giovedì 31 marzo 2011

L'importanza del lungo termine Il Velino 31 marzo

ECO - L'importanza del lungo termine

Roma, 31 mar (Il Velino) - C’è un nesso più forte di quanto non sembri tra il bel saggio di Federico Eichberg e Angelo Mellone “Il domani appartiene al Noi” (Rubettino Editore) e il seminario a porte chiuse organizzato dalla Cassa Depositi e Prestiti e dalla Fondazione Astrid il 30 marzo sul finanziamento degli investimenti a lungo termine. Ambedue, con occhiali e prospettive differenti, guardano non al breve periodo (il “presentismo” del saggio di Eichberg e Mellone) ma a un arco di tempo che coinvolge necessariamente anche le generazioni future. È quanto ci sprona a fare la stessa Unione Europa (Ue) nel nuovo “patto per l’euro” pur se questo aspetto non è stato notato dalla stampa quotidiana d’informazione. Il “patto”, da un lato, contiene obiettivi vincolanti per il 2012-2015 in termini di rientro dall’indebitamento annuale e di riduzione dello stock di debito pubblico e propone, come è tecnicamente appropriato, “targets” – ossia traguardi specifici annuali. Da un altro, però, riguarda riforme a lungo termine: per le pensioni (al fine di renderle più eque per i giovani di oggi), per il mercato del lavoro (al fine di ridurre e se possibile eliminare barriere che ostacolano principalmente le nuove leve alla ricerca di un impiego), per il welfare (per non avere più lavoratori iper-tutelati accanto a lavoratori che non hanno alcuna protezione), per la famiglia (al fine di contenere il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione , il maggiore vincolo alla crescita nell’UE.
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Questa attenzione al lungo periodo, essenziale per le politiche, diventa indispensabile per gli investimenti in infrastruttura. Possiamo seriamente pensare a grandi rete europee se non teniamo conto che i costi graveranno inevitabilmente sulle generazioni attuali mentre i benefici saranno principalmente per quelle future. Ciò comporta una riflessione che in Italia, ed in numerosi Stati dell’UE, non si è fatta sui parametri di valutazione e sui criteri di scelta: quelli applicati ancora oggi sono stati costruiti trenta anni fa quando i problemi di politica economica riguardavano specialmente il breve e medio termine . Il loro aggiornamento ha un contenuto tecnico poiché si confrontano almeno due scuole di analisi economica. E’, però, un tecnicismo che ha pesanti implicazioni di politica economica. Dunque, come avvenne negli Anni Ottanta, sarebbe auspicabile che gli esiti del dibattito tecnico venissero portati al Cipe , o al Gabinetto (come è stato fatto negli Stati Uniti, dove si è anche prevista una discussione in Congresso).
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Spesso Governo e Parlamento, assillati dalle continue emergenze quotidiane, non danno a queste tematiche l’importanza che esse meritano, senza riflettere che – come afferma a tutto tondo il comunicato dei Capi di Stato e di Governo dell’UE al termine del vertice del 24-25 marzo – se la soluzione dei problemi di breve periodo non viene inserita in una prospettiva di lungo termine è, quasi sempre, destinata a fallire.

(Giuseppe Pennisi) 31 mar 2011 12:41



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mercoledì 30 marzo 2011

Riuscirà l’Italia a evitare la seconda "trappola" dell’euro in Il Sussidiario 31 marzo

FINANZA/ 2. Riuscirà l’Italia a evitare la seconda "trappola" dell’euro
Giuseppe Pennisi
giovedì 31 marzo 2011
Giulio Tremonti (Foto Imagoeconomica)
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Il senso che si trae dalla lettura dei resoconti dell’audizione del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giulio Tremonti, alla Commissione Bilancio della Camera è che non è certo giunto il momento del “riposo del guerriero”. L’espressione, tratta dal titolo di un romanzo francese di successo negli anni Sessanta, rende l’idea del quadro della situazione dell’Italia nel consesso europeo meglio delle consuete frasi sulle ricreazioni il cui tempo non è ancora arrivato.
In sostanza, Tremonti ha confermato quanto anticipato da ilsussidiario.net di ieri: un’attenta lettura del patto per l’euro dimostra a tutto tondo che non ci verranno fatti sconti per veri o supposti “fattori mitiganti”. Quindi, dobbiamo mettere in sesto la nostra finanza pubblica. Il “guerriero” è, in primo luogo, l’inquilino di Via Venti Settembre, ma in effetti lo siamo tutti noi. Tanto il rapporto indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni e Pil, quanto il rapporto stock di debito e Pil vanno drasticamente ridotti. Nei prossimi tre anni, il primo deve essere portato a meno del 3% e il secondo a meno del 90%.
Ci potrebbe essere concessa una dilazione (di uno-due anni), ma il quadro non cambia: di fronte a noi abbiamo un aggiustamento pari ad almeno quattro punti percentuali del Pil ogni anno, maggiore di quello effettuato nel 1992-1999 quando la posta in gioco era essere ammessi o meno nell’unione monetaria. Ciò è molto più importante di eventuali norme costituzionali sulla copertura finanziaria delle spese: abbiamo già l’articolo 81 della Costituzione che - lo prova l’esperienza - è stato interpretato in modi e maniere che ci hanno portato alla situazione attuale. Il nodo è come farlo.
Negli anni della strada verso l’euro - dal 1992 al 1999 - abbiamo fatto un aggiustamento di nove punti percentuali e mezzo del Pil; sette dal lato delle maggiori entrate e due e mezzo da quello delle minori spese (tagliando soprattutto quelle in conto capitale). I risultati li tocchiamo con mano: bassa crescita e guai ancora maggiori dopo alcuni anni dalla creazione dell’unione monetaria. Cercare di ripetere l’esperienza, cedendo alla tentazione delle varie proposte su addizionali delle imposte sul reddito delle persone e famiglie più abbienti, di imposte “sulla fortuna” alla francese, di patrimoniali secche, vorrebbe dire aggravare i problemi sul fronte della crescere, e forse scivolare in una nuova recessione, senza risolvere i nodi di fondo. Il guerriero e i suoi andrebbero in battaglia con una strategia perdente.
Le spending reviews degli anni 2006-2007 e le riduzioni lineari della spesa in atto dal 2008 hanno inciso in modo modesto. Potrebbe avere maggior mordente una programmazione per la razionalizzazione delle scelte di bilancio quale quello adottato in Francia nel 1983-87, ma non c’è né il tempo, né la qualità tecnica della pubblica amministrazione per farlo. Specialmente dopo l’effettivo smantellamento dell’Uval (Unità di valutazione tecnica della spesa) prima spostata dal ministero dell’Economia e delle Finanze a quello dello Sviluppo Economico e poi, pare, lasciata perire (dato che gli esperti a cui scadono i contratti non vengono né rinnovati, né sostituiti).
Il percorso principale, quindi, resta quello delle liberalizzazioni e privatizzazioni. Per privatizzare, però, occorre essere almeno in due: lo Stato che vende e qualcuno che acquista in toto o in parte. Ciò vuole dire non solo mettere in vendita bocconi appetibili, ma anche essere pronti a vendere non solo a italiani, ma anche a stranieri. A metà aprile, uscirà, nel “Decimo Rapporto sulla Liberalizzazione della Società Italiana” di Società Libera, un’analisi da cui si evince che mentre il capitale di acquirenti italiani sembra fare difetto non mancano fondi internazionali di “private equity” e fondi sovrani che potrebbero essere interessanti.
Ciò comporta, però, risolvere un dilemma proprio a casa nostra: non possiamo, da un lato, invitare lo straniero a investire nella denazionalizzazione di settori anche strategici e alzare barriere nei confronti di chi vuole comprarsi aziende di latticini. Per vincere, i guerrieri devono essere coerenti. Quando non si riposano. E pure quando si riposano.

