mercoledì 31 luglio 2013

Privatizzazioni, tre domande al confuso governo Letta in Formiche del 31 luglio



Privatizzazioni, tre domande al confuso governo Letta
31 - 07 - 2013Giuseppe Pennisi Privatizzazioni, tre domande al confuso governo Letta
Pare stia per giungere una nouvelle vague – nuova ondata – di privatizzazioni. Ne arrivano già spifferi e sussurri dai palazzi del governo, unitamente a qualche grido da quella parte dell’opposizione che ha sempre considerato de-nazionalizzare un sinonimo di svendere.
Da dodici anni ho il compito di scrivere il capitolo sulle privatizzazioni del rapporto annuale dell’associazione Società Libera. Nella prima puntata, è stato necessario ricostruire le vicende degli Anni Ottanta e Novanta in questa materia. Nell’ultima, si sono esaminate le privatizzazioni “parlate” ossia solo “cincischiate” nel 2012. Non è stata neanche pubblicata la Relazione annuale sulle privatizzazioni del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) al Parlamento, un atto amministrativo dovuto; l’ultima risale al settembre 2011. Occorre dire che il Parlamento non se ne è preoccupato più di tanto: non si registra una sola interrogazione in materia.
Secondo informazioni di stampa, nell’anno e mezzo in cui l’Italia ha avuto un governo “tecnico”, che pur ha proposto un programma di dismissione graduale del patrimonio immobiliare pubblico, una sola privatizzazione è stata “decretata”: quella dell’Unione nazionale degli ufficiali in congedo d’Italia (Unici) con 35mila iscritti ed una manciata di dipendenti (che si occupano principalmente di attività turistiche e sportive dei soci del sodalizio).
Tuttavia, il pertinente decreto non è stato convertito in legge in quanto giunto in Parlamento il 21 gennaio, a Camere ormai sciolte. Sempre secondo la stampa, ci sarebbero stati ritardi perché non sarebbe stato facile collocare nelle pubbliche amministrazioni tre dei quindici dipendenti dell’ente, ed avere, quindi, l’assenso dei sindacati. Quindi, si è aggiunta anche la beffa e la “privatizzata” Unici è rimasta tale e quale come era prima della denazionalizzazione; basta consultarne il sito per essere edotti sulle sue attività, principalmente ludiche.
Se nel 2013 si vuole effettuare un svolta e riprendere il percorso delle privatizzazioni, occorre rispondere a tre domande:
Perché privatizzare?
Ossia qual è l’obiettivo o meglio la “funzione obiettivo” (il peso dei vari obiettivi) nella politica delle privatizzazioni: fare cassa per ridurre disavanzo e debito pubblico? Migliorare l’efficienza del comparto o di alcune maggiori imprese? Ridurre il perimetro del settore pubblico in modo che governo e Parlamento concentrino meglio le loro energie su alcune specifiche materie di interesse collettivo? Scorrendo a ritroso gli ultimi venticinque anni, ci si accorge che a queste domande ed ad altre dello stesso tenore solamente nel Documento di Programmazione Economica e Finanziaria del 2004, alle pagine 37-39, si tenta di dare una, pur incompleta, risposta. Da allora, pare che nessuno, a livello di governo dell’economia, si sia più posto la domanda.
