mercoledì 30 aprile 2014

UN CENTENARIO DA NON MANCARE in Formiche maggio



UN CENTENARIO DA NON MANCARE
Beckmesser

In questo mese di maggio si celebra un evento importante: la rinascita del dramma antico al Teatro Greco di Siracusa dove, dal 9 maggio al 22 giugno, saranno in scena le tre tragedie che comprendono l’Orestea di Eschilo (l’unica trilogia giuntaci integralmente) – Agamennone con la regia di Luca De Fusco, Coefore/Eumenidi con la regia di Daniele Salvo – e la commedia Le Vespe di Aristofane, una dura parodia contro la malagiustizia e la professione forense, con la regia di Mario Avogadro.  A questo cuore delle celebrazioni, si affiancano  altre attività:, una tournée dello spettacolo Verso Argo di Eva Cantarella, in cui si raccontano le premesse della trilogia di Eschilo (la caduta di Troia e la deportazione delle principesse troiane), una serie di spettacoli collaterali dal 22 al 31 maggio e dal 5 al 21 giugno, il 20esimo festival internazionale del teatro classico dei giovani dal 12 al 31 maggio, con la partecipazione di 75 scuole provenienti dall’Italia e dall’estero (tra cui già confermate Lituania, la Scuola Russa di Malta, Francia, Belgio e Grecia), e convegni (tra cui una lectio magistralis di Massimo Cacciari). In breve, un centenario da non mancare.
Il 16 aprile 1914, pochi mesi prima dello scoppio della Grande Guerre,iniziò il primo Ciclo di Spettacoli Classici nel Teatro Greco di con l’Agamennone di Eschilo. Paolo Orsi, archeologo e Sovrintendente all’Antichità, suggerì al Conte Mario Tommaso Gargallo, promotore dell’iniziativa, il nome di Ettore Romagnoli, che curò la traduzione dell’opera, la direzione artistica e la scelta delle musiche. Le scene furono realizzate da Duilio Cambellotti, i costumi da Bruno Puozzo e il primo manifesto da Leopoldo Metlikovic. Nel 1927 la commedia entrò a far parte – con la messa in scena delle Nuvole di Aristofane.
In effetti non era la prima volta che tragedie antiche (oppure drammi ed anche opere liriche di argomento classico) venivano riproposte in teatri antichi. C’erano stati esempi sporadici in Italia già nel Seicento. Una grande opera non sembra sia stata tentata però prima del 1874 quando nel teatro di Orange la Norma di Bellini è data con grande pompa; nel 1888, nello stesso teatro romano riappare l'Edipo Re di Sofocle, interpretato dal Mounet-Sully, cui seguono ben presto tragedie antiche e lavori di carattere classico, negli antichi teatri di Arles, Camplieu, Cartagine, nell'Arena di Nimes.In Italia una rinascita del teatro all'aperto, già vagheggiata da D'Annunzio nel 1898, si ha nel 1902 per iniziativa di Angiolo Orvieto e Augusto Franchetti, con l'Edipo Re, rappresentato nel teatro romano di Fiesole. Con questo spettacolo può dirsi che le rappresentazioni classiche nei teatri antichi trovarono un clima di singolare perfezione in Italia. Riprese due anni dopo a Fiesole con Le Baccanti di Euripide, tradotte da Ettore Romagnoli Solo con i Cicli inaugurati nel 1914 a Siracusa avvenne una ripresa sistematica e non sporadica del dramma antico riproposto nei luoghi e negli spazi dove è nato. Creato nel 1925 l'Istituto nazionale del dramma antico,  ora  promuove gli spettacoli siracusani, e attraverso il suo riordinamento del 1929 estende la sua iniziativa e coordina gli spettacoli classici all'aperto in tutta Italia (Paestum, Taormina, Agrigento, Pompei, Ostia, ecc.) e pubblica  nel bollettino Dioniso, gli studî sul teatro antico. Anche in Grecia (Atene, Delfi) da qualche anno si sono avute recite di dramma greco nel testo originale. Tuttavia , la pubblicistica internazionale riconosce solo a Siracusa di avere ‘fama mondiale’ e di presentare ‘ i capolavori del teatro ellenico con interpretazione che muove nei suoi elementi dallo spirito antico, ma non è fredda restituzione scientifica di elementi antichi’.Solo le guerre mondiali hanno interrotto il cammino della ‘rinascita’ della tragedia greca.