martedì 29 marzo 2011

Un'altra Caporetto italiana si consuma in Europa in Il,Sussidiario del 30 marzo

FINANZA/ Un'altra Caporetto italiana si consuma in Europa
Giuseppe Pennisi
mercoledì 30 marzo 2011
Foto Imagoeconomica
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FINANZA/ Pelanda: ecco il "cappio" dell'Ue che strozza l’Italia
FINANZA/ C’è una banca americana pronta a fare crack, di M. Bottarelli
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Ogni leader ha il dovere di tenere alto il morale delle truppe. Tuttavia, questo dovere termina quando è ormai lapalissiano che occorre rimboccarsi le maniche e lavorare duro su un percorso differente da quello sinora seguito. Altrimenti, si fa la fine del Generale Luigi Cadorna, che all’inizio della dodicesima battaglia dell’Isonzo, nell’ottobre 1917, dichiarò che gli italiani stavano per toccare con mano la vittoria, mentre si era alla vigilia della disfatta di Caporetto. Oppure di quei comandati sia in uniforme, sia in camicia nera, che continuavano a intonare “Vinceremo in cielo, terra e mar”, dopo che gli alleati erano sbarcati in Sicilia.
Qualcosa di analogo, anche se grazie al Cielo, di proporzioni non così catastrofiche, pare stia avvenendo per il cosiddetto “patto euro plus” quale comunicato dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea la sera del 25 marzo. Purtroppo, i lettori di carta stampata non frequentano il sito Ue e molti giornalisti non ritengono utile sgobbare su documenti ufficiali (nel senso di leggerli con attenzione) e si bevono quanto riassunto loro da portavoce e uffici stampa. Si suggerisce comunque di leggere con attenzione il dossier predisposto dall’Ispi e diramato la sera del 28 marzo.
Il testo del “patto” è chiarissimo. Da un lato si applica non solamente all’area dell’euro, ma anche a Bulgaria, Danimarca, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania (stati che, pur non facendo parte dell’eurozona, lo hanno sottoscritto). Da un altro, non prevede procedure di “eccezione” alle regole del “patto di crescita e di stabilità” che intende rafforzare; al contrario, specifica che entro un lasso di tempo di tre anni occorre portare l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni al di sotto del 3% del Pil. Non viene specificato il termine entro cui ridurre lo stock di debito pubblico al 60% del Pil, ma il riferimento esplicito al “debt brake” (freno da debito) induce a pensare a un termine analogo perché lo stock di debito sia almeno al di sotto del 90% del Pil, rapporto oltre il quale - lo conferma una recente analisi econometrica (“Growth in time of Debt” di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff), presentata all’ultimo congresso scientifico dell’American Economic Association e non disputata da nessuno - lo stock di debito diventa un macigno sulla strada della crescita.
Non vengono previste sanzioni automatiche, ma il monitoraggio è affidato al più alto livello politico (il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue) sulla base, però, di un’analisi tecnica annuale preparata dalla Commissione. Non si parla di altri “fattori rilevanti” (risparmio privato, indebitamento sull’interno invece che sull’estero); da ciò si deve dedurre che la proposta dell’Italia ha fatto molta meno strada di quel che si dice. Vengono aggiunti altri indicatori a quelli di macro-economia e finanza pubblica: se possiamo dire che le riforme previdenziali effettuate dal 1995 potranno metterci in futuro (non ancora oggi) in posizione comparata relativamente buona su quel fronte, siamo molto distanti dal resto dell'Ue in tema di altri indicatori di competitività, ad esempio per quanto attiene il costo del lavoro per unità di prodotto e la contrattazione collettiva nazionale e la contrattazione nel pubblico impiego, che dovrebbe essere “mirata a promuovere la competitività del settore privato”. Lo siamo anche nel campo dell’“apertura di comparti protetti” (si pensi alla vicenda dei taxi a Roma), nonché in materia di qualità dell’istruzione e di sforzo per la ricerca e sviluppo.
È difficile, poi, vedere come riusciremo a ridurre l’imposizione tributaria sul fattore lavoro senza aggravare ulteriormente deficit e debito o come assicurare “la sostenibilità della spesa sanitaria”. Sono tutte misure che abbiamo sottoscritto: verremo valutati sulla base di traguardi annuali e del loro raggiungimento. A quel che si sa, il Piano nazionale per le riforme (in fase di aggiornamento e atteso dal Parlamento per il 10 aprile) non sfiora affatto questi temi.

Full of Irony 26 febbraio

Full of Irony
Shostakovich's 'The Nose',
reviewed by GIUSEPPE PENNISI

The Nose by Dmitri Shostakovich is performed less often than it should be, even though the forthcoming Metropolitan Opera House joint venture with the Aix-en-Provence Festival may provide a much needed revival outside the Russian Federation. As a matter of fact, after its initial triumph at a small secondary theatre in St Petersburg (by then named Leningrad) on 18 January 1930 and a short revival the following year, the opera had disappeared from the Russian scene until 1974 because of the difficulties Shostakovich had with Stalin and his entourage. It was staged, almost simultaneously in 1964, in Düsseldorf (in German) and in Florence (in Italian), both with considerable success.
But theatre managers considered it a daunting enterprise to produce because it has: a) twelve short scenes in three Acts (the opera lasts less than two hours), all in important and well known St Petersburg locations around 1880 (from the impressive huge Cathedral of Our Lady of Kazan to the Summer Garden, from Avenues to artisans' shops); b) a cast requiring at least thirty singers (the concertato in Scene 7 has twenty-one singers on stage) with the ability not only to master difficult vocal skills (melologue, polyphony and very high pitches) but also to act and to dance effectively; c) a score for a small chamber orchestra where on a basic Slavic approach, Shostakovich inserts jazz, atonality, and traditional instruments such as the domra, balalaika, and flexaton.
Finally, the plot; after a Gogol's short novel, it is the surrealist tale of a pompous military officer losing his own nose in the barber's shop -- it gets cut off merely by chance -- and searching desperately for it throughout St Petersburg. Meanwhile, the nose had disguised itself as a State Counselor. The search for the nose -- and the nose's attempt to have its own personality and its own life -- became a pretext for an abrasive satire of society. In the Cyrillic alphabet, if the letters spelling the word 'nose' are inverted, they became the word 'dream'; thus, satire could be an unreachable dream.

A scene from Shostakovich's 'The Nose' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
In short, The Nose is the reverse of Alban Berg's Wozzeck; musically, both of them are experimental and abrasive in their social critique, but while Berg is sad and gloomy, Shostakovich is airy, bold, full of irony and somewhat dreamy.

A scene from Shostakovich's 'The Nose' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Young Dmitri Shostakovich was an attractive twenty-four year old: a womanizer and a good drinker, but also a very serious supporter of the Communist Revolution. However, not only did the libretto and the score shock the critics -- the audience loved it! -- but the authorities were left with a reasonable doubt: did the satire apply to Czarist society or was it addressed to the Moscow bureaucracy? We should not forget that Leningrad was libertarian (especially in sexual matters), very open to international (viz German, French, Italian) influence, and rather outspoken, whereas in Moscow, the Stalinist regime was taking hold.

A scene from Shostakovich's 'The Nose' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
In 1974, after the collapse of Stalinism and one year before Dmitri Shostakovich's death, in a small two-hundred-seater movie house converted into a theatre, stage director Boris Pokrovskij, collaborating with set and costume designer Vladimir Talalaj and choreographer Lilija Talankina, demonstrated that a recently created music company (The Moscow Chamber Opera Theatre) could stage The Nose in high quality, with a small budget. Since then, this production of The Nose has been for Moscow almost what Agatha Christie's The Mousetrap has been for the last fifty-nine years in London's West End; it is always on stage either in the Russian capital or touring domestically or abroad. The Pokrovskij production has been several times on worldwide tours, especially in 2006 for the one hundredth anniversary of Dmitri Shostakovich's birth. Then, the company visited, in Italy, Turin for almost a week in the main opera house, and Rome for two evenings in a secondary theatre. Now the 1974 production of The Nose is in Parma and Reggio Emilia. I was at the opening night in Parma's glittering Teatro Regio on 23 February 2011.

Teatro Regio di Parma. Photo © Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Firstly, it is amazing how the production is still fresh and effective. With a few props, clever lighting and smashing costumes, we feel the atmosphere of all the ten different places where the swift action develops in the course of almost only one day. Especially impressive was the Cathedral scene: there are thirty singers -- the full company -- but you have the sense of a grandiose staging of the second Act of Aida. In short, Pokrovskij's production deserves to be studied, especially now that opera houses all over the world have tight budgets; it proves that with little means but a lot of brain and taste, good staging can be achieved, and that it can be adapted to small and large theatres and live happily for decades for the enjoyment of generations.

A scene from Shostakovich's 'The Nose' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Secondly, the small orchestra, conducted by Vladimir Agronskij, does really marvelously: its sound is sharp and round, and every single note can be appreciated in Parma's Teatro Regio, a much larger venue than the Moscow house where the company normally performs.

A scene from Shostakovich's 'The Nose' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Thirdly, the singers. The Nose requires team work by a versatile cast, a condition you have in repertory opera houses, not where the 'season system' is followed (such as in Italy, France, the UK, Spain, Portugal and, to a large extent, the USA). The cast is strong and has been working as a team for several years. There are just too many to be quote them all individually. The protagonist, Roman Bobrov, a very agile baritone, was excellent. Also remarkable in his very high range was the tenor Leonid Kaza Kov in the role of the nose. In the women's group, I especially appreciated Aleksandra Martynova, a soprano who has several roles in the opera.
The audience laughed and applauded.
Copyright © 26 February 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

DMITRI SHOSTAKOVICH
THE NOSE
TEATRO REGIO
PARMA
ITALY
SAINT PETERSBURG
RUSSIA
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Drama and Comedy Music and Vision 6 Febbraio