Se nel contesto attuale, semplifichiamo all’osso la “funzione obiettivo” sostenendo che l’unico scopo delle privatizzazioni è ridurre di qualche punto lo stock di debito pubblico, basta prendere l’e-book sul sito Cnel dal giugno 2012 o il rapporto della Fondazione Astrid di qualche settimana dopo per trovare un menu contenutistico e procedurale.
Cosa privatizzare?
Paradossalmente, sotto il controllo della pubblica amministrazione centrale, è rimasto ben poco che possa essere privatizzato in tempi brevi. Sempre che non ci si rivolga a settori sino ad ora ritenuti “strategici” (energia, armi, ferrovie, poste) controllati dallo Stato. Se si rimuove questa obiezione, occorre riflettere accuratamente sull’interessante modello “tripolare” suggerito da Alberto Quadrio Curzio (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Cassa Depositi e Prestiti, mercato) che sta dando prova in attività come il “fondo strategico italiano”.
La vera polpa non è nell’immenso patrimonio immobiliare dello Stato: a titolo di esempio, si pensi che da dieci anni (ossia da prima dell’inizio della crisi del settore immobiliare), il Maggio Musicale Fiorentino (sull’orlo del fallimento) sta tentando di vedere il Teatro Comunale nel centralissimo Corso Italia, ma non trova acquirenti né per farne un albergo né per ricavarne appartamenti a ragione – pare – di un vincolo “artistico” sulla facciata (che personalmente considero abbastanza brutta). La “ciccia” è nel “capitalismo municipale” che ho analizzato alcuni anni fa in un saggio pubblicato sul quadrimestrale Amministrazione Civile. Ma si tratta di campo precluso, in via costituzionale, alle attività dello Stato centrale.
Come privatizzare?
Negli Anni Novanta il confronto era tra due “scuole”: quella della public company, ad azionariato diffuso, e quella del nocciolo duro, ossia puntando su “patti di sindacato”. Oggi siamo in piena confusione delle lingue. Il modello “tripolare” può essere utile per il “come”. In numerosi casi (specialmente per immobili) sarebbe preferibile ricorrere ad “aste”, ma pochi (anche alla Consip) sembrano avere dimestichezza con “le aste alla Vickrey” (dal nome del premio Nobel che le ha teorizzate), le uniche a garantire efficienza (ed evitare) inghippi.
Nel primo atto de Il Flauto Magico di Mozart, una volta liberato dalla mordacchia postagli dalle “tre donne” perché parlava troppo, Papageno pone tre domande (a se stesso ed agli altri): chi sono?, cosa faccio?, dove vado?
Sono in un certo senso quelle che devono porsi coloro che non vogliono solo parlare di “privatizzazioni” al caffè. Sono anche quelle che ogni mattina dovrebbe porsi ciascuno di noi.

