della Scala, Stéphane Lissner, ritiene “Elektra” la più bella opera del Novecento. È un prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elettra e Clitennerstra, interamente dedicato al significato del perdono); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale.

L’edizione che ha debuttato al Festival di Salisburgo mostra, grazie alla direzione musicale di Daniele Gatti e al virtuosismo dei Weiner Philarmoniker, come sia l’azione sia la musica abbiano una struttura a ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elettra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elettra e Clitennestra (colmo di disperazione proprio per il diniego del perdono da parte della prima) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elettra e Crisotemide (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Oreste e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale. Gatti accentua gli aspetti lirici e, grazie alla maestria dei Weiner, le parti solistiche e i momenti cameristici.

Data la potenza dell’orchestra (note le dissonanze mai prima di allora udite) il maestro concertatore è alle prese con la sfida di non oscurare le voci (ciascuna parola è densa di significato). Daniele Gatti supera brillantemente l’ostacolo: dal quinto palco di platea si poteva ascoltare ciascuna parola. La sera del 16 agosto, Iréne Theorin, titolare della parte della protagonista, è stata sostituita da Janice Baird, chiamata di corsa dalle vacanze in Spagna; conosce la parte a menadito (avendola interpreta più volte anche in Italia) e si è meritata vere e proprie ovazioni. Waltraud Meir è una Clitennestra severa con grandi capacità vocali sia nell’ascendere a tonalità alte che a discendere in quelle più gravi. Dolcissima la Crisotemide di Eva-Marie Westbrock. Eccezionale Renée Pape nel breve ruolo di Oreste, mentre Robert Gambill è un Egisto efficace dai “do” possenti. Lo spettacolo si replica a Salisburgo sino al 28 agosto; entrerà in repertorio alla Staatsoper di Vienna che lo coproduce.

(Hans Sachs) 26 ago 2010 16:12

lunedì 23 agosto 2010

Lirica, la "Lulu" di Salisburgo e la crisi dell'Europa Il Velino 23 agosto

CLT - Lirica, la "Lulu" di Salisburgo e la crisi dell'Europa


Roma, 21 ago (Il Velino) - Dopo una decina d‘anni è tornata al Festival di Salisburgo “Lulu” del compositore austriaco Alban Berg (1885-1935). Raramente rappresentata nel nostro Paese (se ne ricorda un’edizione in traduzione ritmica italiana di Fedele D’Amico – dirigeva Bartoletti – a Firenze nel lontano 1985, una più recente a Palermo, nonché alcune rappresentazioni la primavera scorsa alla Scala da ove mancava da oltre 30 anni), “Lulu” è, come sostiene correttamente Gioacchino Lanza Tomasi in un suo saggio ormai fuori catalogo, un’“opera sinfonica” che si svolge, sotto il profilo musicale, su due piani d’azione: quello dodecafonico-seriale e quello del recupero di forme strumentali modernizzate della tradizione classica. Si articola su una serie di base (si bemolle, re, mi bemolle, do, fa, mi , fa diesis, le, sol diesis, do diesis, si) dalle quali Berg fa deriva altre forme che vengono associate ai singoli personaggi, come nei leit motiv wagneriani che vengono indicati tanto in partitura quanto nella riduzione per canto e pianoforte. Su queste forme lavorò Friedrich Cerha per orchestrare il terzo atto, lasciato incompleto dalla morte di Berg e, per la prima volta, eseguito in una stupenda produzione all’Opéra di Parigi (regia di Chéreau, direzione musicale di Boulez) di cui purtroppo esiste una mediocre registrazione discografica e una ancor più mediocre versione televisiva oggi inclusa tra i gadget che le edicole vendono con i periodici musicali. Al sinfonismo, derivazione wagneriana e del tutto assente nell’opera precedente di Berg, “Wozzeck”, si aggiunge un ritorno al canto operistico nel senso pieno del termine, specialmente nei ruoli della protagonista e di Alwa, dove soprano drammatico di coloratura e tenore lirico ma spinto sono una reminiscenza del gusto del piacere e del peccato (si pensi alla vocalità di Monteverdi e Cavalli o a certi aspetti di quella di Puccini in “Manon Lescaut”). Nella stessa chiave occorre interpretare l’uso dell’”arioso”, della “cavatina”, del “rondò”, del “canone” , dell’”intelaiatura a gabbia” per ensemble a più voci che si fermano alla soglia del “concertato”.

“Lulu” è una partitura senza possibili confronti che riscatta i due drammi di Wedekind d’inizio del Novecento da cui è tratta. Sono drammi prolissi, verbosi e moraleggianti, nonché zeppi di proto psicoanalisi, in cui, secondo le intenzioni dell’autore e le sue indicazioni al regista della prima rappresentazione, la protagonista sarebbe dovuta apparire come una madonna progressivamente distrutta da una società corrotta. Ciò non piacque ai critici che la vedevano invece come animale famelico di sesso e denaro, non per nulla omicida e pronta ad accoppiamenti multipli, anche omosessuali. La “dissoluzione” di Lulu è stato il tema di fondo di una produzione del Metropolitan che lanciata quasi in parallelo con quella Chéreau-Boulez è rimasta in cartellone per diversi anni. Chéreau enfatizzava l’ambiguità esteriore e la “verità interiore” della protagonista (i due “Lieder von Lulu” dove la protagonista dice in modo frammentario ciò che pensa su sé stessa). Nell’edizione fiorentina di 25 anni fa, Squarzina vedeva la protagonista come una grande reagente sociale, una cartina di tornasole grazie a cui si rivela, in termini marxisti, la verità nascosta.

Tutte queste interpretazioni sono utili per interpretare la lettura davvero nuova e moderna in scena alla Scala. Nella complessa trama, che spazia tra Germania, Francia e Gran Bretagna degli anni Trenta, Lulu, pur restando interiormente innocente, è una divoratrice di uomini (e pure di donne) e anche assassina. Non è una “reagente sociale” ma, con la propria ambiguità, rispecchia una società, quella del Vecchio Continente, al collasso finanziario, politico e morale. Nel contesto di questo collasso non può che muovere i primi passi in un circo (dove è una starlette), ascendere ai piani alti della società e finire, dopo varie peripezie, nelle mani di Jack lo squartatore. Lo spettacolo è coprodotto dai teatri di Ginevra (dove si è già visto) e di Barcellona (dove andrà tra qualche mese); è probabile che venga ripreso a Londra, Parigi e speriamo qualche teatro italiano. A differenza dell’edizione vista in aprile a Milano, in cui la regia di Peter Stein incardinava saldamente la vicenda negli Anni Trenta, a Salisburgo la regia di Vera Nemirova, le scene di Daniel Richter e i costumi di Klaus Novack riproducono il clima dell’epoca ma situano il dramma in contesto atemporale con riferimenti anche attuali. Di rilievo la direzione artistica di March Albrecht: i Wiener Philarmoniker coniugano dodecafonia con sinfonismo e con richiami a forme musicali “chiuse” anche antiche, senza mai sovrastare le voci e permettendo di apprezzare ogni sfumatura del testo. Nel cast – 15 solisti per oltre 30 ruoli- spicca Patricia Petibon, con un registro più leggero di quello di Laura Aikin, che in aprile interpretò il personaggio alla Scala; accentua, quindi,la “coloratura” della scrittura vocale. Molto buona Tanja Arianna Baugnartner (la contessa ). Tra i vari “uomini” di Lulu , meritano un elogio il tenore lirico Pavlov Bresli, il tenore spinto Thomas Pifka (già ascoltato alla Scala nello stesso ruolo) e il baritono Michel Volle.

(Hans Sachs) 21 ago 2010 10:02

L'equilibrio di Nash applicato alla politica Ffwebmagazine 23 agosto

L'ANALISI


La teoria dei giochi e il sangue freddo per evitare le trappole L'equilibrio di Nash applicato alla politica
di Giuseppe Pennisi In un quadro politico complesso come l’attuale, un economista può solamente azzardare stime quantitative sui probabili impatti sull’andamento macro-economico in caso di un’eventuale chiamata alle urne prima della scadenza naturale della legislatura, oppure utilizzare la cassetta degli attrezzi del mestiere per contribuire a delineare la strategia. La “teoria dei giochi” si presta particolarmente a questo scopo.
Il primo teorema della “teoria dei giochi” è che un gioco “cooperativo” è di solito superiore a un gioco “conflittuale”. Il primo può dare, in certe condizioni un esito win-win in cui vincono ambedue i contendenti e la società di cui fanno parte; in breve, maggiore valore aggiunto per tutti. Il secondo, nell’ipotesi più favorevole, da un esito win-lose, ossia c’è un vincitore e uno sconfitto. Ma nei casi più frequenti ha, per la società nel suo complesso, un esito lose-lose, ossia qualcosa, anche piccola, la perdono tutti.
Un ramo della “teoria dei giochi” riguarda i “giochi ad ultimatum”, che si verificano quando una delle due parti mette con le spalle al muro l’altro. In questa tipologia di “giochi” non necessariamente il vincitore risulta essere colui che pensa di avere una “scala reale” nella manica. Infatti, nei “giochi ad ultimatum” non si è alle prese con il rischio (che può essere stimato sulla base di sondaggi, di “focus groups” o simili strumenti di analisi oppure solamente sulla base del proprio ricordo delle proprie esperienze personali- Bayesianamente nel lessico dei cultori del calcolo delle probabilità). Si ha, invece, a che fare con l’incertezza, molto difficile da quantizzare se non si ricorre ad analisi complesse delle opzioni reali e della volatilità. Un esempio di “gioco ad ultimatum” si ha nel Don Giovanni di Da Ponte.Mozart . Il “Don” sfida il Commendatore invitandolo a cena nella convinzione che i morti restano sotto-terra. Il “Commenda” non solo si presenta al banchetto ma porta il “Don” all’inferno.
Un altro ramo studia i “giochi a più livelli”. In una coalizione, su un tavolo i leader della coalizione hanno come obiettivo del “gioco” la massimizzazione del loro peso politico, ma su un altro, simultaneamente, giocano la massimizzazione della loro reputazione con i loro elettori. Vi ricordate il film A Beautiful Mind sul Premio Nobel Nash? Nell’ipotesi più positiva, l’esito è un equilibrio dinamico, chiamato “equilibrio alla Nash”, un equilibrio molto delicato che per restare tale richiede moderazione, sangue freddo ed evitare di rispondere a provocazioni per non cadere in trappole tese dagli altri giocatori.
Come rendere tale equilibrio più robusto? Se ne sono interessati gli storici neo-istituzionali dell’economia e gli specialisti di economia dei costi di transazione. C’è un nesso forte tra i due rami: istituzioni ed economie forti si hanno quando i costi per effettuare una transazione economica sono bassi. Di norma, i giochi anche “a più livelli” ripetuti con frequenza sono l’approccio migliore poiché fanno sì che i partner possano conoscere e anticipare mosse e contromosse reciproche, riducendo asimmetrie informative e posizionali. Pericoloso utilizzare i giochi “a esito irreversibile” . Dixit e Pindyck, distinti e distanti dalle nostre lande, ricordano, nella loro opera principale, che l’esito più irreversibile è il suicidio.