MAASTRICHT: URGE UN TAGLIANDO in Formiche maggio



MAASTRICHT: URGE UN TAGLIANDO
Giuseppe Pennisi

Quando uscirà questo articolo, si saprà se il Parlamento Europeo ha approvato il compromesso sul secondo pilastro di quella che dovrebbe essere l’unione bancaria europea faticosamente raggiunto tra numerosi soggetti a fine marzo. E sarà in corso una campagna elettorale europea in cui negli Stati dell’eurozona, numerosi partiti e candidati si presentano , in vario modi, ostili alla moneta unica e  chiedono in diversa misura cambiamenti delle regole che presiedono al suo funzionamento: dall’abolizione a modifiche profonde del Fiscal Compact a cambiamenti di dettaglio a questa o quella norma.
In questa rubrica, e nel quotidiano telematico a cui la rivista è associata, sosteniamo da mesi che, anche ove il secondo pilastro dell’unione bancaria venisse approvato, è urgente fare un tagliando complessivo al Trattato di Maastricht ad un quarto di secolo circa da quando lo si è negoziato. Soprattutto in quanto la situazione economia europea – prima ancora che mondiale – ha avuto un’evoluzione molto differente da quella concepita, nel 1990-91, dai ‘padri fondatori’ dell’unione monetaria. Allora si pensava che grazie alla clausole del Trattato si sarebbe andati non proprio verso l’area valutaria ottimale teorizzata da Robert Mundell ma verso una convergenza delle economie degli Stati aderenti all’euro. E’ sotto gli occhi di tutti, invece, una sempre più insidiosa divergenza con sempre più gravi risvolti economici, sociali e politici.
Da anni, in effetti, si sta riscrivendo il Trattato di Maastricht. Ma a pezzi e bocconi. Per tamponare questa o quella crisi e fare fronte ad emergenze , m senza una chiara idea , per utilizzare il linguaggio colloquiale, su dove si andrà a parare. Già nel 2005 , un ‘protocollo interpretativo’ allentò i vincoli, togliendo (allora) le castagne dal fuoco a Francia e Germania. Di fronte alla crisi della Repubblica Ellenica si reagì creando fondi ed istituzioni che sarebbero anatema in un’area valutaria ottimale in linea con il teorema per cui Mundell si meritò il Nobel per l’Economia. Oggi si sta creando un’unione bancaria con pilastri pendenti; si può solo augurare che abbiano le qualità della torre nella pisana Piazza dei Miracoli.
Occorre ricordarsi , in piena buona fede, che il Trattato di Maastricht è stato redatto frettolosamente, sotto la spinta delle conseguenze dell’unificazione tedesca sul resto d’Europa. È naturale , non solo  corretto, che le istituzioni e le norme “evolvano”. E che i ‘tagliandi’ sono utili alle norme come alle automobili. Senza un quadro di riferimento, c’è il pericolo che tra qualche anno l’eurozona assomigli al vestito d’Arlecchino – una serie di toppe multicolori , oggetto di infinite vertenze giuridiche sulla loro interpretazione ed applicazione.
 Tra poche settimane,  l’Italia presiederà gli organi di governo dell’Unione Europea (UE): perché non cogliere l’occasione non necessariamente di rinegoziare il Trattato di Maastricht ma di giungere ad un chiarimento su dove si vuole arrivare e come si vuole farlo? Soprattutto se prima di allora avremmo dato prova che stiamo rimettendo ordine a casa nostra.