martedì 30 luglio 2013

Puccini e Rossini rendono, Verdi e Donizetti molto meno in Il Sussidiario 31 luglio



OPERA/ Festival: Puccini e Rossini rendono, Verdi e Donizetti molto meno
mercoledì 31 luglio 2013
OPERA/ Festival: Puccini e Rossini rendono, Verdi e Donizetti molto meno
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In estate, si svolgono due grandi festival monografici di teatro in musica: quelli dedicati a Puccini (59sima edizione dal 12 luglio al 23 agosto, con opere nei fine settimana unitamente a spettacoli musicali di balletto, concerti ed anche pop) e a Rossini (10-23 agosto). In autunno, hanno luogo quelli dedicati a Verdi e Donizetti. I primi due sono stati riconosciuti di rilievo internazionale e, a tal fine, ricevono un contributo speciale dallo Stato.
Rendono? Il Festival Pucciniano di Torre del Lago ha commissionato Simulation Intelligence di Milano a  una valutazione delle manifestazioni effettuate nel 2008 in occasione dei 150 anni dalla nascita del compositore e la aggiorna periodicamente nei propri bilanci sociali. Non è una analisi dei costi e dei benefici economici della manifestazione in senso stretto; ha analizzato le caratteristiche, le motivazioni di partecipazione, il grado di soddisfazione del pubblico  e l’impatto della manifestazione sul territorio. In breve, gli effetti di “marketing territoriale”, un elemento importante per le decisioni di enti locali e sponsor, oltre che del Mibac (il Ministero dei Beni Ambientali e Culturali). 
Il ritratto che ne emerge  è quello di un prodotto di eccellenza ben conosciuto ed apprezzato per la proposta artistica e la qualità degli allestimenti: l’84% del pubblico è soddisfatto del Festival  e considera la qualità artistica e gli allestimenti uno dei punti di forza della proposta culturale della manifestazione. Molto buono il giudizio sui servizi (personale, biglietteria, informazioni) mentre parcheggi, raggiungibilità del teatro e bookstore rappresentano gli aspetti da migliorare. L’89% degli abitanti del territorio conosce il Festival e il 91% lo considera un importante veicolo di promozione per il territorio. L’impatto della manifestazione sul territorio è stato analizzato attraverso una indagine telefonica, 200 persone di cui 100 residenti a  Viareggio: 50 abitanti a Torre del Lago e 50 abitanti a Viareggio e 100 residenti nella provincia di Lucca l’89 % degli intervistati ha dichiarato di conoscere il Festival Puccini e di questi il 93% di essere in grado di descriverne le sue attività, con una buona conoscenza dei titoli in cartellone per la stagione in corso; il 90% ha risposto di ritenere il Festival Puccini una manifestazione di importante tradizione  e da valorizzare  perché di forte attrazione turistica. 
L’indagine sugli spettatori è stata effettuata attraverso la distribuzione di  un questionario  in 4  lingue: italiano, francese, inglese e tedesco ed è stato compilato da 924 spettatori di questi l’81% in italiano, il 10% in inglese il 5% in tedesco e il 4% in francese. 
Gli spettatori sono più donne che uomini, il 54% ha più di 55 anni, ma ben l’8% ha meno di 24 anni; provengono dalla Toscana e da altre regioni italiane, soprattutto nord est e nord ovest e ben il 21%sono stranieri  Il 60 % del pubblico del festival è composto da spettatori fedelizzati (lo frequentano da più di 10 edizioni) con una elevata percentuale di nuovo pubblico. L’84% degli spettatori intervistati esprime un giudizio positivo sul Festival, un elevato gradimento al cui giudizio concorrono in via prioritaria la qualità artistica e degli allestimenti veri e propri punti di forza del Festival Puccini di Torre del Lago. 
L’indagine non è esaustiva ma rappresenta un buon punto d’inizio a cui altre manifestazioni – nell’estate 2008 c’erano in Italia ben 35 festival di musica lirica- in un momento in cui la competizione per accesso a fondi pubblici e privati è serrata. Ed il “marketing territoriale” è elemento importante di giudizio per enti pubblici ed imprese a supporto, o meno, della manifestazione. La Tosca che ha debuttato il 26 luglio, possibile grazie al supporto del territorio (dopo una fase di difficoltà) , segna una svolta importante di una rassegna che due anni fa aveva perso quasi tutto il finanziamento pubblico, ma era riuscita a vivere importando produzioni dalla Cina e dal Giappone, dove ha un grande prestigio. La svolta è soprattutto organizzativa: sulla scia di Aix-en-Provence e Salisburgo, nella convinzione che solo cooperando si riesce a dividere i costi, la Tosca di Torre del Lago è una grande co-produzione internazionale, in cui hanno messo insieme le proprie risorse la Fondazione Puccini, il Palau de les Arts Reina Sofia di Valencia, l’Opéra di Montecarlo, il Teatro Regio di Torino e il nuovo lirico di Tianjin in Cina. La formula delle grandi co-produzioni  è l’unica strada per far sopravvivere quel teatro in musica che richiede grandi organici.
L’opera in scena a Torre del Lago è affidata alla regia del monegasco Jean-Louis Grinda che propone una visione colossal di una Roma barocca, sensuale e perversa, con una ricostruzione dei luoghi effettuata con pochi elementi corredati da scene dipinte e diapositive. È fedele al libretto e “tradizionale” nel migliore degli accenti che ha questo aggettivo. Curatissima la recitazione, pensata per piacere al pubblico di vari Paesi. La bacchetta di Alberto Veronesi (specialista di questo repertorio) è puntuale, Marco Berti (Cavaradossi) è un tenore generoso con un timbro chiaro e una dizione perfetta; Norma Fantini è una Tosca passionale ed ostinata, da apprezzare soprattutto nelle mezze voci e nel fraseggio. Il giovane baritono Gabriele Viviani è un efficace Scarpia. 