23 agosto 2010

sabato 21 agosto 2010

Lulu ed Elektra travolgono Salisburgo Milano Finanza 21 agosto

Lulu ed Elektra travolgono Salisburgo
di Giuseppe Pennisi


Il Festival di Salisburgo, in corso fino al 31 agosto, celebra i 90 anni dalla fondazione con circa 200 rappresentazioni che si suddividono in opera, prosa, sinfonica, cameristica, cinema. Il filo conduttore è Dio e l'Uomo: la fine del mito dallo spirito della musica, ossia il nesso tra trascendenza e mito attraverso la musica.
Dei numerosi lavori presentati due sono particolarmente rilevanti: la nuova edizione di Lulu di Berg (co-prodotta dai teatri di Barcellona e Ginevra dove si vedrà già nei prossimi mesi) e il nuovo allestimento di Elektra di Strauss (co-prodotta con la Staatsoper di Vienna) dove entrerà in repertorio.
In armonia con il tema, Lulu, che vanta la concertazione di Marc Albrecht e la regia di Vera Nemirova, viene presentata come la dissoluzione e il collasso non solo della protagonista (che da starlette arriva ai piani alti della società per finire prostituta nelle mani di Jack lo Squartatore) ma della società priva di valori che la circonda.
Tra i 14 solisti spicca Patricia Petibon, un soprano che dà una sfumatura nuova al personaggio.
Di lusso il cast di Elektra: concerta Daniele Gatti, la regia è di Nicolaus Lehnoff, le scene di Raimund Bauer. Sono in scena tre grandi voci nei ruoli femminili: Waltraud Meier, Irene Theorin (sostituita da Janice Baird in una delle repliche) ed Eva-Maria Westbroek. I ruoli maschili sono affidati a Renée Pape e Robert Gambill, due dei maggiori interpreti wagneriani. Di livello i Wiener Philharmoniker che suonano nelle due opere. (riproduzione riservata)

Il MiTo è maturo Milano Finanza 21 agosto

Il MiTo è maturo
Il festival celebra Schumann, apre alle danze turche e anticipa le stagioni del 2011

di Giuseppe Pennisi


A quattro anni da una prima edizione un po' alla D'Artagnan predisposta in fretta, con molto entusiasmo ma anche tanta improvvisazione e senza un chiaro tema di fondo, il MiTo 2010 (che ha luogo a Milano e Torino dal 3 al 24 settembre) si presenta non solo come il maggiore e più ricco festival europeo dell'autunno, ma anche come l'iniziativa che meglio di altre anticipa alcuni aspetti della prossima stagione 2011.
Il programma di MiTo è un volume di oltre 100 pagine in cui si presentano centinaia di iniziative dislocate in ben 70 sedi nel capoluogo lombardo e 30 in quello piemontese. Dei 200 appuntamenti, la metà è gratuita. Il rischio di perdersi nel labirinto di MiTo è minore di quello che ha, in parte, caratterizzato i tre festival precedenti. Ci sono, infatti, percorsi delineati in modo chiaro a seconda delle preferenze degli spettatori. Inoltre, il festival ha scansato un vero e proprio pericolo: quello di proporsi come preludio alle miriadi di iniziative (spesso in chiave nazional-popolare) che minacciano di essere un aspetto fondante della prossima stagione di molti teatri e orchestre sinfoniche in linea con le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia. Infine, come e meglio del passato, MiTo porta a Milano e a Torino programmi anche di altri festival (Lucerna e Sagra malatestiana), rendendoli accessibili a un pubblico più vasto.
Schumann dà il La.
Tra i percorsi possibili quello di norma preferito dal pubblico riguarda la grande musica romantica, che quest'anno assume un'intonazione particolare grazie ai 200 anni dalla nascita di Robert Schumann. L'enfasi è posta sul primo romanticismo piuttosto che sul tardo romanticismo (verosimilmente uno nei temi del 2011 in linea con le celebrazioni mahleriane). La scelta è vasta: l'Orchestra del Gewandhaus di Lipsia suona Schumann diretta da Riccardo Chailly, l'Orchestre de Paris con Lorin Maazel propone Ravel e Debussy. La Philharmonia con Esa-Pekka Salonen, San Francisco con Michael Tilson Thomas, la Filarmonica della Scala con Semyon Bychkov e Lang Lang, Pollini e una schiera di pianisti offrono «un'ora al giorno con Chopin e Schumann». Arraffare tutto, come suggerisce l'elegante sito www.mitosettembremusica.it è praticamente impossibile. Un metodo può essere quello di dare la priorità alle orchestre e ai musicisti meno frequenti a Milano e a Torino come la Gewandhaus di Lipsia, l'Orchestre de Paris e la Philarmonia.
Mentre al barocco viene dedicato poco più di un sentiero, ma con chicche come il recital di Cecilia Bartoli al Lingotto di Torino e la Messa in si minore di Bach celebrata nella chiesa di San Marco a Milano dalla Akademie für Alte Musik di Berlino, è data meritata attenzione alla musica contemporanea. Si tratta di un doppio ritratto dedicato a Helmut Lachenmann e a Wolfgang Rihm nei quali si riconoscono i due volti della Germania musicale di oggi. In cartellone un concerto per Franco Donatoni, uno per Niccolò Castiglioni, uno per Luigi Nono, le prime di Fabio Vacchi e Michele Dall'Ongaro, il nuovo lavoro di Giorgio Battistelli e poi, in nome di un' antica complicità, Josquin Des Près, considerato come il più grande degli antichi a cui è dedicato un festival nel Festival, nel cui ambito si potrà ascoltare a Sant'Ambrogio l'importante (e raramente eseguita) Missa de L'Homme armé.
Sguardi verso Oriente.
Un percorso nuovo è invece quello della sezione dedicata alla musica turca e alle danze dei dervishi, nonché alle Orient Expressions che scavano elementi curdi, alevi ed armeni. Una rarità per l'Italia.
MiTo ha anche un'importante sezione dedicata alla divulgazione e alla diffusione della musica grazie a progetti di approfondimento per tutti. Musica che incontra è il titolo della serie di appuntamenti dedicati al rapporto tra la musica e altre discipline. Tre incontri in giugno hanno esplorato le interrelazioni tra musica e politica, matematica e architettura, con l'esecuzione di brani dal vivo e l'intervento di esponenti illustri delle tre discipline. A settembre altri due appuntamenti approfondiscono il rapporto tra la musica e il teatro e la letteratura. Un programma didattico è pensato per coinvolgere scuola e famiglia in una serie di concerti di qualità a un prezzo simbolico. Ogni sabato e domenica il Festival propone una rassegna di concerti per bambini e ragazzi in sedi differenti come il Parco Trotter, via Padova e anche le sale di alcuni quotidiani. In questo contesto di divulgazione (e di ricerca di nuovo pubblico), le strade di Milano e Torino anche quest'anno si riempiranno di musica con tante iniziative fuori programma. Non solo i teatri, le chiese, le sale da concerto, ma sempre più le periferie, le piazze, i giardini pubblici, le stazioni della metropolitana e dei treni, i parchi e le cascine fuori porta diventano arene per condividere, comunicare, esprimersi, divertirsi, godersi la città attraverso la musica. Anche quest'anno MiTo selezionerà alcuni artisti attraverso le candidature che perverranno sul sito del festival. Sul palco allestito in Piazza Mercanti a Milano potranno esibirsi insieme genitori e figli per mostrare come si può far musica in famiglia, così come accadeva una volta. A Torino la musica ha anche lo scopo di attutire il disagio e per questo viene portata a chi altrimenti non potrebbe fruirne, negli ospedali e nelle case di riposo, negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza.
La stagione 2011 celebra l'Unità d'Italia. MiTo, per molti aspetti, si distingue dalla prossima stagione lirica e concertistica. Pochi teatri hanno già presentato i dettagli dei loro cartelloni anche perché stanno rivedendo i bilanci a causa delle ristrettezze finanziarie. Tuttavia le stagioni liriche appaiono dominate da titoli scelti in rapporto alla ricorrenza del 150simo anniversario dell'Unità d'Italia, con molta presenza verdiana. L'opera I vespri siciliani di Verdi, per esempio, è annunciata in due differenti allestimenti, a Parma e a Torino. A Roma, il cui programma non è stato presentato, Moïse et Pharaon di Rossini e Nabucco di Verdi avranno l'onore della bacchetta di Muti. Si vocifera anche sulla messinscena di un nuovo allestimento del verdiano La battaglia di Legnano. Un'opera risorgimentale, Senso, di Marco Tutino tratta dal racconto di Camillo Boito, di cui Luchino Visconti trasse un film memorabile, inaugura la stagione a Palermo per poi volare a Los Angeles. Del ricco programma scaligero soltanto la rossiniana Donna del lago e la verdiana Attila hanno presagi risorgimentali. Altre opere meritano però grande attenzione: dalla prosecuzione del wagneriano Ring, a Death in Venice di Britten, Arabella e Cavaliere della rosa di Strauss. Firenze presenta una personale di Zubin Mehta che annovera la Forza del Destino, Tosca e tre concerti. Il corpus verrà replicato in una tournée in Giappone. Un aspetto che MiTo davvero anticipa rispetto alla prossima stagione è sicuramente l'attenzione alla musica contemporanea che ricompare nei cartelloni dei teatri, La Scala in primo luogo. (riproduzione riservata)
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mercoledì 18 agosto 2010