lunedì 28 aprile 2014

Dallapiccola mette d’accordo Napolitano e Barroso in Formiche 28 aprile



Dallapiccola mette d’accordo Napolitano e Barroso

28 - 04 - 2014Giuseppe Pennisi
Dallapiccola mette d'accordo Napolitano e Barroso
Domenica 27 aprile, dopo la cerimonia della doppia canonizzazione, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (accompagnato dalla signora Clio) ed il Presidente della Commissione Europea Barroso sono andati al Parco della Musica ad ascoltare un concerto diretto da Antonio Pappano.
Li ha attirati soprattutto il tema del concerto: la libertà, letta tramite la scena della prigione di “Fidelio” e gli ultimi due movimenti della nona sinfonia di Beethoven ed il “Prigioniero” di Dallapiccola – grande capolavoro poco eseguito in Italia. Riservandomi di commentare altrove il concerto credo sia importante ricordare la figura e l’opera di Dallapiccola (ed il significato che essa ha) perché sul grande didatta e compositore è stata posta una coltre di oblio.
Luigi Dallapiccola (nella foto) è nato il 3 febbraio 1904 a Pisino (oggi Pazin), allora parte dell’Impero austro-ungarico. Figlio di un insegnante di lingue classiche diventato preside del locale “Realgymnasium”, imbevuto sin da giovane di cultura mittleuropea, ha potuto ascoltare a 13-14 anni, quando nel 1917 la sua famiglia era stata posta al confino a Graz quasi tutto Wagner, un bel po’ di Mozart e Weber. Una rappresentazione dell’”Olandese Volante” di Wagner lo convinse ad abbracciare la carriera di musicista. Nel dopoguerra, a Trieste, dove seguiva lezioni di pianoforte, apprese la teoria di Schönberg; la dodecafonia entrò nelle sue vene. Approdò a Firenze, che divenne la sua Patria di elezione, nel 1922. L’intenzione era di studiare al Conservatorio Cherubini per diventare pianista; nel 1924 ebbe l’opportunità di ascoltare “Pierrot Lunaire” diretto da Schönberg in persona; decise di diventare compositore. Divenne uno dei più importanti del secolo appena terminato.
Pure Renzo Cresti, notoriamente poco estimatore della musica del Novecento “storico” in quanto “appassionato della più stretta contemporaneità”, ricorda che “è stato “uno dei punti di riferimento dei musici fiorentini”. Dati i suoi frequenti soggiorni all’estero, soprattutto negli Stati Uniti sia negli Anni Trenta sia negli Anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe più corretto dire che è stato un punto di riferimento per tutta la musica contemporanea: in un libro del 1978, quindi solo pochi anni dopo la morte di Dallapiccola (19 febbraio 1975, a Firenze, in seguito ad un edema polmonare), il musicologo americano, Ethan Morden definisce l’atto unico “Il prigioniero” come “l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera moderna alla volta del mito”.
In occasione del centenario dalla nascita, era, doveroso che la Fondazione del Maggio Musicale lo celebrasse in grande stile, con nuovi allestimenti di due delle sue opere più significative “Volo di notte” e “Il prigioniero”, nonché chiamando uno dei maggiori direttori d’orchestra, Bruno Bartoletti (fiorentinissimo pure lui) specializzato nel repertorio del Novecento. Spulciando sul web, ci si accorge che per il centenario, la Radio Vaticana ha dedicato a Dallapiccola un ciclo di 13 trasmissioni e la Rai di 10; l’Accademia di Santa Cecilia ha eseguito l’oratorio scenico “Job”, l’Orchestra di Roma e del Lazio “la piccola serenata lunare”; il Teatro Massimo di Catania ha abbinato “Job” a “Il prigioniero”; a Città del Messico e a Buenos Aires è stato messo in scena un nuovo allestimento de “Il prigioniero” (opera spesso presente nei cartelloni di numerosi teatri, grandi e piccoli, della Germania e dell’Europa Centrale); a Cesena è stato messo in scena “Il Volo di notte” (coniugandolo con “Cavalleria Rusticana”); a Milano altra esecuzione, in forma di concerto, de “Il volo di notte”; le maggiori città tedesche ed alcuni grandi città americane hanno ospitato serate monografiche a musica di Dallapiccola; il conservatorio di Pisa ha organizzato un ciclo di nove conferenze ed una serie di concerti; alla Settimana Musicale Senese sono stati eseguiti “I canti di prigionia”. Per non citare che le iniziative più importanti. “Il prigioniero” – che io ricordi – è stato ripreso nel 2011 a Modena e Bologna con un’ottima direzione di Michele Mariotti.