Non c’è aria di crisi a Pesaro dove sta per iniziare la trentaquattresima edizione del Rossini Opera Festival (Rof): uno studio dell’Università di Bologna conclude che con una spesa (tra contributi pubblici e apporto di sponsor privati) di 6 milioni di euro si attivano 24 milioni di euro di ricavi, tenendo conto dell’indotto. Anche  ove i ricercatori dell’ateneo felsineo avessero esagerato del 100 per cento i ricavi, con 6 milioni di euro se ne porterebbero a casa almeno 12- un’operazione di fare invidia a finanzieri solidi e prudenti come Warren Buffet.
 Nell’arco di tre decenni, grazie Rossini, Pesaro è diventata la Bayreuth o la Salisburgo italiana: Le richieste di biglietti eccedono del 25-30 per cento i posti disponibili , tanto che si sta pensando di costruire (come a Bayreuth) liste d’attesa pluriennali- anche se la normativa e la prassi italiana richiedono di vendere un certo numero di posti di loggione il giorno della recita. Il Rof ha un pubblico fidelizzato (il 70 per cento ò straniero, il 30 percento  italiano, i marchigiani appena il dieci per cento del totale). Molto presente la stampa straniera: quest’anno è stato rifiutato a malincuore l’accredito ad alcune grandi testate giapponesi che lo avevano chiesto “tardi”, ossia a fine primavera. 
Eppure sono proprio i marchigiani i maggiori beneficiari del Festival. Non solamente occorre prenotare alberghi con un anno d’anticipo (senza avere la certezza di acquistare i biglietti) ed i ristoranti sono strapieni, ma l’alta moda, le cucine ed i mobili eleganti ed il lusso in generale sono diventati un abbinamento al Festival. Uno dei maggiori negozi d’abbigliamento della città (con l’esclusiva per le maggiori marche europee) ha dovuto aprire un’alta speciale per le melomani che dal Marrinsly di San Pietroburgo, dal Bolshoi di Mosca e dal Bunka Kaikan o dal New Theatre di Tokio si trasferiscono, con i portafogli pieni di libretti di assegni e carte di credito, nella città marchigiana per le due settimane del Festival. Alcuni compiono un vero e proprio tour che inizia allo Sferisterio di Macerata, prosegue a Pesaro (la tappa dove più si compra) e dopo una sosta a Verona arriva a Salisburgo. Attenzione, data la richiesta: i tour operator praticano spesso un mark up del 30 per cento circa sui prezzi di hotel e di biglietti.
Quest’anno, il Festival presenta tre opere del Rossini giovane  L’Italiana in Algeri, Guillaume Tell, e L’Occasione Fa il Ladro accanto ad una folta schiera di concerti (tra cui La Donna del Lago in versione da concerto e Il Viaggio a Reims con  i giovani dell’Accademia Rossiniana. Guillaume Tell è un’opera imponente co-prodotta con i teatri di Torino e di Bologna a cui forse si aggiungeranno grandi templi della lirica stranieri.
A confronto il Festival Verdi non è mai davvero decollato. Forse aveva ragione Gianandrea Gavazzeni (grande sostenitore della riscoperta di Rossini e del relativo festival: ‘Verdi viene celebrato ogni sera in tutti i continenti, quindi difficile comprendere cosa possa aggiungere un festival. Mai decollati anche quello donizettiano (poche recite a Bergamo). Per non parlare di quello belliniano , più volte tentato a Catania.
In breve, o si raggiunge un livello davvero internazionale. O non si emerge.