COSI’ LA BCE HA SMESSO DI ESSERE UNA STAR PER GLI EUROPEI Il Foglio 19 agosto

COSI’ LA BCE HA SMESSO DI ESSERE UNA STAR PER GLI EUROPEI
Giuseppe Pennisi
Quando l’Ing. Jean-Claude Trichet andrà in pensioni (almeno tre, da banchiere centrale francese, da guida del Fondo monetario, e da Presidente della Banca centrale europea, Bce), il suo successore avrà un grattacapo in più: la perdita di fiducia dei cittadini dell’area dell’euro nei confronti della loro Banca centrale. Lo quantizza uno studio del Centre for European Policy Research , Ceps (Working Paper n.334) a cui due funzionari del servizio studio della Bce si apprestano, in parte a rispondere, con un lavoro in uscita nel prossimo numero dell’autorevole trimestrale The Manchester School.
Il lavoro Ceps è smentisce un’analisi precedente pubblicata dall’Università di Costanza nel 2008 e molto diffusa dai servizi di comunicazione Bce. Lo studio del 2008 riguarda il periodo 1999-2004, i 12 Stati del gruppo di testa dell’euro e si basa su 72 osservazioni econometriche. Erano gli anni dell’avvio della moneta unica; il lavoro concludeva che i cittadini dei 12 avevano grande fiducia nella Bce in quanto avrebbe azzerato l’inflazione. Più complesso l’apparato analitico del Ceps: i dati semestrali dell’Eurobarometro vengono integrati con quelli trimestrali della contabilità economica nazionale e con 272 osservazioni econometri che. Inoltre, il periodo studiato arriva alla fine del 2009, includendo anche la crisi finanziaria iniziata nel 2007. Le conclusioni: dal 2007 c’è stato un tracollo della fiducia nella Bce , che ha toccato il punto di svolta inferiore nel febbraio 2009 (da allora è in leggera ripresa); ci sono differenze marcate tra Paesi (nel febbraio 2009 due terzi dei francesi, ma “solo” il 40% degli italiani, non si fidavano della Bce); la ripresa (delle fiducia) in atto potrebbe rientrare al più piccolo fruscio. In breve, secondo lo studio Ceps, pure a ragione dell’euroentusiasmo del 1992-2004, gli europei hanno creduto la Bce avrebbe portato non solo bassa inflazione ma anche stabilità finanziaria. La bassa inflazione c’è stata, ma alla prima crisi internazionale, la Bce non ha dato l’attesa stabilità finanziaria. Lo ammette lo stesso lavoro in corso di pubblicazione sulla The Manchester School (a cui Il Foglio ha avuto accesso): con un complesso impiego del calcolo delle probabilità, sostiene che ciò non dipende dalla Bce ma dal ciclo economico. Un po’ come dire che la colpa è della malignità del fato, notoriamente cinico e baro.
Quale è l’elemento che più ha deluso gli europei? Le osservazioni econometriche del Ceps sfiorano la materia, ma basta scorrere la stampa del Paese (la Francia) dove la reputazione della Banca ha sofferto di più per avvertire che dal 2007, l’Eurotower di Francoforte è parsa, a torto od a ragione, utilizzare la mano forte con i deboli (insistendo per riforme che toccano i portafogli dei ceti a reddito medio-basso) e guanti di velluto con i forti (incoraggiando , direttamente ed indirettamente, salvataggi bancari pure di istituti mal gestiti da amministratori con stipendi di favola). E’ forse un’impressione poco generosa nei confronti di chi ha il compito di gestire la politica monetaria dell’area dell’euro in una fase di grandi tensioni. Le impressioni contano , proprio in questo campo, molto più della realtà.
Il dibattito innestato dal Ceps è salutare: in democrazia economica non devono esistere santuari, neanche dove si è presa l’abitudine di inginocchiarsi e leggere in coro novene alla fine di Maggio. E’ da augurarsi che si torni presto alle processioni del mese mariano non a quelle a Palazzo Koch.

Performing the Past: Memory, History and Identity in Modern Europe in Leonardo Reviews August 16

Performing the Past: Memory, History and Identity in Modern Europe

by Karin Tilmans, Frank Van Vree, Jay Winter, Editors
Amsterdam University Press, Amsterdam, 2010
368 pp., illus. Paper, € 34,50
ISBN: 978-90-8964205-9.

Reviewed by Giuseppe Pennisi
Professor of Economics Università Europea di Roma
Rome, Italy

giuseppe.pennisi@gmail.com

A few word about the authors. Karin Tilmans is a cultural historian, fellow of the Department of History and Civilisation, and academic coordinator of the Max Weber Programme for Postdoctoral Studies, both at the European University Institute. Frank van Vree is an historian and professor of journalism at the Universiteit van Amsterdam. Jay Winter is the Charles J. Stille Professor of History at Yale University. The book was conceived at the conference Theatres of Memory . A Conference on Historical Culture when a project was conceived that involved interdisciplinary meetings and three different academic institutions in Europe and in the US. Its preparation required nearly five years. It is divided in an introductory “Framework” and three Parts (“The Performing Turn”, “Media and the Arts”, “Identity, Politics and the Performance of History”) with 15 different essays by 16 authors.

Performing the Past is an investigation of the multiple social and culture practices through which Europeans have negotiated the space between their history and their memory over the past 200 years. In museums, in opera houses, in the streets, in the schools, in theatres, in films, on the internet and beyond, narratives about the past circulate today at a dizzying speed. Producing and selling them is big business; if the past is indeed a foreign country, there are tens of thousands of tourist agents, guides, and pundits around to help us on our way, for a fee, to be sure. This collection of essays by renowned scholars from, among others, Yale, Columbia, Amsterdam Oxford, Cambridge, New York University and the European University Institute in Florence, is essential reading for anyone interested in today's memory boom. Drawing on different national and disciplinary traditions, the authors ultimately engage us with the ways in which Europeans continue a venerable tradition of finding out who they are, and where they are going, by “performing the past.”

Many aspects of culture, performing arts, and technology (as it affects culture and performing arts) are examined, mostly from a European standpoint. The central issue of the papers if there is and there can be a European own identity without a European own memory. The answers are different especially when culture and performing arts are examined through the eyeglasses of technology.

The main issue explored is how memory performed (in novels, in plays, in movies) does contribute to collective memories. The 15 papers are mostly case studies ranging from music and memory in Mozart’s Zauberflö to evocation of present past in the Czech Republic and Poland after 1989, from memories of the Holocaust to how readers of novels filter them through their social framework. A main theme runs throughout the book: whether or not Europe has an identity based on a collectively shared memory. In the last chapter––Chiara Bottici’s essay––the contention is that such a European collective memory, and thus a European own identity, is still far and distant. The contention is documented, inter alia, through a comparative examination of history textbooks in Italy, France, and Germany and their diverging presentations of fact of the recent past as well as of the rationale for European integration. The proposal is that Europeans are still at the level of collective remembrance and a long way to a common and a shared identity.
In short, this is a very interesting book that raises several pertinent questions on the future of Europe and its purported common culture.

Pure Joy in Music & Vision 27 luglio

Pure Joy
GIUSEPPE PENNISI finds
'Madama Butterfly' at the Puccini Festival
a pleasure for the ears and the eyes

After a Fanciulla del West received with very mixed feelings by audience and critics, the 2010 Puccini Festival presented, on 17 July 2010, a revival of its 2005 production of Madama Butterfly. The large lake-front auditorium was full to capacity. The audience was enthusiastic: open stage applauses during each of the two parts (Act II and Act III were presented without intermission); accolades at the curtain calls, even though it was 1am on 18 July and many spectators had long drives to return home. Some two hundred guests had an after performance dinner with the artists. Your reviewer was back in his Viareggio hotel at nearly 3am, but was happy to have seen a performance that had been pure joy for both the ears and the eyes.