Non è, quindi, mancata l’attenzione del mondo della musica, non solo italiana. Ci sono stati nei: a Roma si è fatto oggettivamente troppo poco, a Palermo è stato cancellato, quasi all’ultimo momento, il programma predisposto dal Massimo (in co-produzione con Catania, dove è invece andato in scena) e, soprattutto, nessun sovrintendente di teatri italiani ha trovato il coraggio di allestire il capolavoro ultimo, quell’Ulisse” a cui Dallapiccola ha lavorato per quasi metà della sua vita e con il quale voleva trasmettere il significato dell’esistenza per l’intellettuale che attraversa il Novecento, “il secolo breve”, secondo la definizione dello storico marxista Erich J. Hobsbawm. Il neo più significativo, però, è il fatto che non si sia utilizzato il centenario per una riflessione non solo tecnico-musicale ma sul ruolo di un intellettuale del valore e dell’importanza di Dallapiccola nella società italiana proprio in quel “secolo breve” ma non così distante.
Iniziamo con una riflessione a carattere editoriale. Si è fatto cenno al ruolo di Dallapiccola nello sviluppo della musica del Novecento a livello mondiale. In Italia, esiste una bibliografia, per così dire, nostrana, ad opera, però, principalmente di pochi autori (Fiamma Nicolodi, Sandro Perotti, Luigi Pestazzola, Giordano Montecchi, Sergio Sablich) pubblicata da case editrici universitarie; l’opera maggiore, e più diffusa, è quella di un tedesco, Dietrich Kämper. Se il panorama cartaceo è triste, quello discografico è tragico. Elvio Giudici, critico musicale de “Il Diario”, non cita neanche Dallapiccola nella monumentale (2000 pagine a stampa fitta) nuova edizione ampliata de “L’opera in cd e video”. Una ricerca di Giuseppe Rossi individua solo poche edizioni (prevalentemente in tedesco od in inglese) de “Il prigioniero”; l’unica trovabile (con difficoltà) in commercio in Italia è quella (molto diseguale) diretta da Esa-Pekka Salonen dieci anni fa per la radio svedese. Mi considero fortunato a possedere l’edizione (in italiano) curata nel 1975 da Antál Dorati (in LP poiché mai riversata in CD) ed ho per puro caso trovato in un negozio di dischi di Washington in via di dismissione il CD di un’edizione di “Ulisse” diretta da Ernest Bour (e con Claudio Desideri come protagonista) in occasione di una trasmissione radiofonica in Francia. Come mai le case discografiche – neanche quelle di punta come Dynamic o Bongiovanni – ha mai pensato di registrare “Volo di notte”, pur riconosciuto come una svolta capitale del teatro in musica del Novecento?
Per comprenderlo, occorre scavare in Dallapiccola e nell’accezione che il “secolo breve” assunse in Italia – fine dello stato liberale nel primo dopoguerra, fascismo, seconda guerra mondiale, bipartitismo imperfetto all’insegna del fattore “K”, terrorismo. Dallapiccola – si pensi – nacque mentre sonavano i rintocchi del requiem per un Impero defunto e morì nel bel mezzo della notte della Repubblica. Istriano, imbevuto di cultura dodecafonica non ebbe difficoltà a prendere decisamente posizione tra le due scuole che – come narra efficacemente Stefano Biguzzi – si contendevano l’attenzione del Capo del Governo (che, in effetti, guidava in proprio la politica musicale entrandone anche nei dettagli): quella dei tradizionalisti (guidata da un Mascagni, ex-socialista come Mussolini, ma con una vocazione inarrestabile al carrierismo) e quella dell’avanguardia (Casella, Malipiero, Rota, Alfano, Castelnuovo Tedesco).
Dallapiccola aderì anima e corpo alla seconda e fu, nonostante la giovane età, tra gli animatori dei festival internazionali di musica contemporanea di Venezia – il primo tenuto nel settembre 1930 e gli altri a cadenza biennale sino al 1942 – con il quale il fascismo intendeva offrire una controproposta a Salisburgo. Attorno alle biennali, riuscì a raccogliere il meglio della musica contemporanea dell’epoca (in primo luogo Stravinskij che stabilì un’amicizia forte e personale con Mussolini sino a seconda guerra mondiale ben inoltrata; tra gli altri, Milhaud, Gershwin, Prokofiev, Honneger, De Falla, Walton, Bartók, Krenek, Hindemith, Bloch, Scherchen, Berg – quindi anche molti di in Germania al bando in quanto “degenerati”).
Aveva vinto la cattedra di pianoforte al Conservatorio “Cherubini” di Firenze, ma furono le sue attività per la musica d’avanguardia (seguita da Palazzo Venezia con un’attenzione molto maggiore di quella che riceveva al MinCulPop) a farlo nominare “per chiara fama” titolare della cattedra di composizione: aveva acquisito reputazione internazionale con “Partita” e con “I cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane”. Tenne la cattedra molto poco; avendo sposato nel 1938, Laura Luzzato (ebrea), la cui collaborazione incise non poco per tutta la sua vita (specialmente nella scelta dei testi letterari), si dimise all’emanazioni delle leggi razziali per tornare, sempre al “Cherubini”, a insegnare pianoforte.