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Boccanegra sfida Boccanegra in Quotidiano Arte 31 luglio


mercoledì 31 luglio 2013
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Simon Boccanegra inaugurerà il Festival Verdi a Parma, al Teatro Regio della Città Ducale e la Stagione d’Opera 2013-2014 del Teatro Regio di Torino
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Boccanegra sfida Boccanegra
Giuseppe Pennisi
Una vera e propria sfida: martedì primo ottobre il melodramma verdiano Simon Boccanegra inaugurerà il "Festival Verdi" a Parma, al Teatro Regio della Città Ducale, e mercoledì 9 ottobre inaugurerà la Stagione d’Opera 2013-2014 del Teatro Regio di Torino.
Nessuno dei due allestimenti è nuovo: quello di Parma, a cura di Hugo de Ana, sì già visto nello stesso teatro nel 2004, mentre a Torino, l’opera va in scena nell’allestimento creato per il Regio nel 1979 – ripreso nel 1995 – da Sylvano Bussotti, artista poliedrico, pittore, poeta, romanziere, attore, scenografo, costumista, la cui attività teatrale intreccia da molti anni la composizione musicale alla regia, che di questo Simon Boccanegra ha curato ogni aspetto dell’allestimento: scene, costumi e regia.
Ho visto ambedue gli allestimenti: spartano ma efficace quello di De Ana, molto suggestivo quello di Bussotti che è stato presentato anche a Venezia e Bologna.
Il Festival Verdi – in serie difficoltà finanziarie – presenta anche una nuova produzione de I Masnadieri e un allestimento storico di Falstaff, unitamente ad alcuni concerti (di cui uno dedicato a Wagner in occasione del bicentenario dalla nascita).
A Torino Boccanegra sarà concertato dal direttore musicale del Regio Gianandrea Noseda che, confermando il suo forte legame con il Teatro, a novembre condurrà i complessi artistici del Regio durante la tournée giapponese. Bussotti nel tempo ha stabilito un rapporto di grande rispetto nei confronti delle opere: «quel che cerco di fare quando mi chiedono di mettere in scena un’opera del passato» raccontò in un’intervista a ridosso della “prima” del '95 «è di immergermi in maniera maniacale nel libretto e nella partitura. Forse la conoscenza musicale mi aiuta a sentire il libretto come fatto musicale. Non faccio mai violenza alle didascalie dei libretti d’opera: le raccomandazioni dell’autore vanno dilatate, rese significanti». E se nel 1995 considerava una sfida, se non un azzardo, riproporre lo spettacolo dopo sedici anni, oggi confida in un’intervista a Giorgio Rampone: «a distanza di tanto tempo, probabilmente lo è di meno. Naturalmente, le messe in scena sono un qualcosa di effimero, a differenza della materia musicale, che può non esserlo affatto. E questo è certo il caso di Simon Boccanegra, un’opera che non ha mai avuto bisogno di conferme. Capovolgendo i termini della questione, dopo tutti questi anni è come se ci si trovasse di fronte a qualcosa di nuovissimo». Dopo trentaquattro anni, il suggestivo spettacolo rivivrà nella ripresa di Vittorio Borrelli, «un professionista della scena eccezionale, che tutti i teatri invidiano al Regio», chiosa Bussotti.
In questa lettura del melodramma verdiano si sottolinea in modo suggestivo la presenza del mare. Tratto connotante dell’opera è «il colore, non ci sono dubbi – afferma Gianandrea Noseda – nessun altro titolo verdiano è scuro quanto Simon Boccanegra: nell’orchestrazione, nelle atmosfere, nel trattamento delle voci. Ricavare questa tinta, di forte valenza evocativa, diventa l’obiettivo principale del direttore d’orchestra». Per il ruolo di Simon Boccanegra, Verdi aveva previsto un interprete dalle grandi doti attoriali oltre che canore: il protagonista dell’inaugurazione del Regio sarà Ambrogio Maestri, baritono dalla grande personalità scenica e dall’interpretazione vocale autorevole, applaudito in tutto il mondo per i suoi personaggi verdiani. Maestri torna al Regio dopo il Simon Boccanegra del 2003 (allestimento di Graham Vick) e Un ballo in maschera del 2004.
Il soprano María José Siri torna al Teatro Regio nel ruolo della figlia del Doge dopo le sue appassionate interpretazioni di Tosca e di Maddalena (Andrea Chénier) le scorse stagioni.
Michele Pertusi, uno dei bassi italiani più esperti nei ruoli verdiani e rossiniani, sarà Jacopo Fiesco. Completano il cast: Roberto De Biasio (Gabriele Adorno), Alberto Mastromarino (Paolo Albiani) e Fabrizio Beggi (Pietro). Maestro del Coro è Claudio Fenoglio.
A Parma l’opera sarà concertata da Jader Bignamini, uno dei direttori più promettenti della nuova generazione. I protagonisti saranno Roberto Frontali, Giacomo Prestia, Carmela Remigio, Diego Torres, Marco Caria e Seung Pil Choi.
Boccanegra è, senza dubbio, una delle più belle opere di Verdi. Dopo un lungo periodo di oblio è stata rivalutata grazie alle interpretazioni di Gianandrea Gavazzeni e Claudio Abbado.
Occorre chiedersi se i teatri non potrebbero coordinare meglio la loro offerta. Anche in quanto Boccanegra, diretto da Riccardo Muti, ha inaugurato la stagione 2012-203 dell’Opera di Roma.