The wedding scene from the first part of 'Madama Butterfly' at the Puccini Festival in Torre del Lago. Photo © 2010 Aldo Umicini
This report is based on that fabulous 17-18 July night with a blue sky and the stars and the moon mirrored in the lake -- the background to the stage. I had already seen the production when it was unveiled in July 2005. Since then, it has travelled to the United States, Germany and Japan. It has gradually matured and improved. I believe that successful productions should be proposed over and over again; Otto Schenk's production of Der Rosenkavalier is being performed in Vienna and Munich since the early 1970s: yet, I discover additional special details and enjoy it more each time I see it. About two months ago, I commented on a successful revival in Rome of a Madama Butterfly originally produced in Bologna twenty six years ago and since them seen in several European Opera Houses. I wish a similar fate for this Torre del Lago production also because, even though it has been conceived to be staged on a lake front, it can be easily adapted to normal theatres.

Amarilli Nizza as Cio-Cio San and Massimiliano Pisapia as Pinkerton in the first part of 'Madama Butterfly' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Aldo Umicini
The stage set (Kan Yasuda, a well-known Japanese sculptor), the costumes (Regina Schrecker) and the lighting (Fabrizio Garzelli) are, at the same time, extremely simple and elegant: a green hill sliding up from the front stage to the back stage (with the lake in the background), a few white stones in the first part, two stylized arches in the second part, a skillful use of lighting to show both the different hours of the day and the feelings of the protagonists, costumes based on 'turn of the Century' drawings and photographs. Thus, naturalistic attire in an abstract setting. This is how Japan was imagined by Belasco, Giacosa, Illica and, above all, Puccini. Sweet and delicate but at the same time rigorous and even cruel.

Amarilli Nizza as Cio-Cio San in the first part of 'Madama Butterfly' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Aldo Umicini
The other important element is that this Madama Butterfly is entrusted to three ladies. The protagonist is Amarilli Nizza -- Music & Vision discussed her skills in the role two months ago when she sang Butterfly in Rome. The stage director is Vivien A Hewitt, born in Belfast but longtime resident of Tuscany and a very well known Puccini, Donizetti and Verdi specialist in Italy, Germany and Latin America. This stage direction sees Bufferfly's drama from the side of the Japanese young girl more strongly than directions by men normally do : we feel the young girl, fifteen years old, growing into a mature woman (even though only eighteen), her increasing sensuality and passion, her sense of motherhood. The third lady is the conductor, the American Eve Queler. She has been for several decades the Queen of New York's Carnegie Hall where she often performed operas, including rare operas, in concert versions. I recall her conducting Wagner's Rienzi in the early 1980s in the Washington Kennedy Center. Now she is seventy nine years old, but as charming as ever and also as demanding a conductor as ever; with perfect technical skills, she digs into the most secret parts of the complex score; the Festival Orchestra follows suit with enthusiasm.

Amarilli Nizza as Cio-Cio San and Renata Lamanda as Suzuki in the first scene of the second part of Puccini's 'Madama Butterfly'. Photo © 2010 Aldo Umicini
Within this context, Pinkerton (Massimiliano Pisapia) acquires the despicable and even racist look he fully deserves; a look he had in the seldom performed 1904 La Scala version of Madama Butterfly but successively toned down in both the Brescia and Paris versions of the opera. As is generally known, the 1906 Paris version is normally performed. Sharpless (Fabio Capitanucci) is an honest and well-meaning Consul attempting to prevent the damage in the first part and to contain it in the second. Goro (Mauro Buffoni) is a slew. Yamadori (Giovanni Guagliardo) is a sex object with plenty of money but little brain. No doubt, the three ladies in charge of the performance have conjured up, with quite a bit of complicity, this male universe in Nagasaki around 1900.

The chorus between the first and second scenes of the second part of 'Madama Butterfly'. Photo © 2010 Aldo Umicini
A final word: the chorus, directed by Stefano Visconti, was really moving in the interlude between the first and the second scene of the second part.

Massimiliano Pisapia as Pinkerton in the second scene of the second part of 'Madama Butterfly'. Photo © 2010 Aldo Umicini
The 2010 Puccini Festival also includes Tosca, Turandot, a Renée Fleming Gala and a Bolshoi Ballet production of Prokofiev's Romeo and Juliet.
Copyright © 27 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIACOMO PUCCINI
MADAMA BUTTERFLY
ITALY
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Eyes Tight Shut in Music and Vision 21 luglio

Eyes Tight Shut
'La Fanciulla del West' at the Puccini Festival,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI

The 2010 Puccini Festival in Torre del Lago was inaugurated on 16 July with a new production of La Fanciulla del West. This year is the centenary of La Fanciulla, which was commissioned by the Metropolitan Opera House and premièred on 10 December 1910 with a stellar cast: Arturo Toscanini in the pit, Emma Destin, Enrico Caruso and Pasquale Amato in the three main roles. Then, even if the weather was vile -- a snow storm -- and prices had been increased (and further raised by ticket scalpers), a capacity audience filled The Met at 34th Street and their applause rocked the rafters.
At the end of the performance on 16 July, applause for the conductor (Alberto Veronesi), the orchestra and the singers (Daniela Dessì, Fabio Armiliato, Carlos Almanguer and an additional dozen in less important but not minor roles) was mixed with a battery of booes at the stage designer (Franco Adami) and at the stage director (Kirsten Harms). It's difficult to understand why the Puccini Festival embarked on a new production, especially since Fanciulla is a comparatively rare offering in the Puccini catalogue and the festival had presented a perfectly good staging, for only a few evenings, five years ago. In short, this Torre del Lago Fanciulla should be listened to with the eyes tight shut.

A scene from Act 1 of Giacomo Puccini's 'La Fanciulla del West' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Caterina Zalewska
Just a few words on the staging. Franco Adami is a local sculptor, probably dealing with an opera for the first time. The staging is an abstract set of totems and hanging beds, plausible, perhaps, in a futuristic staging of Aida but light years away not only from the Far West but also from the dramatic action. To add comic relief, at the end of the Third Act, Minnie and Dick fly away in a 'Star Wars' sun. Also in the first Act, Minnie is dressed as a 'Girl Friday' just coming back home ('The Polka') from some Main Street office, even with a couple of guns under her belt. Dick arrives with a bunch of freshly cut and delicately cared-for roses (in the Rockies during the gold rush!!) The stage direction is hardly worth mentioning . Kirsten Harms has the reputation of being an effective manager -- now she is the director of the Deutsche Oper Berlin, but her staging has been limited to second tier German opera houses, such as Kiel and Bremen. The overall result is a boring first Act, an anti-climatic second Act and a senseless third Act.

Daniela Dessi and Fabio Armiliato in Act 1 of 'La Fanciulla del West' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Caterina Zalewska
Luckily, the musical element is far superior to that happening on the stage. While the plot of Fanciulla is generally well-known, only a limited number of opera-goers are aware that this was one of the operas Puccini was particularly fond of, just because, in composing it, he adopted a style so different to that of his previous works. The subject, taken from American life and history, could easily be treated with conventional verismo intertwined with lyrical episodes and minor scenes secondary in importance in terms of plot development albeit essential to the description of milieu. Instead, Puccini composed a very innovative vocal and orchestral score where harsh naturalism is mixed with influences from Debussy and Strauss. In Fanciulla there are no conventional arias but only an arioso starting with andante molto lento and reaching a very high C. It is, in a way, a chit-chat opera -- a conversational opera, which anticipates Leos Janácek's Jenufa by six years because it is a highly dramatic conversational opera full of passion and sexual drive, whilst chit-chat operas are normally based on comparatively light subjects.

Daniela Dessi and Carlos Almanguera in Act 2 of 'La Fanciulla del West' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Caterina Zalewska
Alberto Veronesi and the Festival Orchestra delved very competently into this very complex score where some forty leitmotives describe the environment and situations. Daniella Dessì and Fabio Armiliato are the best Italian couple to sing the taxing roles of Minnie and Dick. She started her career with bel canto but has gradually thickened and darkened her voice, and is now a soprano drammatico with plenty of temperament and springing passions from everywhere. He received a well-deserved open stage applause after the third Act arioso. His legato was remarkable. Carlos Almanguer (the sheriff Jack) was very effective too, in spite of having a bad flu and high fever. All the others were good. The singers deserve special praise because they were forced to perform in Adami's peculiar sets and under very strong lighting in a temperature of over thirty degrees centigrade.