Drama and Comedy British humour under the Neapolitan sun, in 'L'Elisir d'Amore' in Rome and San Francisco, by GIUSEPPE PENNISI When, on 3 November 2010, I reviewed the Venice production of L'Elisir d'Amore, I thought it was useful to recall that several opera guidebooks treat this specific work by Gaetano Donizetti and Felice Romani as a comic opera or even an opera buffa on the grounds that, during the decades when Donizetti and his operas were nearly forgotten, L'Elisir never left the repertory because it is pure comedy with two hilarious characters (Dulcamara and Belcore) and a gentle young couple in love (even though, almost until the end, she pretends not to be interested in the fellow); also the orchestration seems to be comparatively easy, as it used to be in the opera buffa canon. Nonetheless, L'Elisir is called by its own authors a 'melodramma giocoso', which means an opera semiseria like Rossini's La Gazza Ladra, Paisiello's Nina Pazza per Amore, Mayr's Lodoiska or Bellini's La Sonnambula. It was a category of musical theatre very popular at the beginning of the nineteenth century. Donizetti composed several semiseria operas, eg Linda di Chamonix and Il Furioso nell'Isola di San Domingo. The genre pleased the audience during difficult times (wars, revolutions, social and political turmoil) because it combines drama with comic relief. It is a very hard balance to reach for all the stakeholders involved in staging L'Elisir because the dramatic and comic elements are carefully mixed, indeed intertwined.
Adriana Kucerová as Adina and Saimir Pirgu as Nemorino in 'L'Elisir d'Amore' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2011 Corrado Falsini. Click on the image for higher resolution I dare say that I was somewhat concerned when I learned that this brand new production of the Teatro dell'Opera di Roma (in a joint venture with the San Francisco Opera) had been entrusted to Ruggero Capuccio (stage direction), Nicola Rubertelli (stage sets) and Carlo Poggioli (costumes), not unfamiliar with opera staging but especially known for experimental and highly dramatic theatre (such as Shakespeare, King of Naples) or social-political theatre (Paolo Borsellino, essendo stato). I felt comfortably sure with the musical direction: Bruno Campanella is not only a Donizetti veteran -- our readers may remember the review of his recent conducting of Roberto Devereux in Rome -- but more specifically is highly professional in 'bel canto' and 'semiseria' operas, where the orchestra's primary function is to support the singers. This may appear to be simple but it is quite sophisticated, especially because of the need to deal with the temperamental prima donnas of that time.
Fabio Maria Capitanucci as Belcore and the chorus in 'L'Elisir d'Amore' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2011 Corrado Falsini. Click on the image for higher resolution Nonetheless, an important feature of L'Elisir seen and listened to in Rome on 4 February 2011 (the new production's opening night) is that both the musical and the stage direction keep the proper balance between drama and comedy required in a melodramma giocoso. However, it appears that Ruggero Cappuccio and his colleagues have moved the action from the a Basque village (as originally conceived) to a village around Naples with acrobats and jumpers, a very blue sky, a shining sun and a simple stage set that with a few props can show the different locations where the plot evolves. Because of his previous long work with Shakespeare, Cappuccio captures the irony of the libretto and of the music better than others, including his Venetian counterparts. There is indeed a British sense of humour under the Neapolitan sun from the very start: Belcore's cavatina, or entrance aria, Come Paride Vezzoso, acted and sung by Fabio Maria Capitanucci is a parody of the Metastasian opera seria still being performed, at that time, in several Italian theatres. There is also irony in presenting Adina (Adriana Kucerová) and Nemorino (Saimir Pirgu) as 'comédie larmoyante' stereotypes with their charming, and relatively easy, opening arias Quanto è bella and Chiedi all'Aura Lusinghiera and their more elaborate duet (Per guarir di tal pazzia / Ah! Te sola io vedo, io sento) before their progressive escalation to the two final heights -- Nemorino's terrific Una furtiva lacrima and Adina's short but very dense rondo Il mio rigor dimentica. As a matter of fact, among the characters, the only clear-cut buffo is the pompous Dulcamara (Alex Esposito) from his cavatina (when he is made up as a dwarf) to his final march (Prediletti dalle stelle). Obviously, Campanella's experienced conducting catches the nuances of the score better than the young Matteo Beltrami did a few months ago in Venice.
From left to right: Saimir Pirgu as Nemorino, Erika Pagan as Giannetta, Fabio Maria Capitanucci as Belcore and Adriana Kucerová as Adina in 'L'Elisir d'Amore' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2011 Corrado Falsini. Click on the image for higher resolution Adriana Kucerová is young and attractive and has a well-educated lyric soprano voice with a good coloratura; she had a real triumph as Adina at Glyndebourne in 2009. Her volume, though, is not as powerful as the huge Teatro dell'Opera auditorium requires. Also because, next to her, there is Saimir Pirgu who married a clear lyric tenor timbre and a generous volume which fills the full auditorium. His Una furtiva lacrima was up to young Luciano Pavarotti's standard since the initial B flat in the first stanza, then the D flat in the second stanza to the High C in 'm'ama, lo vedo m'ama') back to the B flat of 'Cielo si può morir'. The theater exploded in accolades and requests of encore. Fabio Maria Capitanucci and Alex Esposito are young but very experienced in their respective roles. Adriana Kucerová as Adina and Saimir Pirgu as Nemorino in 'L'Elisir d'Amore' at Teatro dell'Opera di Roma. Photo © 2011 Corrado Falsini. Click on the image for higher resolution There was much applause, both open stage and at the end of the
performance. Copyright © 7 February 2011 Giuseppe Pennisi, Rome, Italy GAETANO DONIZETTI SAIMIR PIRGU ROME NAPLES ITALY << M&V home Concert reviews Turandot >>

For King, Country and Sex 5 Febbraio

For King, Country and Sex
Marco Tutino's 'Senso',
experienced by GIUSEPPE PENNISI

Is there an Italian 'new opera' genre similar to the American 'new opera' I discussed here a couple of weeks ago commenting on the European première of William Bolcom's A View from the Bridge? It is quite a pertinent question, because Italy was the cradle of opera as well as one of the few countries where opera was a fully commercial venture (in Venice in the sixteenth century and all over the country from about the 1820s until around the 1910s). Now, the thirteen major Italian opera houses and some thirty minor 'traditional' opera theatres are heavily supported by central and local government. Due the financial stringency, government funds for opera are drastically decreasing, so opera workers are protesting with serious industrial action. More worrisome than these protests is the decrease in audience; with a few exceptions (Milan's La Scala, Palermo's Teatro Massimo, Parma's Teatro Regio), in many theatres the paying audience is dwindling year after year and there are rows of unfilled seats any time some program departure is made from the standard repertory.

Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
Also, the audience is, by and large, made up of 'grey panthers', older high income people who are unlikely to leave their orchestra seats and boxes to a younger generation. High ticket prices and changes in costumes and habits are the main determinants of the situation. However, very few opera houses have a deliberate policy to prepare the new generations for the genre and very few composers attempt to attract audience. Many of them write experimental scores for the joy (or rage) of their fellow composers and for the élite. The general audience is often scared away by just the titles.

Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2009 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
As mentioned, the Teatro Massimo of Palermo is an exception in several ways. Firstly, some ten years ago, it seemed a bottomless pit of public funds; now the debt has been restructured, every fiscal year the foundation running the house closes with a small surplus, and a major international bank is one of the stakeholders of the foundation. Secondly, the theatre has a clear policy to attract young audiences to operas especially geared to them, discounted tickets for the youths and, more significantly, opera presentations for students from elementary to senior high schools. Thirdly, the Teatro Massimo encourages those 'neo romantic' composers who still like harmony, write diatonic music, rich orchestral interludes and melodic tunes.

Nicola Beller Carbone as Livia and Brandon Jovanovich as Hans in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
Marco Tutino is, with Lorenzo Ferrero and Marco Betta, one of these composers. Like their American counterparts, they have the wit to draw their inspiration from very well-known books and even films, an additional reason to attract people interested in seeing how a familiar plot wound render as a piece of music theatre. After all, in their own times, Verdi, Puccini, Leoncavallo and many others did just the same.

Nicola Beller Carbone as Livia and Brandon Jovanovich as Hans in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The Teatro Massimo in Palermo made a bet on inaugurating the 2011 season with the world premiere of Marco Tutino's Senso -- co-produced with Warsaw National Opera Theatre and already scheduled to be performed in Bologna and Trieste (and, may be, in Los Angeles and/or San Francisco). A daring bet because very few Italian opera houses inaugurate their seasons with an untested brand-new work, especially commissioned for the purpose.

Nicola Beller Carbone as Livia in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
On 20 January, a grand evening was planned with music critics coming from all over the world. Regretfully, the unions called for a last minute strike against the composer as well as against the Teatro Massimo management; this would have been incredible in any other country because in fact the unions' action ended up damaging their own registered members as well as the other workers in that line of employment. This report is based on the performance on 30 January 2011.

Nicola Beller Carbone as Livia and Brandon Jovanovich as Hans in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
Senso means 'sensuality'. It is the title of a short novel of Camillo Boito -- a relative of Arrigo Boito, author of Verdi's important libretti and a serious composer on his own account. (His Mefistofele is still often performed, especially in Germany and the USA.) In 1954, the novel had been chosen by Luchino Visconti for one of his best and most known films. Its plot evolves in Venice and the nearby countryside during the 1866 Prussian-Austrian War when the recently created Kingdom of Italy was allied with Berlin against Vienna and aimed at expanding its territory to Venice and the surrounding region. The opera, thus, has a special flavor because in 2011, Italy celebrates the 150th anniversary of its unification.

Nicola Beller Carbone as Livia in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The two-act libretto by Giuseppe di Leva follows the novel and the film quite closely. In Venice the Marquis Donà and his friends are clearly working (in disguise) for the unification of Italy, and have also collected a large sum of money to help organize an uprising by the general populace against the Austrians.

Nicola Beller Carbone as Livia and Brandon Jovanovich as Hans in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
During an evening at La Fenice Opera House, young Countess Livia Serpieri, cousin of Marquis Donà and wife of an old Count, falls in love with an attractive Austrian officer, Hans -- her cousin and her husband are much too busy, either openly or secretly, working for the King (of Italy) and the country (again Italy) to grasp what is going on. Livia is convinced that her affair with the young Austrian is her lifetime love story, but Hans only wants sex -- he is quite skilled at that -- and money. A major battle is in the offing. Hans is afraid to go to the front-line and persuades Livia to give him money to pay a complacent doctor and to call sick.

Emanuele D'Aguanno as the narrator, Nicola Beller Carbone as Livia and Brandon Jovanovich as Hans in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
Livia steals the money designed to help the 'Italian patriots', only to discover that Hans is a real scoundrel. He obtains sick leave by corrupting four medical doctors; he does not go to the battlefields but squanders the remaining money on prostitutes, including her own chamber maid, in group sex orgies, with his comrades-in-arms, in Verona. Livia files a report on him to the Austrian military authorities. After a short martial trial, Hans is in front of a firing squad, and Livia is morally destroyed. Thus, a true melodrama with all the ingredients: King, country, and love (or rather sex, as we are in 2011 and not in 1850 or thereabouts)!

Nicola Beller Carbone as Livia in 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The musical score is lush. It requires a comparatively large orchestra -- in Palermo, Pinchas Steinberg had the baton -- for eclectic writing where familiar tunes (eg a waltz) are ingeniously married with complex chromatic innovations and with careful harmony. Emphasis is on the dual atmosphere: on the one hand, Marquis Donà, Count Serpieri and Friends' patriotic world; on the other, Livia's bedding with Hans where the audience can smell sex (rather than love and/or passion). Throughout, the music is quite tense: both patriotism and sex have a lot of tensions. The vocal writing is mostly declamation (like in Bolcom's A View from the Bridge) with ariosos and concert pieces.