La frenata dei Brics: la fine di un'illusione in L'Indro del 30 luglio



La globalizzazione a macchia di leopardo

La frenata dei Brics

La fine di un'illusione

Giuseppe Pennisi

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In questo scorcio di estate 2013, grande preoccupazione si avverte  a proposito della ‘frenata’ in corso nel gruppo di Paesi chiamato Brics (Brasile, Russia, India, Cina). Il settimanale 'The Economist' ha dedicato al tema la copertina, l’editoriale ed un’inchiesta nel numero del 27 luglio-2 agosto. A mio avviso, si tratta della fine di un’illusione che molti avevano in appropriatamente nutrito. Andiamo con ordine.
Il ruolo dei Brics nella crisi in corso dal 2007. La teoria economica (in particolare quella elaborata da H. Minsky) aveva anticipato, con la teorizzazione della “grande moderazione”, che la fase di crescita relativamente contenuta dell’economia mondiale, bassa inflazione e bassi tassi d’interesse reali e monetari sarebbe sfociata in una nuova grande crisi, successiva a quelle degli anni '80 (America Latina , in particolare) e gli anni '90 (Russia, Brasile, Asia) e molto più vasta e profonda: avrebbe portato ad una crescita molto rapida di liquidità. Seguii lo stesso ragionamento - è antipatico citare sé stessi, ma lo faceva Rossini con grande frequenza -  in un breve saggio pubblicato nel 1999; nel 2004 individuai nei Brics (in articoli giornalistici) una delle componenti delle tensioni finanziarie già allora in atto. Questo punto è stato sviluppato magistralmente, ed in modo divulgativo, da Martin Wolf nel libro Fixing Global Finance, Forum on Constructive Capitalism. In breve, negli anni della “grande moderazione”, lo squilibrio dei conti con l’estero degli Usa ha avuto l’effetto di aumentare a dismisura i saldi attivi dei Paesi colpiti dalle crisi degli anni '90 (tra cui, in primo luogo, Brasile, Russia e Sud Est Asiatico). Il Brasile e la Russia, tra l’altro, sono stati molto abili nel gestire la loro politica economica internazionale utilizzando la strumentazione della “teoria delle opzioni reali”: un documento della Banca Mondiale e del Banco Interamericano per lo Sviluppo analizza, ad esempio, come il Brasile abbia impiegato con acume le strategia e le stesse equazioni proposte in A. Dixit e R.S. Pindyck Investment under Uncertainty , Princeton University Press e come ciò abbia messo a repentaglio l’Argentina. Tali saldi attivi sono stati in gran misura collocati in titoli americani, gonfiando la liquidità interna Usa e ponendosi tra le componenti principali della crisi subprime. E’ difficile fare congetture sugli effetti delle recenti decisioni della Banca popolare di Cina in materia di tasso di cambio dello yuan sui saldi e sulla liquidità (anche in quanto la Cina, come altri Paesi, ha di recente mutato strategia ed il proprio attivo viene in parte incanalato tramite un fondo sovrano, che partecipa al Long Term Investors Club, LTIC).