A scene from Act 3 of 'La Fanciulla del West' at the Puccini Festival. Photo © 2010 Caterina Zalewska
Let's hope for a CD ... if there were any plans for DVD it might be better to set them aside.
Copyright © 22 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

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"Alceste" in the Madhouse in Music & Vision 16 luglio

'Alceste' in the Madhouse
GIUSEPPE PENNISI files his last report
from the 2010 Aix-en-Provence Festival

I must start by emphasizing that I consider Christopher Loy to be one of the best metteurs en scène in today's world market. With his training in history, philosophy and Italian philology, and his unassuming gentle manners, he is also one of the most pleasant stage directors to talk to. He has a long list of excellent productions in his résumé; few mention a true masterpiece -- his staging of Richard Strauss' Arabella in Frankfurt in 2009. Thus, there is nothing personal if, based on the 8 July 2010 performance in Aix-en-Provence, I say that his direction of Christoph Willibald Gluck's Alceste was wrong from A to Z, and risked jeopardizing the excellent musical work by Ivor Bolton and the Freiburger Barockorchester, by the English Voices chorus, and by the principals -- Véronique Gens, Joseph Kaiser, Andrew Schroeder and Thomas Oliemans.
Alceste is not an ordinary opera. Others (eg Haendel in Admeto) had dealt with Euripides' tragedy about conjugal love defeating death. But Gluck (and his librettist Calzabigi) made it a reform still influencing modern musical theatre. The poetic of the reform is clearly set out in Alceste's foreword (to the libretto and score) as written by Gluck and Calzabigi: 'The intention is to purify music from all the abuses which have crept into Italian opera through the vanity of the singers and the excessive compliance of the composers ... We tried, therefore, to bring musicians back to the real task of serving the poetry, by intensifying the expression of emotion and the appeal of every situation, without interrupting the plot or weakening it by unnecessary ornamentation'.
Alceste is often named as an opera 'without action'. This pretext gives stage directors the opportunity of filling it up with that 'unnecessary ornamentation' Gluck and Calzabigi wanted to keep away. This is the trap Loy falls into: his production tries to be innovative but it is rather senseless. We will see the reaction of the quite conservative audience of the Wiener Staatsoper (which co-produces it, along with the Royal Danish Opera) where it is expected to become standard repertory.
Alceste has little action, but a lot of tensions (among the Royal couple, between them and the general populace, the High Priests, and the Gods). Gluck wrote music of great nobility, starting from the magnificent overture 'to prepare the spectators for the plot and, so to speak, to present its content'. The most important single piece is Alceste's great aria Divinité du Stinx which closes the first Act. But the concept of musical numbers itself is overtaken by Gluck's composing recitative sliding into arias, duets and concertato. Alceste opens the way to Spontini, Berlioz and Wagner. This is clearly shown in the dramatic recitative scenes of the oracle and in Alceste's declaration that she had dedicated herself to her own death: they are exceptionally impressive (dramatically, not only musically) and the chorus plays an important part in both of them. The dramatic tension relaxes at the end in order to prepare the conventional 'happy ending'. Hercules' scene is neither dramatically nor musically satisfactory.

A scene from Act I of 'Alceste' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
In Loy's production, there are two good points: the intention (but not well implemented) of showing the difference between the Royal couple and all the others, and the attempt to deal with irony in Hercules' scene. However, most probably to provide 'a lot of action', the plot is set in a madhouse or asylum, the chorus is a bunch of disheveled and most likely mentally retarded children, the High Priest is a tough clergyman beating them with a sadistic look, Hercules a happy-go-lucky traveler. And the Royal couple? Of course, they stick out from that madding crowd, but, curiously, not enough. Finally, the scene in Hell; it is meant to be terrifying but that Hell looks like Disneyland or Legoland. In short, Christopher Loy will be wise to make several adjustments before the production gets to the Staatsoper. In Denmark, the audience likes way-out staging. And this is weird enough.

Véronique Gens and Joseph Kaiser in Act II of 'Alceste' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
The musical part, on the other hand, is superb, confirming Véronique Gens as the best French soprano assoluto around. She spans the very high to the rather low tonalities easily, has a sensual legato and a magnificent sì natural. I listened to Joseph Kaiser in Salzburg in 2007 (Lenski in Onegin); he has clear timbre, a large volume and a tender fraseggio. Their Act II scene and duet is a piece of anthology and a reference for future singers. Andrew Schroeder is a sufficiently nasty Priest and Thomas Oliemans a carefree Hercules.

Véronique Gens in Act III of 'Alceste' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
A special mention should be made of the English Voices chorus directed by Tim Brown -- able to sing so well in spite of what Loy asked them to do -- as well as the sound of the Freiburger Barockorchester under the baton of Ivor Bolton. In short, a performance for the ears but not for the eyes.
Copyright © 20 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

ALCESTE
CHRISTOPH WILLIBALD GLUCK
AIX-EN-PROVENCE
FRANCE
GERMANY
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The Past Cannot Be Changed in Music & Vision 12 luglio

The Past Cannot Be Changed
Oscar Strasnoy's 'Un Retour',
recommended by GIUSEPPE PENNISI

Un Retour by Oscar Strasnoy on a text by Alberto Manguel is the masterpiece that any festival of lyrical music would love to commission and to première. It is, no doubt, the best and most engrossing experience of the 2010 Aix-en-Provence Festival. It is a chamber opera requiring seven singers (in a dozen different roles), two pianists, two percussionists, and two brass players (a trumpet and a trombone). During a span of about an hour, its thirteen scenes move swiftly from an airplane, to an airport, from the busy streets of a large city (Buenos Aires) to a small out-of-the-way, but ghostly, village. This review is based on the 9 July 2010 performance.
Is Un Retour is too short to fill an evening? At the Aix Festival, it is performed in the courtyard of a mansion some ten kilometres from the city. Before the performance, the audience is divided into three groups for an artistic prelude: they move, in turn, to three different parts of the mansion's gardens for three artistic 'moments', each of fifteen minutes: a modern dance, madrigals sung by a mezzo with a turba accompaniment, and a reading from Virgil's poems on exile and the afterworld. Each group of spectators, of course, experiences all three parts of the prelude, although in a different order. In a traditionally designed theatre, Un Retour can be easily combined as a double bill with another chamber opera on a similar them (such as Le Malendendu by Matteo D'Amico, premièred in July 2009 at the Sferisterio Festival).

Scene 8 from Strasnoy's 'Un Retour' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
Let's come to the crux of the matter. Oscar Strasnoy is a comparatively young composer: he has just turned forty years old. He was born in Argentina but his musical training was in France, Germany and Italy. Ten years ago, he had his first international success, Midea Dos, in Italy, where the opera was performed at the Caio Melisso Theatre in Spoleto and at the Teatro dell'Opera in Rome. It was particularly appreciated by Luciano Berio. Now, Strasnoy resides in Germany. Among his works for the theatre, especially significant are Le Bal, after Irène Némirovksy's novel now in repertory at Hamburg Opera. Alberto Manuel is a prolific Argentine-born writer who has lived for several years abroad -- in Israel, Italy, Canada, Germany, Britain and Tahiti. He is now a Canadian citizen.

Scene 9 from Strasnoy's 'Un Retour' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
Un Retour deals with Nestor Fabris, an Argentinian in his late forties or early fifties, returning home after thirty years in Europe. He was forced to escape from the country by his parents, because he was involved in a students' uprising, and a military dictatorship was in sight. In exile, he seems to have forgotten even his native language: he signs in French but interacts with all the other characters who sing in Spanish. His homecoming has a pretext: to attend the wedding of his godson, born by a woman who, thirty years earlier, was his girlfriend. He has not had any contact with her since then and hopes to see her again. Upon his arrival, many of his former friends, and even his much appreciated Professor, run into him, but either pretend not to recognize him or rush away from him. He left, but they lived and suffered through the dictatorship. As a matter of fact, we (the audience) do not know if these are actual encounters or just Nestor's imagination and daydreams. The verdict, however, is clear: 'The past cannot be changed'. Nestor must take the first flight back to exile.

Scene 13 from Strasnoy's 'Un Retour' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
In the text, there is naturally quite a bit of Virgil: Aeneas' descent to hell. However, there are also remembrances of Albert Camus and Vintilia Horia (and their writing about exile). While Midea Dos has an exuberant score strongly anchored to high tonalities (King Creon is a countertenor) and requiring a comparatively large orchestra, with live electronics, the orchestral and vocal writing of Un Retour is simple, dark and somber, but engrossing. Firstly, the orchestra supports the text : every single word -- in French or Spanish -- is fully understood. It also creates the atmosphere: from Nestor's joy at his homecoming, to his sad and saddening coming to terms with his own life and with those of the others. The tonalities are low: the three protagonists (Nestor, his former girlfriend and his professor) are a baritone, a mezzo and a bass. In the group there are only a soprano and a tenor. The vocal score is based on declamato sliding into arioso, never into arias. The Ensemble Musicatreize of five of the seven singers also has vivid choral moments based on a madrigal structure -- a further reason for the Monteverdi and Strozzi madrigals in the prelude.
This is well worth Glyndebourne and a tour.
Copyright © 18 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

AIX-EN-PROVENCE
ARGENTINA
FRANCE
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Splendid Ideas in Music and Vision 11 luglio

Splendid Ideas
Stravinsky's 'Le Rossignol'
impresses GIUSEPPE PENNISI

Whilst the staging of the first opera in the 2010 Aix Festival (Don Giovanni) has had a mixed reception (see Nearly a Male Lulu, 10 July 2010), the festival's second opera (Stravinsky's Le Rossignol) enchanted the audience both dramatically and musically: on 7 July 2010, when I saw the performance on which this account is based, the curtains calls included a fifteen minute standing ovation.
It is a rare opportunity to see a staging of Le Rossignol for several reasons: its duration (three Acts within a total of fifty minutes) makes it difficult to fill an opera evening; based on a tale by Hans Christian Andersen, it involves a large number of characters with a bird -- a nightingale -- as its protagonist; the music, composed between 1907 and 1914, encompasses several styles with the second and the third Acts fundamentally different from the first Act. In 1910 (with L'Oiseau de Feu) and more forcefully in 1913 (with Le Sacre du Printemps), the composer had changed style drastically: the gentle Russian fairy tale atmosphere had been replaced by the evocation of wild and wide primitive Russian dances. Also, he had become more interested in ballet and acrobatic expressions.
Stravinsky was himself conscious of such a divergence, but left things unchanged, even when in 1962 he reviewed the score once more: he felt that his earlier 1907 style, bound as it was to lyrical impressionism, seemed to him well suited to the delicate poetic atmosphere of the first Act. It is useful to underline that for Igor Stravinsky, opera took second place in musical theatre, with the first place belonging firmly to ballet. Although he composed extensively for the stage, his only operas in the traditional sense are Le Rossignol, almost at the beginning of his career (in 1914), and The Rake's Progress, nearly at the end (1951) with a final foray into opera for television (The Flood) whilst he was toying with the twelve note row system in the 1960s.