A scene from 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The opera was presented with an international vocal cast: Nicola Beller Carbone, Brandon Janovich, Giorgio Surian, Dalibor Janis and Giovanni Furlanetto took the main roles. Stage direction, scenery and costumes were entrusted to Hugo de Ana who, with the help of Vinicio Cheti's lighting, outdoes Luchino Visconti in providing a luxurious vision of mid-nineteenth century decadence in an Empire about to fold. The same production will travel to Warsaw, Bologna, Trieste and -- maybe -- to the USA. There is a single stage set but with the help of mirrors and projections, the audience has the impression of moving from palatial salons to St Mark's Square, private chambers, battlefields, brothels and barracks in a cinematic sequence.

A scene from 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
But the quintessential element of opera is music and singing. The orchestral score is quite elaborate and very personal but the careful listener can feel musical telepathy with Puccini's La Rondine in the Palatial salon scene in the first acts, and echoes of Korngold and Zemlinsky in the sex scenes. Also there is a flavor of Richard Strauss throughout the opera because of the care that the orchestra, although powerful, should never overwhelm the voices so that every single word can be fully understood. There are no single musical numbers, unless the string prelude to the second Act and the concert pieces can be considered as such. (That in the battlefield was especially moving.) Also the engrossing solo ending by Livia, as emotional as that of Janácek's Jenufa, can be taken as a musical number. With the exception of the choral parts, normally the declamation slides into ariosos.

A scene from 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The German-born, Spanish-trained but now Florentine-resident Nicola Beller Carbone was Livia, and the American Brando Jovanovich was Hans. They are both attractive and endowed with powerful vocal means. Both of them have taxing roles, with emphasis on acute -- Hans has several High Cs -- and in the central register, but also descending to very hard 'mezza voce'. They both excel in phrasing, an essential element in a vocal score with emphasis on declamation. They handle the difficulties very well. Dalibor Janis is almost a Verdi baritone; he has a good arioso in the battlefield scene. Giorgio Surian is Count Serpieri and Giovanni Furlanetto the Austrian commander, two smaller roles handled effectively. Zuzana Marcová is the whorish chamber maid.

A scene from 'Senso' by Marco Tutino at Palermo's Teatro Massimo. Photo © 2011 Franco Lannino. Click on the image for higher resolution
The Palermo audience appreciated the performance with accolades at the end of the battlefield scene and a long applause at the end. The Teatro Massimo management won the bet. I trust the international audience will like Senso -- certainly in the USA, but also in Germany and in the UK.
Copyright © 5 February 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

ITALY
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The Quality of Mercy in Music and Vision 1 Febbraio

The Quality of Mercy
Verdi's 'La Forza del Destino',
heard by GIUSEPPE PENNISI

Of Verdi's five operas commissioned by non-Italian theatres, only La Forza del Destino did not follow a different style than those prevailing at that time at La Scala in Milan, at the San Carlo Opera House in Naples or at the Apollo Theatre in Rome. Indeed, this was one of the reasons why at its first performance in St Petersburg in 1862, the opera nearly flopped; the reception was quite cold. Audience and reviewers expected either a comparatively light Italianate comedy or some concessions to the new Russian way to conceive musical theatre. Instead, they got a lugubrious affair where all the principals die on stage in the last Act. In addition, the local musical élite resented Verdi's 22,000 ruble commission: at that time, Russian composers normally commanded a fee of 500 rubles.
In St Petersburg, audience and reviewers were surprised by a score where, from the first to the last note, there is a sombre and lugubrious atmosphere. A few scenes of popular life -- designed to provide 'comic relief' in the middle of so many gloomy and grueling events -- are kept from the original Spanish play from which Francesco Maria Piave drew his libretto. However, in the opera they are much fewer than in the play, also due to the need to keep the overall length within reasonable boundaries. The St Petersburg version is now seldom performed. I had the pleasure of listening to a performance conducted by Gergiev, and must admit that in its cruelty, I consider it superior to the 'reference version' -- that adapted for La Scala in 1869. The ending in Byronic style is especially effective: the vocal and orchestral score transmits the desperation of a universe where there is no place for God, and thus no place for mercy. In 1862, perhaps even because of his wife's influence, Verdi was a true atheist and had a hopeless view of life and of the world -- as also shown by his letters.
The 1869 La Scala version inaugurated the Parma Teatro Regio opera season on 28 January 2011 in the full unabridged critical edition prepared by Philip Gosset of the University of Chicago. Also the musical direction was entrusted to Maestro Gianluigi Gelmetti, well known both for his care in handling a composition and his tendency to caress tempos so much to slow them down. Thus, we had a very long evening -- four hours (including two intermissions).

Roberto Scandiuzzi as the Abbott, Dimitra Theodossiou as Donna Leonora and the Chorus of Teatro Regio di Parma in Act II of Verdi's 'La Forza del Destino'. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
The 1869 version differs from the original St Petersburg edition (and from the Spanish play). The difference is in the overall concept more than in single parts of the score: the ending is a prayer to God with a trio opened by Non Imprecare Umiliati by the Abbot and the redemption of the two protagonists -- even though she dies. In short, from the 1862 God-less universe, the 1869 drama emphasizes the quality of mercy, indeed of a mercy that only God can provide.

The Chorus of Teatro Regio di Parma in Act III of Verdi's 'La Forza del Destino'. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
A fully-fledged conversion? Not really. In Aida, Otello and especially in Verdi's last will and testament, Falstaff, we are again in a world without God -- indeed in a world which 'is a jest and everybody is a jester'. However, something important had happened: Verdi's friendship with the Italian poet and novelist Alessandro Manzoni had made him come to doubt his own atheism. Manzoni himself had been a bon vivant atheist in his Parisian youth but had become a staunch Roman Catholic as shown by his poems, by his tragedies and most importantly by his very successful novel I Promessi Sposi. The 1869 La Forza has such a tension (in spite of its silly and macabre libretto) because, in Verdi's production, it is the opera of Doubt. This doubt is seen through a plot hardly credible nowadays, but it had some appeal to the nineteenth century middle class audience.

Aquiles Machado as Don Alvaro in Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Normally, in a review of La Forza, emphasis is placed on the vocal score, on the magnificent tunes always conveying the diverse emotions of the characters, on Verdi's uncanny ability for melodies, on the skillful mergers of solos with the chorus and on the excellence of the duets, the trios and the tutti numbers. Indeed, there are few solo numbers: two for the soprano and one each for the tenor and the baritone. Those for the soprano, especially, are of supreme beauty. I believe that a strong point of this new Parma production was the evidence given to the extraordinarily apposite writing for the orchestra which is characterized by the intensity in conveying the atmosphere. In Gelmetti's hands -- a bit heavy at certain moments -- it seems to have a Beethovenian strength. Also, the orchestra and the soloists (eg Fra Melitone) anticipate Falstaff in their skillful interplay -- a much more advanced style than that hitherto found in Verdi.

Dimitra Theodossiou as Donna Leonora in Act IV of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
On the vocal side, an interesting aspect of the performance is Dimitra Theodossiou's much awaited debut in the role of Leonora. She is a well experienced soprano who has most of Verdi's operas in her repertory. She is an 'absolute soprano' with a very ample range. Her 'Leonora' has a lot of temperament. In short, she is not the tender and sweet little soul overwhelmed by Fate but a strong woman able to face her misfortunes squarely. She received real accolades in her two major arias, Madre Pietosa Vergine in the Second Act and Pace, Mio Dio in the fourth act.

Aquiles Machado (left) as Don Alvaro and Vladimir Stoyanov as Don Carlo di Vargas in Act IV of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Alvaro is Aquiles Machado, who had disappeared for a few years from the Italian scene and is back on stage after a diet which made him lose 40 kilos. No doubt, now he has the physique du rôle. He is a lyric tenor, whereas the part requires a dramatic 'spinto' tenor -- very hard merchandise to find in today's music market. Nonetheless, his O Tu Che In Seno Agli Angeli did not disappoint the purists who crowd the upper tier of Parma's Teatro Regio; Machado received an open stage warm applause. On 28 January, the difference between his lyric voice and the vocal writing was apparent in the Fourth Act duet Invano, Alvaro with, as his partner, Vladimir Stoyanov in the part of Carlo. Stoyanov is one the best and most powerful Verdi baritones now available. The duet was good but not excellent.

Mariana Pentcheva as Preziosilla in Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Any theater's musical director would think that the veteran Mariana Pentcheva would be a safe bet as Preziosilla, a role she has sung several times. On 28 January, her Rataplan with chorus at the end of the third act left quite a bit to be desired; she missed a couple of pitches and forced her voice through the whole scene. Another veteran is Roberto Scandiuzzi, as the Abbot; quite effective in a short but critical role. Finally, Carlo Lepore must be mentioned: he is a frequent star of Rossini's comic opera and gave a perfect characterization of Fra Melitone.