I Brics e la globalizzazione parziale. Il mondo è in una fase di “globalizzazione parziale” , analoga a quella del 1870-1914. Come allora, è una “globalizzazione a macchia di leopardo” promossa dalla tecnologia (allora, elettricità e trasporti; oggi, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione). Allora (ci sono analisi di livello, ad esempio di Jeffrey Williamson), ci fu l’ascesa di Paese feudali (Germania e Giappone) tramite l’industrializzazione tardiva ma accelerata. Anche allora la trasformazione della struttura economica non venne accompagnata da un analogo sviluppo istituzionale, come dimostrato da D.C. North nel libro "Istituzioni, Sviluppo Istituzionale, Andamento dell’Economia" (Il Mulino), che gli valse il Premio Nobel 1991. L’esito furono due guerre mondiali. North utilizza ampiamente la teoria dei giochi a più livelli ed i paradigmi dell’economia dei costi di transazione (R. Putman, F. Del Monte , F. Barca ed io stesso abbiamo utilizzato il metodo North per l’analisi dei problemi del Mezzogiorno d’Italia). Sulla Cina Amy Chua, dell’Università di Yale - ora americana ma d’ascendenza cinese - è giunta a conclusioni simili. Esistono monografie su Cina, Brasile e Russia che arrivano a risultati simili. Pur non disponendo di dati analoghi (e di una strumentazione econometrica) , credo che il nostro studio debba focalizzare su questo punto.
I Brics e la exit strategy dalla crisi Il G20 appena tenuto a Mosca è un’ulteriore dimostrazione che il ruolo dei Brics come motore per uscire dalla crisi non può essere che marginale a causa non solo del loro peso ancora limitato nell’economia mondiale ma soprattutto delle loro contraddizioni interne (ammesse dallo stesso Marcelo Neri, a lungo consigliere economico dell’allora Presidente del Brasile, Lula). Ai G20 , in breve, i Brics sono poco più che comprimari. Il dialogo è essenzialmente tra Usa e Ue e sul ruolo della seconda nel trainare fuori dalla crisi l’economia mondiale, nonostante, secondo le stime effettuata da Angus Maddison prima di morire, a parità di potere d’acquisto il Pil della Cina sfiorerebbe l’80% di quello degli Stati Uniti.
I Brics nel lungo termine dell’economia mondiale. Si entra in pure congetture: come ricordato in precedenza, per dare una assetto istituzionale “moderno” a Germania e Giappone è stata necessario il “secolo breve” con le sue due guerre mondiali. Le mie conoscenze dirette di Brasile, Russia e Cina mi inducono a ritenere che i problemi sono molto più complessi di quelli che dovettero affrontare Germania e Giappone all’inizio del XIX Secolo: al di fuori di pochi poli di sviluppo si è ancora ad economia, e società, primitive come quelle dell’Africa Sub-Sahariana; i processi decisionali sono quanto meno poco trasparenti; le funzioni di benessere sociale perseguite dalle classi dirigenti oscure e difficili da decifrare; la corruzione è diffusissima ed i costi di transazione ( blocco primario allo sviluppo) elevatissimi, le discriminazioni (principalmente razziali) sono fortissime. Inoltre, India e Cina hanno un serio vincolo al proprio sviluppo: la scarsa disponibilità di risorse idriche. La Cina, inoltre, è l’unico Paese al mondo con una lingua scritta ma non parlata – altro severo vincolo allo sviluppo. In materia c’’è molta letteratura. I nodo essenziale è la tecnologia, il vero motore, ancora una volta, della globalizzazione. Mentre nel 1870-1910, i Paesi di tarda industrializzazione svilupparono tecnologie “proprie” (siderurgia, chimica, impiantistica, strumentazione di precisione), i Brics perseguono una strategia di “efficienza adattiva” nell’adattare tecnologia altrui alla propria vasta disponibilità di lavoro ed ai propri bassi salari e bassa protezione sociale. E’ una strategia che ha limiti ben precisi come dimostrò Sir Arthur Lewis nell’articolo del 1954 che gli fruttò il Premio Nobel.
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