Olga Peretyatko in Act II of Stravinsky's 'Le Rossignol' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
Andersen's fairy tale revolves around a nightingale conquering disease and death in an imaginary Imperial China. It is quite well known as standard fare for primary school readers. In the Aix-en-Provence production, a joint venture with the Opéra National de Lyon, the Canadian Opera Company and Amsterdam's De Nederlandse Opera, the short and delightful work is presented by Robert Lepage (stage director) and his team (Carl Fillion, Martin Curry, Martin Genest, Philippe Beau, Etienne Boucher and Mara Gottler) as a Vietnamese puppet show in a Far East land: the puppets are moved by the singers (Olga Peretyatko, Elena Semenova, Marijana Mijanovic, Edgaras Montvidas, Ilya Bannik and Yuri Vorobiev).

A scene from Act II of Stravinsky's 'Le Rossignol' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
The singers, on their own account, are in a huge 70,000 litre swimming pool (the orchestra pit) while Kazushi Ono conducts the Lyon Opera Orchestra on the stage, and two small scenes are set on the left and the right sides of the pool. The impact is great too because the water molds the voices and instruments and makes the atmosphere even more poetic (as in Tan Dun's recent works).

Ilya Bannik in Act III of Stravinsky's 'Le Rossignol' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Elisabeth Carecchio
To this brilliant idea, another ingenious device is to be added. Le Rossignol forms the second part of a double bill (and of a two hour and twenty minute operatic evening). The first is not another short Stravinsky opera (like L'Histoire du Soldat) from almost the same period (but with almost no orchestra) or the strikingly different Oedipus Rex (with an orchestra of nearly the same size as that used in Le Rossignol). Even though either one of these choices would have had a musical rationale, Kazushi Ono and Robert Lepage had an even better idea: to stage the pantomime Le Renard with its delightful popular manner and impudent touches of burlesque, improvisation, changing meters, endless rhythmic subtleties and bold digressions from tonality (and its ostinato passages).
The staging is on the shore of the pool/orchestra pit with the singers on stage but with the action being shown through ombres chinoises and the shadow of acrobats behind a screen. The carefree and unconventional Le Renard is married with Stravinksy's Russian Songs cycles, linked with each other and with the Trois Pièces pour Clarinette (magnificently played by Jean-Michel Bertelli).
In short, an evening full of splendid ideas to make excellent music the basis for a dramatic action where fairy tales come to life thanks to the magnificent lighting and costumes (of the puppets as well as of the singers), Ono's detailed rhythmical precision and the superb vocal cast (especially the sensual soprano Olga Peretyatko and the sumptuous tenor Edgaras Montvidas).
A real festival event. It remains to be seen how it will fare in normal opera houses.
Copyright © 12 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

AIX-EN-PROVENCE
IGOR STRAVINSKY
LE ROSSIGNOL
HANS CHRISTIAN ANDERSEN
CHINA
RUSSIA
FRANCE
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Nearly a Male Lulu Music & Vision 10 luglio

Nearly a Male Lulu
'Don Giovanni' in Aix-en-Provence,
a black comedy of sex and loneliness,
reviewed by GIUSEPPE PENNISI

A much awaited production of Mozart's Don Giovanni inaugurated the 2010 Aix-en-Provence Festival on 1 July 2010, and your reviewer attended the third performance on 5 July. The main reasons why this production is important are as follows:
• For the first time since the 1998 production -- staged by Peter Book and conducted, on alternative evenings, by Claudio Abbado and Daniel Harding -- the festival dared to propose a new Don Giovanni. The Brook-Abbado-Harding production has been considered for years to be a milestone, has toured around the world and also has also been revived in Aix-en-Provence with much acclaim.
• The challenge of staging, costumes and dramaturgy had been entrusted to a Russian team (Dmitri Tcherniakov, Elena Zaitseva, Alexei Parin). This is a young team, but already well-known, although not for Mozart productions. The musical aspects were to be handled by a well known conductor, Louis Langrée, and the comparatively small Freiburger Barockorchester which would use period instruments.
• An international cast had been assembled of singers with a good flair for acting : Bo Skovhus ( Don Giovanni), Kyle Ketelsen (Leporello), David Bizic (Masetto), Colin Balzer (Don Ottavio), Marlis Petersen (Donna Anna), Kristine Opolais (Donna Elvira), Kerstin Avemo (Zerlina) and Anatoli Kotscherga (the Commendatore).
The Russian team has made a name for itself on account of the heretical, non-traditional staging. The Freiburger Barockorchester is a first class ensemble with experience mostly in concert but almost none in musical theatre or opera. The undertaking is co-produced by the Festival with the Teatro Real in Madrid, the Canadian Opera Company in Toronto and the Bolshoi in Moscow. If things go well, it will tour all over Europe and became a standard Bolshoi repertory feature for the next few years.

Bo Skovhus as Don Giovanni and Marlis Petersen as Donna Anna in Act 1 of 'Don Giovanni' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
Reportedly, the 1 July 2010 opening night was quite stormy, with part of the audience protesting the stage direction (with attendant stage sets and costumes). The 5 July performance was much quieter, even though at the final curtain calls some in the audience made their dislike rather clear when Dmitri Tcherniakov joined the rest of the cast. At all the performances, the Freiburger Barockorchester received real accolades, even though, or just because, its sound was so different from that of any standard run-of-the-mill Don Giovanni.
Let's make it clear up front that your reviewer appreciated the performance, even though some clarifications of Act 2, scene 2 (and maybe some changes in the staging of that scene) could improve its comprehension.
Don Giovanni is a very intriguing opera. It can be open to many interpretations; eg it can be effectively used even to teach 'game theory' in advanced economics classes. Its general reading and understanding has undergone many modifications through the decades. In the nineteenth century, for instance, it became general practice to end the opera with Don Giovanni's descent into hell and simply omit the closing sextet; the tragic side of the opera was emphasized, not without a moralistic attempt. It was only in the second part of the twentieth century that the dramma giocoso nature of the opera was better understood: when Da Ponte finally lets his hero sink into hell, this conclusion is only tragic in the sense of a puppet show -- as with quite a few other situations in the opera. During the last few years, the puppet show nature of Don Giovanni is often mingled with commedia dell'arte. (Leporello is almost a brother of Harlequin.) Da Ponte's text is neither tragedy nor comedy: it belongs to the undefinable realm of his art where laughter alternates with tears. In this context, the final sextet is essential to remove the last sting of the hero's grotesque fate.

Bo Skovhus as Don Giovanni and Kyle Ketelsen as Leporello in Act 2 of 'Don Giovanni' at Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
In more recent readings, the emphasis is on Don Giovanni's passionate love of life and ebullient vitality (even in the last days of his existence). All themes related to him, from the allegro in the overture to his bold retorts in his dialogues with the statue, exude vitality and a demonic urge which not even annihilation can alarm. The other characters of the play, apart from the Commendatore, are grouped around him, and he seems to belong to a different world (or century).
Dmitri Tcherniakov, Elena Zaitseva and Alexei Parin depart from all these interpretations. Don Giovanni is no longer a dramma giocoso but becomes a black comedy of sex (with, of course, power) and loneliness. The protagonist remains central (with the Commendatore) but the others have an equal status in starving for sex (and power) and being desperately alone. There are very few occasions to laugh.
It is a totally new concept: the play develops in a single stage set (the traditional elegant living-dining room of any contemporary mansion). It does not evolve in a single day, but over nearly two months. All the characters (except for Leporello) are related to one another by family ties. We are, of course, reminded of Chekhov, but also of Tennessee Williams and Italian authors such as Bernando Bertolucci and Pier Paolo Pasolini. Bo Skovhus, for instance, is dressed as Marlon Brando in Last Tango in Paris.

The Finale of Act 2 of 'Don Giovanni' at Festival d'Aix-en-Provence. Photo © 2010 Pascal Victor / Artcomart
Don Giovanni's ebullient vitality gradually sinks into destitution and alcoholism: the Act 2 serenade with its delightful mandolin accompaniment becomes a desperate remembrance of the better times of the past, with its intimate mood sharply contrasting the bubbling champagne aria or Leporello's catalogue aria. The three women are starved of sex and have severe difficulties in reaching their goals; they and their men sink into a swamp of senseless loneliness. In short, this is a provocative staging; it will be interesting to learn how the Madrid, Toronto and Moscow audiences react to it.
The singers are also excellent actors. Bo Skovhus is to be complimented for the manner he shows the gradual destitution of the protagonist -- nearly a male Lulu. Louis Langrée extracts from the orchestra a darker sound than usual for Don Giovanni, perfectly in line with the rest of this production.
Copyright © 10 July 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

WOLFGANG AMADEUS MOZART
DON GIOVANNI
CANADIAN OPERA COMPANY
AIX-EN-PROVENCE
FRANCE
AUSTRIA
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L ‘ELEKTRA DI STRAUSS SI RISCOPRE DRAMMA CRISTIANO Avvenire 18 agosto