Una rottura con il fascismo? Stava scrivendo e componendo “Volo di notte”, costruita proprio su alcuni punti forti di quella che allora veniva chiamata la “dottrina del fascismo”. Dopo qualche tempo, mentre proprio a Firenze imperversava la seconda guerra mondiale, lavorava a “Il prigioniero” – vietato, sino a tempi recenti, in molti Paesi dell’Europa centrale ed orientale. Il nesso tra le due opere è una frase di Nietzsche che Dallapiccola amava ripetere: “E se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”.
Nel “Volo” si specchia nell’abisso Rivière, manager di una compagnia aerea ed ideatore di un programma innovativo di traversate notturne per portare il corriere da una parte all’altra dell’America Latina, nonché dall’Argentina all’Europa; la forza dell’idea deve vincere sulla debolezza umana ed i suoi tentennamenti, perché “solo l’avvenimento in cammino ha importanza”. Ne “Il prigioniero” è il protagonista a specchiarsi nell’abisso: la voce suadente del suo carceriere gli infligge l’ultima tortura – la speranza della liberazione – prima di consegnarlo al Grande Inquisitore ed al rogo.
Curioso destino quello dell’accoglienza delle due opere di Dallapiccola. Nel 1940, “Volo” venne considerata come un’opera fascista (un pò per il tema ma soprattutto per l’ardita struttura musicale in cui dodecafonia si fondeva con tradizione). Anche se “Il Popolo d’Italia” trovò che la partitura poteva interessare solo “certe minoranze intellettuali” e che il tema non era tale da “tonificare i nervi ed animare l’entusiamo dei nostri aviatori”, ne “Il Lavoro” si sottolineò che l’opera mostra “fede, forza e preparazione per agitare in avanti la fiaccola della giovane musica italiana del tempo di Mussolini”. Nonostante la sua esecuzione in Germania venne subito vietata dalla Reichsdramaturgie, il Capo del Governo in persona volle che “Volo” venisse rappresentato al Teatro Reale dell’Opera Roma nel 1942, quasi a ridosso del “Wozzeck” di Alban Berg – altro lavoro all’indice nel Reich.
Nel 1950, “Il prigioniero” venne accusata di anti-comunismo viscerale (sono evidenti i nessi con Koestler, Sirone ed i lavori “dissidenti” di Sartre), nonché di essere “un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio più educato e più svelto riuscirebbe a districare” (così scrisse “L’Unità”). Da allora, si sono avuti una diecina di allestimenti di “Volo” in Italia (non ho contezza di quelli all’estero) ed una settantina di produzioni de “Il prigioniero” nel mondo (frequentissimi, dalla fine degli Anni Ottanta quelli in Europa centrale ed orientale).
In “Volo di notte”, tratto dall’omonimo romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, l’abisso ed il suo specchio sono in un interrogativo: si può mettere a repentaglio la vita umana unicamente per un progetto (nel caso di innovazione tecnologica e commerciale)? I 23 capitoli del romanzo snodano una vicenda complessa che nell’arco di una sola notte si svolge in vari Paesi andini. Dallapiccola la sintetizza in sei scene con rigorosa unità di tempo e di luogo e sceglie una chiave precisa di lettura (molto forte se posta nel contesto del 1938-39 quando venne scritta e composta): la forza dell’idea sulla debolezza umana e sui suoi tentennamenti. Pure “Il prigioniero” nasce da un racconto, di Villiers de l’Isle-Adam. Il libretto venne scritto nel 1942-44, la “prima” si ebbe al “Comunale” nel 1950. Un prologo ed un atto i cui protagonisti sono stereotipi archetipi (la madre, il prigioniero, il carceriere, il grande inquisitore, i sacerdoti, il frate) è ambientato nella Spagna della Controriforma: l’”abisso” è nella speranza di liberazione, ultima tortura prima dell’esecuzione.
Un rimpianto. Perché Firenze – o un’altra grande fondazione lirica italiana – non ha colto l’occasione per mettere in scena il capolavoro ultimo di Dallapiccola, quell’”Ulisse” (un prologo e due atti), rappresentato a Berlino (in tedesco) nel 1968 (dirigeva Lorin Maazel)? In Italia ci sono state solo tre rappresentazioni sceniche (a fronte delle 25 de “Il prigioniero”) di cui l’ultima nel lontano 1986, a Torino. “Ulisse” è l’approdo sia musicale sia filosofico di Dallapiccola. La dodecafonia si dissolve in lirica sublime. Al termine del viaggio alla ricerca del significato dell’esistenza, Ulisse non guarda più nell’abisso, ma scoperto “l’Essere superiore” può dire:”non più soli sono il mio cuore ed il mare”.
Ecco alcune foto dell’evento
RM__0150
RM__0101
RM__0127
RM__0123