The first scene from Act II of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Like any opera, La Forza is not only orchestra and voices but also theater. The direction, sets, costumes and lighting are signed by Stefano Poda. It is a rather special staging, more similar to that seen in German opera houses than to traditional Parma fare. There is a single set: walls that are moved to provide atmosphere to the action. There is no indication that the plot evolves between various parts of Spain and Italy; rather, the costumes seem to suggest that the action is in Pomerania at the end of the nineteenth century. The lighting heightens the somber and lugubrious atmosphere. Also the choreographic actions -- there is no real ballet -- further accentuate the gloom. However, at the end of the Second Act (La Vergine degli Angeli) and the final trio, the lighting shows the quality of mercy in full bloom.
The opening night audience saluted the performance with a long applause. A DVD is in the making.
Copyright © 1 February 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIUSEPPE VERDI
PARMA
ITALY
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The Quality of Mercy in Music and Vision 1 Febbraio

The Quality of Mercy
Verdi's 'La Forza del Destino',
heard by GIUSEPPE PENNISI

Of Verdi's five operas commissioned by non-Italian theatres, only La Forza del Destino did not follow a different style than those prevailing at that time at La Scala in Milan, at the San Carlo Opera House in Naples or at the Apollo Theatre in Rome. Indeed, this was one of the reasons why at its first performance in St Petersburg in 1862, the opera nearly flopped; the reception was quite cold. Audience and reviewers expected either a comparatively light Italianate comedy or some concessions to the new Russian way to conceive musical theatre. Instead, they got a lugubrious affair where all the principals die on stage in the last Act. In addition, the local musical élite resented Verdi's 22,000 ruble commission: at that time, Russian composers normally commanded a fee of 500 rubles.
In St Petersburg, audience and reviewers were surprised by a score where, from the first to the last note, there is a sombre and lugubrious atmosphere. A few scenes of popular life -- designed to provide 'comic relief' in the middle of so many gloomy and grueling events -- are kept from the original Spanish play from which Francesco Maria Piave drew his libretto. However, in the opera they are much fewer than in the play, also due to the need to keep the overall length within reasonable boundaries. The St Petersburg version is now seldom performed. I had the pleasure of listening to a performance conducted by Gergiev, and must admit that in its cruelty, I consider it superior to the 'reference version' -- that adapted for La Scala in 1869. The ending in Byronic style is especially effective: the vocal and orchestral score transmits the desperation of a universe where there is no place for God, and thus no place for mercy. In 1862, perhaps even because of his wife's influence, Verdi was a true atheist and had a hopeless view of life and of the world -- as also shown by his letters.
The 1869 La Scala version inaugurated the Parma Teatro Regio opera season on 28 January 2011 in the full unabridged critical edition prepared by Philip Gosset of the University of Chicago. Also the musical direction was entrusted to Maestro Gianluigi Gelmetti, well known both for his care in handling a composition and his tendency to caress tempos so much to slow them down. Thus, we had a very long evening -- four hours (including two intermissions).

Roberto Scandiuzzi as the Abbott, Dimitra Theodossiou as Donna Leonora and the Chorus of Teatro Regio di Parma in Act II of Verdi's 'La Forza del Destino'. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
The 1869 version differs from the original St Petersburg edition (and from the Spanish play). The difference is in the overall concept more than in single parts of the score: the ending is a prayer to God with a trio opened by Non Imprecare Umiliati by the Abbot and the redemption of the two protagonists -- even though she dies. In short, from the 1862 God-less universe, the 1869 drama emphasizes the quality of mercy, indeed of a mercy that only God can provide.

The Chorus of Teatro Regio di Parma in Act III of Verdi's 'La Forza del Destino'. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
A fully-fledged conversion? Not really. In Aida, Otello and especially in Verdi's last will and testament, Falstaff, we are again in a world without God -- indeed in a world which 'is a jest and everybody is a jester'. However, something important had happened: Verdi's friendship with the Italian poet and novelist Alessandro Manzoni had made him come to doubt his own atheism. Manzoni himself had been a bon vivant atheist in his Parisian youth but had become a staunch Roman Catholic as shown by his poems, by his tragedies and most importantly by his very successful novel I Promessi Sposi. The 1869 La Forza has such a tension (in spite of its silly and macabre libretto) because, in Verdi's production, it is the opera of Doubt. This doubt is seen through a plot hardly credible nowadays, but it had some appeal to the nineteenth century middle class audience.

Aquiles Machado as Don Alvaro in Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Normally, in a review of La Forza, emphasis is placed on the vocal score, on the magnificent tunes always conveying the diverse emotions of the characters, on Verdi's uncanny ability for melodies, on the skillful mergers of solos with the chorus and on the excellence of the duets, the trios and the tutti numbers. Indeed, there are few solo numbers: two for the soprano and one each for the tenor and the baritone. Those for the soprano, especially, are of supreme beauty. I believe that a strong point of this new Parma production was the evidence given to the extraordinarily apposite writing for the orchestra which is characterized by the intensity in conveying the atmosphere. In Gelmetti's hands -- a bit heavy at certain moments -- it seems to have a Beethovenian strength. Also, the orchestra and the soloists (eg Fra Melitone) anticipate Falstaff in their skillful interplay -- a much more advanced style than that hitherto found in Verdi.

Dimitra Theodossiou as Donna Leonora in Act IV of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
On the vocal side, an interesting aspect of the performance is Dimitra Theodossiou's much awaited debut in the role of Leonora. She is a well experienced soprano who has most of Verdi's operas in her repertory. She is an 'absolute soprano' with a very ample range. Her 'Leonora' has a lot of temperament. In short, she is not the tender and sweet little soul overwhelmed by Fate but a strong woman able to face her misfortunes squarely. She received real accolades in her two major arias, Madre Pietosa Vergine in the Second Act and Pace, Mio Dio in the fourth act.

Aquiles Machado (left) as Don Alvaro and Vladimir Stoyanov as Don Carlo di Vargas in Act IV of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Alvaro is Aquiles Machado, who had disappeared for a few years from the Italian scene and is back on stage after a diet which made him lose 40 kilos. No doubt, now he has the physique du rôle. He is a lyric tenor, whereas the part requires a dramatic 'spinto' tenor -- very hard merchandise to find in today's music market. Nonetheless, his O Tu Che In Seno Agli Angeli did not disappoint the purists who crowd the upper tier of Parma's Teatro Regio; Machado received an open stage warm applause. On 28 January, the difference between his lyric voice and the vocal writing was apparent in the Fourth Act duet Invano, Alvaro with, as his partner, Vladimir Stoyanov in the part of Carlo. Stoyanov is one the best and most powerful Verdi baritones now available. The duet was good but not excellent.

Mariana Pentcheva as Preziosilla in Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Any theater's musical director would think that the veteran Mariana Pentcheva would be a safe bet as Preziosilla, a role she has sung several times. On 28 January, her Rataplan with chorus at the end of the third act left quite a bit to be desired; she missed a couple of pitches and forced her voice through the whole scene. Another veteran is Roberto Scandiuzzi, as the Abbot; quite effective in a short but critical role. Finally, Carlo Lepore must be mentioned: he is a frequent star of Rossini's comic opera and gave a perfect characterization of Fra Melitone.

The first scene from Act II of Verdi's 'La Forza del Destino' at Teatro Regio di Parma. Photo © 2011 Roberto Ricci. Click on the image for higher resolution
Like any opera, La Forza is not only orchestra and voices but also theater. The direction, sets, costumes and lighting are signed by Stefano Poda. It is a rather special staging, more similar to that seen in German opera houses than to traditional Parma fare. There is a single set: walls that are moved to provide atmosphere to the action. There is no indication that the plot evolves between various parts of Spain and Italy; rather, the costumes seem to suggest that the action is in Pomerania at the end of the nineteenth century. The lighting heightens the somber and lugubrious atmosphere. Also the choreographic actions -- there is no real ballet -- further accentuate the gloom. However, at the end of the Second Act (La Vergine degli Angeli) and the final trio, the lighting shows the quality of mercy in full bloom.
The opening night audience saluted the performance with a long applause. A DVD is in the making.
Copyright © 1 February 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

GIUSEPPE VERDI
PARMA
ITALY
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Unmistakably French in Music & Vision 27 gennaio

Unmistakably French
'Les Nuits d'Eté',
heard by GIUSEPPE PENNISI from
Rome's Accademia Nazionale di Santa Cecilia

After the unmistakably Italian Cassandra by Gnecchi and the unmistakably American A View from the Bridge by Bolcom, we could not miss something unmistakably French. The opportunity was offered by the Accademia Nazionale di Santa Cecilia with a concert mostly based on late nineteenth century music. I say 'mostly' because the introduction was a quite sleek and contemporary but very British piece: Dance Figures by George Benjamin, a fifteen minute compact and highly rhythmical composition summarizing nine choreographic scenes for orchestra. Benjamin's work is skillful and pleasant but has very little to do with the rest of the program which included two quintessential French compositions: Les Nuits d'Eté by Hector Berlioz and the Third Symphony of Camille Saint-Saëns. The former is a short piece (of thirty minutes) for a mezzo and a comparatively small number of instrumentalists. The latter is not much longer (forty minutes) but with a huge oversized orchestra: as vast as that required for Wagner and Mahler with the addition of two pianos and an organ.
Berlioz' Les Nuits d'Eté dates from around 1860; Saint-Saëns' Third Symphony was premiered in 1886. They are very different in style and approach, but are unmistakably French, specifically in between the Second Empire and La Troisième République -- when France was in the triumph of industrialization and of a growing high-income bourgeoisie, not the aristocratic upper class. The concert was performed three times between 22 January and 25 January 2011. This review is based on the 22 January performance. As originally scheduled, the conductor should have been Kazushi Ono, who had to cancel a long tour to various cities due to illness. Thus, in Rome, Carlo Rizzari (assistant to Antonio Pappano and a young and valuable conductor on his own account) took up the slack.