Giuseppe Pennisi

“Elektra” è , nel catalogo Strauss- Hofmannsthal, uno dei lavori rappresentati con maggiore frequenza in Italia ma anche più fraintesi: negli ultimi anni si è visto alla Scala, all’Opera di Roma, al Maggio Musicale fiorentino, al Massimo Bellini di Catania, al Filarmonico di Verona, a Modena, a Piacenza a Ferrara nonché nei Festival di Taormina, Macerata, Pompei e Spoleto.
E’ fraintesa perché le messe in scena del capolavoro di solito traggono spunto dall’anno del suo debutto (1909) con gli sviluppi delle teorie freudiane ed ignorano che sia Strauss sia Hofmannsthal erano cattolici credenti e praticanti (il secondo con particolare rigore). L’epicentro della tragedia in musica , quindi, viene posto nella crisi e nelle ossessioni , anche sessuali, delle tre protagoniste: Elettra “sola” e tesa alla vendetta, Clitennestra insoddisfatta da Egisto (ed in precedenza da Agamennone) e tormentata dai rimorsi, Crisotemide disperatamente rivolta alla ricerca di un uomo che la faccia sua. Si ignora che il vero punto centrale è il perdono: Clitennestra lo chiede ad Elettra ed al resto del mondo, Crisotemide lo invoca per porre termine al sangue nella reggia degli Atridi. Elettra, che non sa e non vuole perdonare, si autodistrugge in una danza infernale. Nell’”Elektra” in scena a Salisburgo sino al 28 agosto, e successivamente in repertorio a Vienna il regista Nikolaus Leinhoff riscopre questa dimensione centrale del lavoro, situandolo in quello che può essere un caseggiato popolare in rovina ai giorni nostri (le scene sono di Raimund Bauer, i costumi di Andrea Schimdt-Futurerer) e dando alla tragedia una dimensione intimistica.
“Elektra”è un prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elettra e Clitennerstra, interamente dedicato al significato del perdono); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. L’edizione di Salisburgo mostra, grazie alla direzione musicale di Daniele Gatti ed al virtuosismo dei Weiner Philarmoniker come sia l’azione sia la musica abbiano una struttura ad ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elettra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elettra e Clitennestra (colmo di disperazione proprio per il diniego del perdono da parte della prima) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elettra e Crisotemide (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Oreste e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale. Gatti accentua gli aspetti lirici e, grazie alla maestria dei Weiner, le parti solistiche ed i momenti cameristici.
Data la potenza dell’orchestra (note le dissonanze mai prima di allora udite) il maestro concertato è alle prese con la sfida di non oscurare le voci (ciascuna parola è densa di significato). Daniele Gatti supera brillantemente l’ostacolo: dal quinto palco di platea potevo ascoltare ciascuna parola. La sera del 16 agosto, Iréne Theorin, titolare della parte della protagonista, .è stata sostituita da Janice Baird, chiamata di corsa dalle vacanze in Spagna; conosce la parte a menadito (avendola interpreta più volte anche in Italia) e si è meritata vere e proprie ovazioni. Waltraud Meir è una Clitennestra severa con grandi capacità vocali sia nell’ascendere a tonalità alte che a discendere in quelle più gravi. Dolcissima la Crisotemide di Eva-Marie Westbrock. Eccezionale Renée Pape nel breve ruolo di Oreste, mentre Robert Gambill è un Egisto efficace dai “do” possenti. Lo spettacolo si replica a Salisburgo sino al 28 agosto; entrerà in repertorio alla Staatsoper di Vienna che lo coproduce.

Cina e Giappone, capire il sorpasso Il Velino 18 agosto

ECO - Cina e Giappone, capire il sorpasso

Roma, 18 ago (Il Velino) - La stampa ferragostana, tanto quella italiana quanto quella straniera, ha dato molto rilievo al sorpasso della Cina, rispetto al Giappone, in termini di Pil. Era notizia vecchia e scontata. Già nel 1998, ad esempio, Jeffrey Williamson lo aveva anticipato in un saggio intitolato “Transizione demografica e miracoli economici nell’Asia emergente” e pubblicato 12 anni fa dalla Banca mondiale. La crescita della popolazione attiva, e quindi della forza lavoro, è infatti una delle determinati principali del motore del Pil. In Cina, nonostante le misure drastiche per limitare le nascita ad un figlio per famiglia, la popolazione cresce dello 0,6 per cento l’anno ma sta toccando un miliardo e mezzo di persone. La Cina si è svegliata con le “quattro liberalizzazioni” della seconda metà degli Anni Ottanta. Anche se - amava ricordare il maggior esperto al mondo di queste materie, il compianto Angus Maddison - la contabilità economica nazionale cinese è sospetta, la crescita del Pil del 10,3 per cento negli ultimi 12 mesi (dopo che, nel triennio della crisi mondiale era diminuita dal 9,9 per cento all’8,7 per cento l’anno) suggerisce che il nuovo Impero sta galoppando e con i suoi 1,3 miliardi di persone arriverà tra due-tre anni ad un Pil analogo a quello degli Stati Uniti. La produttività che in Europa ristagna (ed in Italia diminuisce) è cresciuta, secondo i dati ufficiali cinesi, del 17 per cento l’anno dal 1995 al 2002 e da allora ad un più modesto 8,7 per cento l’anno. Un miracolo economico che ha ancora una volta al suo centro l’avere reso, con una politica di liberalizzazioni (densa di iniquità), centinaia di milioni di lavoratori in precedenza non produttivi. All’inizio degli Anni Settanta, l’allora ministro degli Esteri francese Alain Peyrefitte pubblicò un voluminoso saggio prendendo come titolo una frase di Napoleone Bonaparte “Quand la Chine s’évelliera, le monde tremblerà” (“Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà).

La galoppata continuerà? Gli esempi storici indicano che gli effetti di aver produttive risorse umane in precedenza non produttive si esauriscono in una o al massimo due generazioni. La Cina, poi, è disperatamente priva di risorse naturali (in primo luogo di acqua), ha una lingua scritta (che una minoranza decifra) ma ha almeno quattro famiglie di lingue parlate, ed una politica demografica il cui esito è che ci sono almeno 100 milioni di giovani uomini in età riproduttiva in più delle coetanee di genere femminile. Nessuno sa quante guerre e guerriglie sono in corso e quale è stato il destino degli 80 milioni di disoccupati nel settore industriali “rilocati” in campagna nel 2008-2009.

Previsto anche il rallentamento del Giappone, sin da un libro del 1972 di Ferenc Jannossy (La Fin des Miracles Economic) In un arcipelago di 130 milioni di persone (336 per chilometro quadrato, montagne ed acque comprese), la demografia è stata una delle cause del letargo di questi ultimi anni. Nel 1989, la popolazione giapponese con più di 65 anni alle spalle era il 12 per cento del totale; è diventata il 22 per cento nel 2007 e supererà il 25 per cento nel 2030. Nonostante i tentativi di favorire un “invecchiamento attivo”, ciò ha riflessi sulla spesa pubblica (e privata) per pensioni e sanità e comporta un ristagno della produttività.

L’altra causa principale ha a che vedere con la politica economica. Sia interna sia internazionale. Sotto il profilo interno, il “miracolo economico” giapponese, al pari di quello italiano e tedesco, si fondava su risorse umane non utilizzate o mal utilizzate negli delle guerra mondiale ed in quelli ad essa immediatamente precedente: questa risorsa è progressivamente venuta meno perché dagli Anni 80 il sistema d’istruzione e di formazione non si modernizza. L’altra leva era l’export, pure grazie ad un tasso di cambio volutamente sotto prezzato. Gli “accordi del Plaza” del 1985 hanno comportato un riallineamento dello yen e, quindi, smorzato e progressivamente eliminato questo motore della crescita nipponica.

Ciò spiega perché i cinesi si oppongono ad un “nuovo Plaza” che porti ad un aumento del valore internazionale dello yuan.

(Giuseppe Pennisi) 18 ago 2010 10:41

martedì 17 agosto 2010

Lirica, al Rof la “Cenerentola” spettacolare di Luca Ronconi Il Velino 17 agosto

CLT - Lirica, al Rof la “Cenerentola” spettacolare di Luca Ronconi


Roma, 17 ago (Il Velino) - “La Cenerentola” è il terzo spettacolo del Rossini Opera Festival 2010. È la ripresa di un allestimento molto spettacolare di Luca Ronconi proposto inizialmente nel 1998, già rivisto alla manifestazione pesarese nonché in altre città. “La Cenerentola”, assieme a “Il barbiere di Siviglia”, “L’Italia in Algeri” e “Guglielmo Tell (in versione italiana), è uno dei pochi, tra i 37 titoli di Gioacchino Rossini, sempre rimasto nei cartelloni anche quando il romanticismo prima e il verismo poi avevano allontanato i gusti del pubblico e degli impresari dallo stile del pesarese. Il libretto di Jacopo Ferretti è un “dramma giocoso” ed elimina la fata e le scarpette (vietate dalla censura papalina nel 1817). Angela, “La Cenerentola”, è bistrattata dalle sorellastre e dal padre, ma le viene in aiuto Alidoro, precettore del principe Ramiro, che le dà l’abbigliamento con cui andare a Palazzo e, dopo una serie di equivoci e travestimenti, impalmare il ragazzo. Nel frattempo, costui cresce da adolescente a caccia di gonnelle a sposo giovane ma maturo. È un testo edificante, a volte sottotitolato “La bontà premiata”, come si addiceva in quegli anni al Teatro Valle di una Roma con il Papa Re.