Chi sono gli amici dello Spesometro in Formiche del 28 aprile



Chi sono gli amici dello Spesometro
28 - 04 - 2014Giuseppe Pennisi Chi sono gli amici dello Spesometro
Entra nella galassia dei diritto tributario italiano un nuovo strumento: lo spesometro. Già il nome fa paura: ricorda i film horror giapponesi o coreani, dove pullulano le camere e gli strumenti di tortura. Sappiamo a chi non va giù: a tutti coloro (il 90% degli italiani) che si troveranno a dovere compilare moduli telematici che finiranno in un “cervellone” per decifrare il quale si dovrà fare appello alla Spectre dei film di James Bond o mettere su un apparato burocratico da Unione Sovietica.
Chiediamoci chi sono gli amici dello spesometro. In primo luogo, coloro che lo hanno invitato. Gratta gratta, si scopre che sono la stessa squadra che negli Anni Novanta ha inventato la DIT (Dual Income Tax) ed in tempi più recenti si è occupata di tassazione sull’edilizia. Passano allegramente da flop a flop, promuovendosi a vicenda e senza curarsi del resto degli italiani. That is the world, come scrisse nell’incipit del suo capolavoro (A Bend in the River) il premio Nobel Naipul.
Altri amici sono gli evasori di professione, specialmente i grandi evasori: quanto più si complica il sistema tanto più si amplia l’area delle transazioni non ufficiali (magari inventandosi unità di transazione come i bitcoin) e tanto più è facile sfuggire al fisco e farla in barba agli inventori dello speso metro.
Non occorre essere esperti di scienza delle finanze. Manzoni ne I Promessi Sposi lo descrive con accuratezza. Da un lato, la Lombardia governata dagli spagnoli con miriadi di norme e ‘grida’ per assicurare che tutti si comportino bene: abbondano i Don Rodrigo, i Conte Zio, le Monache di Monza e tanti altri trasgressori. Non solo ma l’Himalaya di norme porta alla carestia ed alle lotte per un pezzo di pane e quando si scatena un’epidemia i governanti hanno la geniale idea di mettere malati e a rischio di contagio tra quattro mura (il Lazzaretto) così che si giunge a pandemia. Dall’altra parte dell’Adda, dove si è rifugiato Renzo, il quadro è ben diverso: poche norme, ma condivise, forte controllo sociale non burocratico o poliziesco: le attività produttive prosperano, il grado di osservanza fiscale è elevato, la salute della popolazione buona.
Non voglio dire che quella parte degli amici dello spesometro che ha inventato lo strumento non abbia ottime intenzioni. Le ha probabilmente avute anche a riguardo della DIT e della tassazione edilizia. Senza escogitare rimedi controproducenti, basterebbe imitare il sistema americano di contrapposizione di interessi nelle transazioni: ampie deduzioni giustificate da prova di pagamento.
Che suggerire che facciano dopo il fallimento prossimo venturo? Tornino al liceo, a studiare I Promessi Sposi. Oppure vengano inviati, dalla Cooperazione allo Sviluppo, per alcuni anni nel Sudan del Sud. Di guai lì che ne sono già tanti che potranno fare poco male aggiuntivo.