Carlo Rizzari. Photo © 2011 Musacchio and Ianniello. Click on the image for higher resolution
Les Nuits d'Eté is almost an anomaly in Berlioz' production. Like Lélio, Roméo et Juliette and La Damnation de Faust, the cycle of six songs cannot be classified within any classical musical genre. The melodies are based on six precious poems by a single author, Théophile Gautier. Gautier's poems are neither love songs (like many German lieder) nor philosophical reflections (again as several German lieder are) but evocations or description of atmospheres. They are both sensual and elegiac -- once more, quite distant from German, British, Italian and Spanish songs. Thus, both the text and the music is unmistakably French. In a first version, the cycle was conceived as a chamber music piece, with only piano accompaniment; thus, it was perfectly intended for a soirée in an elegant Parisian salon. Later, Les Nuits d'Eté became a concert piece with an orchestral accompaniment. In Rome, the mezzo was Sonia Ganassi, whose voice was in tone and in timbre for the whole work, rich in coloristic resources, while the singing was sensitive to harmonic nuances, at ease in ornamentation, impeccably tuned, superbly controlled. Rizzari kept the orchestra to support the vocal emission, as intended by Berlioz.
Saint-Saëns' Third Symphony was quite different but still very French. Firstly, it is vastly distant from Romantic and late Romantic German symphonies. Saint-Saëns does not want to deliver 'a message' on the political or private future of humanity, but considered music in a purely classical sense: a perfect form of sound. Thus, the four tempos of the canonic symphony are grouped into two and the interest is in the clarity and transparency of the musical language which must be gentle and harmonic in spite of the oversized orchestra. It is, no doubt, a challenge for conductors and instrumentalists. Rizzari and the orchestra of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia took it up and responded quite well.

Carlo Rizzari conducting the Orchestra of the Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Photo © 2011 Musacchio and Ianniello. Click on the image for higher resolution
Even if not accustomed to French music as much as that from Germany or Italy, the audience clearly appreciated it.
Copyright © 30 January 2011 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy

HECTOR BERLIOZ
CAMILLE SAINT-SAENS
FRANCE
ACCADEMIA NAZIONALE DI SANTA CECILIA
ROME
ITALY
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La musica di Dallapiccola e Ferrero per proseguire la festa dell'Unità nazionale Il Sussiadiario 29 marzo

OPERA/ La musica di Dallapiccola e Ferrero per proseguire la festa dell'Unità nazionale
Giuseppe Pennisi
martedì 29 marzo 2011
Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola
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Approfondisci
NABUCCO/ Verdi e il "Va pensiero" nelle mani di Muti, nel 150° dell'Unità d'Italia
OPERA/ Sei teatri per un "Giulio Cesare" da record
Il Teatro "Luciano Pavarotti" di Modena e il "Teatro Comunale" di Bologna hanno avuto un’idea interessante: per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia non si sono rivolti al solito "Nabucco", alla solita "Battaglia di Legnano", ai "Vespri Siciliani" o "Lombardi alla Prima Crociata", tutte opere verdiane considerate, più a torto che a ragione, ispiratrici del Risorgimento. Hanno commissionato un’opera nuova a Lorenzo Ferrero, esponente della scuola neo-tonale o neoromantica italiana, accostandola a un grande capolavoro del "Novecento storico" mondiale (pur se anche esso rigorosamente italiano), "Il Prigioniero" di Luigi Dallapiccola, raramente eseguito in Patria (è difficile anche trovarne un’incisione nella lingua originale, la nostra, - conosco quella di Antal Dorati registrata a Washington nel 1974 - mentre se ne possono acquistare in tedesco, inglese e svedese), ma grande successo negli Usa dopo la prima esecuzione americana nel 1962 e diventato addirittura un'opera "di culto" in Polonia, Ungheria e nei Paesi Baltici in quegli Anni Ottanta in cui le popolazioni, vittime del comunismo sovietico, volevano liberarsi dall’oppressione marxista. Ha avuto un centinaio di allestimenti: appena 26 in Italia (quest’ultimo incluso).
Sono due lavori molto differenti: il primo è un’opera d’occasione astuta e gradevole di un Lorenzo Ferrero di cui ricordiamo con piacere specialmente "Marylin", "Salvatore Giuliano" e "Carlotta Corday" (drammi storici - "Marylin" è 12 scene dell’America Anni Cinquanta" - così come "Risorgimento!" è una commedia storica); "Il Prigioniero" è, invece, una delle maggiori opere dodecafoniche del Novecento, basata su una frase di Nietzsche che Dallapiccola (docente, pianista e compositore di cultura vasta e profonda) amava ripetere: “E se tu guardi a lungo dentro l’abisso, anche l’abisso guarda dentro di te”.


Ascoltando la seconda dopo la prima si fa un lungo viaggio a ritroso: da una musica contemporanea accattivante - in un’intervista Ferrero ha dichiarato come la missione del musicista sia quella di attrarre il pubblico, specialmente quello più giovane - si va ad una partitura durissima per smisurato organico, grande coro e voci specializzate nelle emissioni richieste dalla dodecafonia.

In “Risorgimento!”, Verdi esce dalla porta ma rientra dalla finestra (come senatore e voce recitante nel finale, che si immagina alcune decadi dopo l’opera vera e propria). L’atto di circa un’ora si svolge nella sala prove del Teatro alla Scala dove, in attesa di ottenere gli ultimi bolli autorizzati dalla censura austriaca, si sta preparando la messa in scena del “Nabuocco”. Ci si basa, quindi, sulla vecchia leggenda, ormai sfatata, secondo cui “Nabucco” e il coro “Va Pensiero” sarebbero stati tra i motori del movimento di unità nazionale.

Nell’intreccio il maestro sostituto amoreggia con il mezzo soprano, l’impresario (mazziniano) e (incredibile!) Giuseppina Strepponi fervono di amore patrio e il visto dei censori austro-ungarici arriva al momento opportuno. Una commedia da educande e una partitura ascoltabile, ma facilmente obliabile; entra da un orecchio ed esce dall’altro. Difficile dire se attrarrà giovani tanto i temi trattati sono distanti da quelli che preoccupano le nuove generazione (cercare lavoro, mettere su famiglia, trovare un impegno sociale). La regia (Giorgio Gallione), l’allestimento scenico (Tiziano Santi, Claudia Pernigotti, Andrea Oliva), Michele Mariotti alla guida dell’orchestra del Teatro Comunale di Bologna e una squadra di giovani cantanti (Valentina Corradetti, Annunziata Vestri, Alessandro Luongo, Alessandro Spina, Leonardo Cortellazzi) fanno di tutto per ravvivare lo spettacolo. Resta, però, come un dono mediocre, pur se offerto in carta dorata e infiocchettata. Difficile che venga incluso tra i lavori memorabili di Lorenzo Ferrero.


Tutt’altra cosa il capolavoro di Dallapiccola. Ne "Il prigioniero" è il protagonista a specchiarsi nell’abisso: la voce suadente del suo carceriere gli infligge l’ultima tortura - la speranza della liberazione - prima di consegnarlo al Grande Inquisitore e al rogo. Nel 1950, "Il prigioniero" venne accusata di anti-comunismo viscerale, (sono evidenti i nessi con Koestler, con Sirone e con i lavori “dissidenti” di Sartre). Venne pure tacciato di essere "un groviglio di suoni tale che neanche l’orecchio più educato e più svelto riuscirebbe a districare" (così scrisse “L’Unità”). Da allora, si sono avuti, come si è detto, un centinaio d’allestimenti in tutto il mondo, nonostante che per decenni sia rimasta una prevenzione negativa in Italia , anche a ragione dell’apparato orchestrale e vocale che richiede e della ritrosia di sovrintendenti nei confronti della dodecafonia. A questo segno di vitalità internazionale, si aggiunge il riconoscimento ormai universale che Dallapiccola è stato un punto di riferimento per tutta la musica contemporanea, soprattutto per quella postasi sul solco della dodecafonia: in un libro del 1978, il musicologo americano, Ethan Morden definisce "Il prigioniero" come "l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera moderna alla volta del mito".


La produzione presentata a Modena il 26 marzo e che, con "Risorgimento!" sarà a Bologna sino al 16 aprile è di alto livello, Il merito va in gran misura alla direzione musicale del giovane Michele Mariotti (una delle nuove bacchette italiane che più si sta affermando a livello internazionale), visibilmente esausto dopo i 45 minuti della concertazione di una delle partiture, al tempo stesso, più complesse e più trasparenti del Novecento italiano in cui tre temi seriali a dodici note si intrecciano, si accavallano e si giustappongono; l’orchestra è stata collocato non solo in buca ma anche nelle barcacce di prim’ordine. Mariotti ne ha tratto il voluto senso di angoscia, sofferenza ed allucinazione, superando, a mio avviso, anche l’eccellente direzione orchestrale di Bruno Bartoletti a Firenze nel 2004 (in occasione delle celebrazioni del centenario dalla nascita di Dallapiccola) poiché Mariotti fa meglio comprendere il nesso tra Dallapiccola e Berg, una serialità non matematica ma disperante e struggentemente umana. Immaginativa anche la regia: con una serie di siparietti e un abile gioco di luce si va dalla prigione, ai cunicoli per uscirne, al giardino della beffa finale.
Tra le voci, eccellono Chad Amstrong, il protagonista, Valentina Corradetti, la madre, e Armaz Darashvili nel doppio ruolo del carceriere e del Grande Inquisitore.

lunedì 28 marzo 2011

QUANTO COSTA (AL PIL) IL DIVIETO DI UNIONI OMOSESSUALI La Gazzetta finanziaria de Il Foglio 28 marzo