A differenza di altre regie viste nell’ultimo quarto di secolo, che danno una lettura farsesca (Ponnelle), fiabesca (De Simone) oppure ancora politica (Hall), “La Cenerentola” di Ronconi (regia), Margherita Palli (scene) e Carlo Diappi (costumi) è un’ironica interpretazione della mobilità sociale combattuta ad armi sleali da padre e sorellastre ma vinta da Angelina con candore misto ad astuzia. È anche una maturazione, da adolescenza a giovinezza sia per Angela sia per il principe. Il palazzo di Don Magnifico (carico di debiti) è in rovina; le nozze di una delle figlie con il principe metterebbero a posto le finanze della famiglia. Con un abile meccanismo scenico, il palcoscenico si alza per mostrare il Palazzo principesco. Stesso congegno nel secondo atto. Dopo dodici anni, lo spettacolo e i suoi effetti speciali (nonché le sue gag) reggono bene, anche se con la situazione dei conti dei teatri di oggi sarebbe impensabile concepire un allestimento dal costo analogo a quello del 1998.

Alla guida della orchestra e del coro del Teatro Comunale di Bologna, Yves Abel (concertazione) e Paolo Vero (direzione del coro). Abel imbocca la tinta scintillante del lavoro sin dalla sinfonia ed è abilissimo nel supportare i cantanti in momenti difficilissimi (come i concertati). Il coro, con le sue redingottes e i suoi ombrelli neri, diventa il vero protagonista. Marianna Pizzolato è Angela-Cenerentola: volto dolcissimo (anche se non ha le “physique du rôle”) ed emissione purissima. Lawrence Brownlee è il principe: bello (anche se minuto), agile e bravo con gli acuti e i legato, non ha un volume enorme ma regge bene la sfida di cantare nell’Adriatic Arena originariamente concepito per la pallavolo. Di gran livello il terzetto maschile di buffi e semi-serii (Nicola Alaimo, Paolo Bordogna , Alex Esposito). Meno felici le due sorellastre (Manon Strauss Evrad, Cistrina Faus). La Strauss-Evard ha lasciato a desiderare nell’aria, peraltro non di Rossini ma di Luca Agolini, “Sventurata! mi credea”. Per il 2011 il programma preliminare del Rof annuncia “Adelaide di Borgogna”, “Mosé in Egitto” e “La Scala di Seta”, nonché la prima esecuzione mondiale dell’edizione critica de “Il barbiere di Siviglia”.

(Hans Sachs) 17 ago 2010 12:49

MUTI E LO ZAR DEPARDIEU INFIAMMANO SALISBURGO Avvenire 17 agosto

Giuseppe Pennisi

Per celebrare il novantesimo compleanno, il Festival di Salisburgo ritrova la propria matrice iniziale: la manifestazione iniziò il 22 agosto 1920 con la rappresentazione del dramma religioso in versi Jedermann (“Ognuno”) di Hugo von Hoffannsthal di cui quest’anno vengono offerte 12 repliche (sino al 30 agosto) nel sagrato del Duomo e altre 10 in una versione modernizzata nello stadio della città. Il tema della manifestazione (che offre circa 200 rappresentazioni su sei settimane) è “Dio e l’Uomo:la fine del mito dallo spirito della musica”. La musica – ha ricordato più volte Benedetto XVI-è l’arte che più ci avvicina all’Alto (e ci allontana, quindi, dal mito).
Nel fine settimana di Ferragosto, nella vasta offerta del Festival, hanno spiccato tre apologhi: oltre a Jedermann, capolavoro che può essere fruito solo da chi conosce il tedesco poiché nel sagrato del Duomo, non può essere presentato con sovra titoli, l’oratorio di Serghei Prokofjev Ivan Il Terribile e l’opera di Alban Berg Lulu. Il lavoro di Prokovjev, composto durante la seconda guerra mondiale, non poté essere eseguito sino al 1958 in quanto lo Zar viene presentato potente con i Bojardi (per unificare la Russia, respingendo i tartari) ma umile di fronte a Dio – aspetto che Stalin non poteva gradire. Riccardo Muti ha guidato con energia i Wiener Philarmoniker, il coro dell’opera di Vienna e il coro di voci bianche di Salisburgo. Gérard Depardieu era lo Zar , tormentato da dubbi (ruolo ovviamente recitato non cantato). Olga Borodina e Ildar Abdrakazov sono i due protagonisti vocali. Magnifico il suono di orchestra e cori. Sontuose le voci. L’oratorio viene replicato tre volte. Alla prima, la mattina di Ferragosto, il pubblico è esploso in una lunga “standing ovation”- tutti insieme ad applaudire. Ci si augura che l’iniziativa venga ripresa in Italia, anche a ragione del ruolo che Muti assumerà al Teatro dell’Opera di Roma.
Anche “Lulu” è un apologo morale, nonostante la scabrosità di situazioni e scene. Berg la lasciò incompleta; viene presentata la versione in cui il terzo atto è orchestrato da Friederich Cerha (come lo scorso aprile alla Scala) . Si articola su una serie di base (si bemolle, re, mi bemolle, do, fa, mi , fa diesis, le, sol diesis, do diesis, si) dalle quali Berg fa derivare altre forme associate ai singoli personaggi, come nei leit motive wagneriani. Nella complessa trama, che spazia tra Germania, Francia e Gran Bretagna degli anni Trenta, Lulu, pur restando interiormente innocente, è una divoratrice di uomini e pure assassina; con la propria ambiguità, rispecchia una società priva di valori, giunta al collasso finanziario, politico e morale. In tale contesto di questo collasso muove i primi passi in un circo (dove è una starlette), ascende ai piani alti della società e finisce nelle mani di Jack lo squartatore. Lo spettacolo è coprodotto dai teatri di Ginevra e Barcellona (dove si vedrà in autunno). La regia di Vera Nemirova, le scene di Daniel Richter e i costumi di Klaus Novack riproducono il clima dell’epoca e regalano quattro ore di teatro in musica modernissimo e di grande livello. Di rilievo la direzione artistica di March Albrecht: i Wiener Philarmoniker coniugano dodecafonia con sinfonismo e con richiami a forme musicali “chiuse” anche antiche, senza mai sovrastare le voci e permettendo di apprezzare ogni sfumatura del testo. Nel cast – 15 solisti per oltre 30 ruoli- spicca Patricia Petibon

LA TARTARUGA E LA LEPRE Avvenire 17 agosto

Giuseppe Pennisi
Il sorpasso era annunciato da anni. Già nel 1998, ad esempio, Jeffrey Williamson lo aveva anticipato in un saggio intitolato “Transizione demografica e miracoli economici nell’Asia emergente”. La crescita della popolazione attiva, e quindi della forza lavoro, è infatti una delle determinati principali del motore del Pil. Previsto ma non nei termini in cui si è verificato l’andamento del Giappone: si pensava ad una rallentamento non ad un vero e proprio letargo in un arcipelago di 130 milioni di persone (336 per chilometro quadrato, montagne ed acque comprese).
La demografia è stata una delle cause . Nel 1989, la popolazione giapponese con più di 65 anni alle spalle era il 12% del totale; è diventata il 22% nel 2007 e supererà il 25% nel 2030. Nonostante i tentativi di favorire un “invecchiamento attivo” , ciò ha riflessi sulla spesa pubblica (e privata) per pensioni e sanità e comporta un ristagno della produttività.
L’altra causa principale a che vedere con la politica economica. Sia interna sia internazionale. Sotto il profilo interno, il “miracolo economico” giapponese, al pari di quello italiano e tedesco, si fondava su risorse umane non utilizzate o mal utilizzate negli delle guerra mondiale ed in quelli ad essa immediatamente precedente: questa risorsa è progressivamente venuta meno perché dagli Anni 80 il sistema d’istruzione e di formazione non si modernizza. L’altra leva era l’export, pure grazie ad un tasso di cambio volutamente sotto prezzato. Gli “accordi del Plaza” del 1985 hanno comportato un riallineamento dello yen e, quindi, smorzato e progressivamente eliminato questo motore della crescita nipponica.
LA LEPRE
Giuseppe Pennisi
All’inizio degli Anni Settanta, l’allora Ministro degli Esteri francese Alain Peyrefitte pubblicò un voluminoso saggio prendendo come titolo una frase di Napoleone Bonaparte “Quand la Chine s’évelliera, le monde tremblerà” (“Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà). La Cina si è svegliata con le “quattro liberalizzazioni” della seconda metà degli Anni Ottanta. Anche se – amava ricordare il maggior esperto al mondo di queste materie, il compianto Angus Maddison- la contabilità economica nazionale cinese è sospetta , la crescita del pil del 10,3% negli ultimi 12 mesi (dopo che, nel triennio della crisi mondiale era diminuita dal 9,9% all’8,7% l’anno) suggerisce che il nuovo Impero sta galoppando e con i suoi 1,3 miliardi di persone arriverà tra due-tre anni ad un Pil analogo a quello degli Stati Uniti. La produttività che in Europa ristagna (ed in Italia diminuisce) è cresciuta, secondo i dati ufficiali, del 17% l’anno dal 1995 al 2002 e da allora ad un più modesto 8,7% l’anno. Un miracolo economico che ha ancora una volta al suo centro l’avere reso, con una politica di liberalizzazioni (densa di iniquità), centinaia di milioni di lavoratori in precedenza non produttivi.
La galoppata continuerà? Gli esempi storici indicano che gli effetti di aver produttive risorse umane in precedenza non produttive si esauriscono in una o al massimo due generazioni. La Cina , poi, è disperatamente priva di risorse naturali (in primo luogo di acqua), ha una lingua scritta (che una minoranza decifra) ma ha almeno quattro famiglie di lingue parlate, ed una politica demografica il cui esito è che ci sono almeno 100 milioni di giovani uomini in età riproduttiva in più delle coetanee di genere femminile. Nessuno sa quante guerre e guerriglie sono in corso e quale è stato il destino degli 80 milioni di disoccupati nel settore industriali “rilocati” in campagna nel 2008-2009.