AND THE PAPER IS...
QUANTO COSTA (AL PIL) IL DIVIETO DI UNIONI OMOSESSUALI
Da circa tre lustri un filone della "triste scienza" s'interessa specificatamente dei comportamenti di chi è attratto da persone dello stesso genere. Ogni anno all'assemblea scientifica annuale dell'American Economic Association ci sono sessioni specifiche di "Gay and Lesbian Economics" che analizzano principalmente aspetti micro-economici. Alla Emory University di Atlanta, un ateneo metodista e non certo radicale, ci si è posti una domanda che dovrebbe interessare anche il gruppo che, guidato da Enrico Giovannini (presidente dell'Istat), è alla ricerca di altri indicatori con cui integrare la misurazione del pil. Andrew Francis, Hugo M. Mialon e Handie Peg, nello studio che è sul punto di essere pubblicato, "The Effects of Same-Sex Marriage Laws on Public Health and Welfare", presentano i risultati di un'analisi empirica condotta negli Stati Uniti sulla validità o meno di alcuni luoghi comuni sui nessi tra matrimoni tra persone dello stesso genere, spese sanitarie e benessere nazionale. In breve, per esempio, negli stati in cui tali matrimoni sono vietati, il tasso di sifilide tra maschi è più elevato di quello riscontrato dove le unioni omosessuali sono invece ammesse; risultato: meno unioni dello stesso genere, più spesa pubblica per il settore sanitario. I divieti, allo stesso tempo, non sembrano incidere sui valori tradizionali della famiglia quali coltivati dagli eterosessuali. Insomma, le leggi che vietano nozze tra persone dello stesso genere fanno male al pil. Se lo dicono i metodisti… (Giuseppe Pennisi)

Ferrero non convince ma Dellapiccola "salva" Modena e Bologna in Il Velino 28 marzo

CLT - Lirica, Ferrero non convince ma Dellapiccola "salva" Modena e Bologna
Le due città emiliane festeggiano il 150esimo dell’Unità con un’opera commissionata (“Risorgimento!”) e una poco eseguita (“Il prigioniero”). Il progetto però riesce solo a metà


Modena, 28 mar (Il Velino) - Il Teatro “ Luciano Pavarotti” di Modena ed il Comunale di Bologna hanno avuto una buona idea per celebrare i 150 anni dalla proclamazione dell’unità d’Italia: commissionare un’opera nuova in un atto a un compositore affermato in Italia ed all’estero, Lorenzo Ferrero, e accoppiarla con un capolavoro italiano di 60 anni fa molto eseguito in altri Paesi ma poco nel nostro. La prima è “Risorgimento!” di Ferrero. Il secondo è “Il Prigioniero” di Luigi Dallapiccola. Il progetto è riuscito solamente in parte. Viste e ascoltate le due opere alla serata inaugurale di sabato a Modena (saranno in cartellone a Bologna sino al 16 aprile), c’è da ritenere che “Risorgimento!” debba considerarsi un incidente di percorso di un musicista che molto ha dato al teatro musicale (ad esempio “Marilyn”, “Salvatore Giuliano”, “Carlotta Corday”, “La Conquista”) e che si è trovato alle prese con un libretto scarsamente credibile, a metà tra il patriottico e l’ironico, cui applicare il suo stile eclettico neo-tonale. Occorre aggiungere che regia (Giorgio Gallione), scene (Tiziano Santi), costumi (Claudia Pernigotti) e soprattutto direzione musicale (Michele Mariotti) e cantanti (Valentina Corradetti, Annunziata Vestri, Alessandro Spina, Alessandro Luongo) si sono prodigati per rendere sopportabili i 57 minuti che restano a metà tra uno spettacolo per liceali (ma di quelli che si facevano negli anni Cinquanta) e un divertissement salottiero per pochi intimi.

Ben altro spessore “Il Prigioniero”, che dovrebbe essere rappresentato molto più spesso per il valore musicale e civile a esso intrinseco. Luigi Dallapiccola era istriano di nascita ma fiorentino di cultura; al Conservatorio “Cherubini” fu dapprima docente di pianoforte per decenni, poi di composizione per “chiara fama”, successivamente di nuovo di pianoforte dopo essersi dimesso dalla cattedra di composizione in seguito alle leggi razziali che colpivano sua moglie. Pure Renzo Cresti, notoriamente poco estimatore della musica del Novecento “storico” (ossia da inizio secolo ad Anni Settanta) in quanto, per sua stretta ammissione, “appassionato della più stretta contemporaneità”, ricorda che “nel dopoguerra Dallapiccola è stato uno dei punti di riferimento dei musici fiorentini”. Dati i suoi frequenti soggiorni all’estero, soprattutto negli Stati Uniti, sia negli anni Trenta sia negli anni Cinquanta e Sessanta, sarebbe più corretto dire che è stato un punto di riferimento per tutta la musica contemporanea, soprattutto per quella postasi sul solco della dodecafonia: in un libro del 1978, quindi solo pochi anni dopo la morte di Dallapiccola (1904-1975), il musicologo americano, Etthan Morden definisce “Il prigioniero” come “l’esperienza ultima ed estrema del viaggio dell’opera moderna alla volta del mito”.

Nel 2004, in occasione del centenario dalla nascita di Dallapiccola (scomparso nel 1975) la Fondazione del Maggio Musicale lo ha celebrato in grande stile, con nuovi allestimenti di due delle sue opere più significative “Volo di notte” del 1940 e, per l’appunto, “Il Prigioniero” del 1950, nonché chiamando uno dei maggiori direttori d’orchestra, Bruno Bartoletti (fiorentinissimo pure lui) specializzati nel repertorio del Novecento. Le celebrazioni del centenario di Dallapiccola non hanno riguardato solo Firenze. La Radio Vaticana ha dedicato un ciclo di 13 trasmissioni e la Rai di dieci a quello che è, universalmente considerato, uno dei maggiori compositori italiani; l’Accademia di Santa Cecilia ha eseguito l’oratorio scenico “Job”, l’Orchestra di Roma e del Lazio “la piccola serenata lunare”, i teatri Massimo di Catania e di Palermo hanno abbinato “Job” a “Il Prigioniero”, a Città del Messico è stato messo in scena un nuovo allestimento de “Il Prigioniero”, le maggiori città tedesche hanno ospitato serate monografiche dedicate a Dallapiccola, il conservatorio di Pisa ha organizzato un ciclo di nove conferenze e una serie di concerti. E tutto questo per non citare che le iniziative più importanti. Neanche in occasione del centenario è stata colta l’opportunità di mettere in scena il capolavoro ultimo di Dallapiccola, quell’”Ulisse” rappresentato a Berlino (in tedesco) nel 1968 e di cui esiste una rara ma eccellente registrazione di Radio France. In “Ulisse” con la Fede si risolvono i dilemmi sollevati ne “Il Prigioniero” che comunque continua a essere frequentemente eseguito all’estero (ottima l’esecuzione della radio svedese guidata da E. P. Salonen di cui esiste un cd Sony).

Dallapiccola era compositore colto e di vaste letture (dal teatro greco alla Bibbia, dalla Divina commedia a Proust, Joyce, Thomas Mann) e quindi la parola non è un dato inerte, gratuito, aleatorio ma carico di espressività e di tradizione letteraria, così tutti gli elementi della partitura (disposizione della “serie” in senso orizzontale e verticale, timbro, ritmo, dinamica….) sono dati “parlanti”. “Il Prigioniero” ha fonti letterarie: un racconto di Villiers de l’Isle-Adam, rivisitato attraverso letture di Victor Hugo e Charles de Coster. Il libretto venne scritto nel 1942-44, quando il “fascista” Dallapiccola, come lo considerava l’establishment filo-marxista del dopoguerra, era attivo nella resistenza fiorentina; la prima rappresentazione si ebbe nel 1950. Il prologo e un atto in cui protagonisti sono stereotipi archetipi (la madre, il prigioniero, il carceriere, il grande inquisitore, i sacerdoti, il frate), è ambientato nella Spagna della Controriforma, ma i riferimenti alle dittature in generale, alle purghe staliniane e ai gulag sono fin troppo evidenti, come dimostrato dal successo negli Usa degli anni Cinquanta e in Europa centrale ed orientale dalla fine degli anni Ottanta. Nel 1950 il critico ufficiale dell’“Unità”, Mario Zafred, parlò di “melma sonora” e il “compagno di strada” Mario Rinaldi invocò “vera musica non matematica”. Lo stesso Franco Abbiati non si sbilanciò scrivendo di “fenomeno acustico più o meno interessante”. Si schierarono, però, con Dallapiccola, Mila, Vlad, Gatti, Rognoni e altri. Nonché il pubblico.

A Modena l’eccellente direzione musicale di Michele Mariotti, l’efficace impianto registico scenografico e il buon cast vocale – in particolare Chad Amstrong nel ruolo del protagonista – hanno mostrato come all’estrema mobilità di timbri e di disegno della parte orchestrale (che richiede un organico enorme), Dallapiccola contrappone una grande semplicità d’impianto vocale che conoscono diverse intensità d’emissione. Mariotti, inoltre, mette in rilievo, meglio di Bartoletti, la parentela tra “Il Prigioniero” e le opere di Berg: l’impianto è dodecafonico ma viene evitato l’anonimato aritmetico della serie. Come faceva, proprio in quegli anni, Hans Werner Henze sconvolgendo, con “Boulevard Solitude”, il pubblico romano. In breve, “Il Prigioniero” vale un viaggio, anche se si rischia di appisolarsi durante “Risorgimento!”.

(Hans Sachs) 28 mar 2011 13:02



Alla c.a. Paolo & Co

sabato 26 marzo 2011

Giulio Cesare in Egitto, l'opera diventa colossale Milano Finanza 26 marzo

Giulio Cesare in Egitto, l'opera diventa colossale
Non sono sempre le grandi fondazioni liriche a offrire gli spettacoli più complessi. La messa in scena di Giulio Cesare in Egitto di Georg Friedrich Händel coinvolge otto ruoli principali (di cui due scritti per castrati), undici cambiamenti di scena, quattro ore di musica. I teatri di Ferrara, Ravenna e Modena si sono coalizzati per produrre un'edizione in scena in Emilia-Romagna fino al 10 aprile e successivamente a Brema, al Festival händeliano di Halle e all'opera nazionale di Poznam.
L'opera non è integrale ma filologica: si sono tagliate parti non essenziali ma ci si è affidati, per la parte musicale, a Ottavio Dantone e all'Accademia Bizantina che utilizza strumenti il più possibile simili a quelli d'epoca. I due castrati sono stati sostituiti da un contralto, ossia Sonia Prina nei panni di Cesare e da un controtenore, Paolo Lopez in quelli di Sesto. Maria Grazia Schiavo è l'affascinante Cleopatra, José Maria Lo Monaco la triste Cornelia, Riccardo Novaro e Filippo Mineccia i due malvagi (Achilla e Tolomeo). La complessa vicenda di intrighi politico-amorosi viene portata in epoca di guerre coloniali di fine Ottocento, mentre Händel pensava alle vicende in corso a Londra tra Whigs e Tories nel XVIII secolo. Funziona bene la prima parte mentre la seconda è troppo cruda nelle scene di battaglia e prigione rispetto alla trasparente armonia dell'orchestra e alla curata emissione delle voci. (riproduzione riservata)

Quella tassa "in maschera" più antipatica del canone Rai Il Sussidiario 26 marzo

IL CASO/ Quella tassa "in maschera" più antipatica del canone Rai
Giuseppe Pennisi
sabato 26 marzo 2011
Una manifestazione di protesta contro i tagli alla cultura (Foto Ansa)
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NUCLEARE/ Forte: ecco perchè la moratoria ci regalerà centrali più sicure
ALITALIA/ Le "fantasie" su Meridiana che ricordano il caso Fiat, di J. Valeron
È poco elegante scrivere in prima persona. Tuttavia, me lo si consenta poiché chi mi conosce sa che sono notoriamente un melofilo dall’età di 12 anni, quando venni affascinato dal wagneriano “Vascello Fantasma” (allora lo si titolava così) accompagnando mia madre al Teatro dell’Opera (considerato un obbligo sociale). Diventai imperterrito e irrecuperabile quando, due anni dopo, venni alle mani con ragazzi della “reazione” alla prima romana di “Boulevard Solitude” di Hans Werner Henze. Da liceale, mettevo da parte l’argent de poche per andare, ogni due anni, alla biennale di musica contemporanea a Venezia. Da sempre le vacanze mie e della famiglia (imposte anche ai figli sino a quando non sono stati in grado di organizzarsi da soli) sono un vagare da festival a festival. Quindi, non posso non essere lieto che i sipari non calino, forse per sempre, sul teatro in musica “alto” italiano.
Al tempo stesso, però, non posso non essere perplesso per il modo in cui si pensa di avere risolto il problema. In primo luogo, le “imposte di scopo” vengono considerate analoghe alla pornografia da tutti coloro che studiano o insegnano scienza delle finanze. In Italia, l’imposta di scopo per eccellenza, il canone Rai, è il tributo più odiato e con il più alto tasso d’evasione (il 35%). Naturalmente, in condizioni estreme si è costretti a fare a esse ricorso, ma lo si fa in modo trasparente ed efficiente. Lo fece, proprio per la lirica, la popolazione di Vienna.
La delegazione americana del Piano Marshall (si era nella Vienna de “Il Terzo Uomo”, per intenderci) aveva bocciato l’idea di utilizzare fondi Usa per la ricostruzione dalla Staatsoper (prima della ricostruzione dei binari dei tram e delle fogne). Il governo della città varò un’imposta di scopo con l’impegno che il teatro sarebbe stato riaperto (come avvenne) con nove recite gratis delle nove opere più amate dai viennesi in cui maestranze tecniche e artistiche, solisti e quant’altro, avrebbero lavorato senza alcun compenso. Il teatro funzionò prima del tram, ma i viennesi erano consapevoli di pagare per qualcosa che amavano molto e a cui davano, in piena coscienza di causa, alta priorità.

Al contrario, per aumentare la dotazione del Fus si è fatto ricorso a un’imposta di scopo in maschera, che graverà su lavoratori (in gran misura con redditi molto inferiori di coloro che frequentano i teatri) e attizzerà il fuoco di associazione di consumatori, sindacati e Parlamento. È possibile che, a ragione del marchingegno, il decreto non venga convertito o che si finisca in annose vertenze in tribunali tributari. È in ogni caso una misura altamente regressiva: quando sala, palchi e platee di una fondazione lirica hanno il “tutto esaurito”, la sovvenzione pubblica media è 300 euro a spettatore pagante. C’è, quindi, un serio problema di equità nel porre questo onere a carico di chi, a basso reddito, utilizza l’auto per esigenze vitali come andare al lavoro o svolgere la propria attività.
Inoltre, sarebbe stato saggio agganciare i finanziamenti a una vera riforma delle fondazioni, un riequilibrio tra fondazioni e “teatri di tradizione” (i più innovativi degli ultimi 25 anni), l’avvio di un cartellone nazionale (per contenere sprechi e anche peggio) con regole ferree per coproduzioni, premialità e sanzioni, il rilancio della normativa sulle sponsorizzazioni preparata ma insabbiata nei meandri del Collegio Romano. La Commissione per la predisposizione dei regolamenti ex legge Bondi si e riunita una sola volta nell’autunno del 2010. Senza nuove regole e prassi, i teatri delle nostre fondazioni resteranno i più costosi e i più sovvenzionati al mondo anche in una fase come l’attuale, in cui migliaia di famiglie hanno difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena. Inevitabilmente, tra qualche anno ci sarà una nuova crisi.

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venerdì 25 marzo 2011

SI DECIDE NELL’AREA DI RIGORE IL FUTURO DELL’UNIONE MONETARIA in Avvenire del 25 marzo

SI DECIDE NELL’AREA DI RIGORE IL FITURO DELL’UNIONE MONETARIA
Giuseppe Pennisi

Sul vertice europeo, in corso a Bruxelles, è piombata la notizia della crisi di Governo in Portogallo: il Presidente del Consiglio José Socrates, ha dato le dimissioni dopo avere tentato senza successo di fare approvare dal Parlamento il piano di austerità concordato per avere accesso agli aiuti europei. E’ difficile dire se ed in che misura la notizia inciderà sui testi del “patto per l’euro” in fase di messa a punto.
Nella versione concordata l’11 marzo (consultabile sul sito ufficiale dell’UE, http.europa.eu) viene depennato il cosi detto “compromesso Carli”, la clausola introdotta, nell’ultima fase del negoziato di Maastricht, in base alla quale il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil degli Stati dell’unione monetaria avrebbe dovuto “tendere al 60%”. Il testo all’approvazione del “vertice” prevede un calendario preciso pur se ”in circostanze eccezionali” si potrà fare valere la tipologia del debito (quanto sull’estero, quanto sull’interno, quanto finanziato da risparmio delle famiglie)”. E’ un’apertura molto stretta: occorre “chiedere” la presa considerazione di “circostanze eccezionali”. Per l’Italia sarà meno facile di quanto si pensasse perché, la propensione al risparmio delle famiglie è diminuita dal 14% al 12% da fine 2009 a fine 2010.
Le regole UE determineranno, per i 17 dell’euro, “manovre” impegnative per i prossimi tre esercizi finanziar. Per l’Italia sarebbero nell’ordine di 15-20 miliardi di euro l’anno (tenendo anche conto dell’esigenza di portare al di sotto del 3% il rapporto deficit :PIL) . Queste stime sono state effettuate sulla base di tre modelli econometrici (Bce, Fmi e ’Ocse), nonché utilizzando il “consensus” ( i 20 maggiori istituti internazionali privati). Le differenze tra consistenza minima e massima dipendono dai tassi di crescita dell’economia mondiale ed europea (nonché italiana) che si ipotizzano per il periodo 2011-2014 nonché dalla volontà UE di fare scattare la clausola delle “circostanze eccezionali” . Per l’Italia, le previsioni di crescita sono sull’1,5% del Pil. A mio giudizio,, si potrebbe raggiungere il 2% grazie ad un accelerato programma di liberalizzazioni (soprattutto a livello locale), . privatizzazioni pure in settori considerati strategici (energia, radio-televisione) e l’aumento del peso di stranieri nell’azionariato delle rispettive holding o imprese. So bene che su questo punto il dibattito è apertissimo e le controversie sono motivate e forti. Tutti possono invece concordare sul fatto che un contributo può venire dall’applicazione rigorosa delle nuova legge di contabilità dello Stato e dal pronto azzeramento (come fece il Governo Amato nell’estate 1992) delle “contabilità speciali” dove si annidano “residui passivi”: come disse all’epoca il Dr.Sottile, possono diventare all’improvviso “inondazioni – di spesa n.d.r.- come quelle conseguenti di disastro del Vajont. Su questo scenario , incombe per noi e per gli altri la prospettiva di un aumento dei tassi d’interesse quando il 7 aprile si riunirà il Consiglio Bce. Il rischio , lo dice anche Bradford DeLong (ex sottosegretario al Tesoro Usa ed ora professore a Berkeley in California) in un saggio su “The Economist’s Voice”, è che ciò potrebbe strozzare la ripresa in molti Paesi europei proprio mentre essa si sta avviando. Arduo prevedere se i rappresentanti dell’Italia al Consiglio Bce vorranno e potranno fare sentire la loro voce. Quelli di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo sembrano consegnati al silenzio. Mentre dovrebbero anche loro e non solo loro ricordare che la sostenibilità politica e sociale è colonna portante di qualsiasi unione monetaria. Le crisi in Grecia e Portogallo lo testimoniano.

giovedì 24 marzo 2011

Con la cultura si mangia Il Velino 24 marzo

ECO - Con la cultura si mangia
Luci e ombre della ricostituzione del FUS

Roma, 24 mar (Il Velino) - La decisione del Consiglio dei ministri di ricostituire il Fondo Unico per lo Spettacolo ai livelli del 2010 deve essere salutata con soddisfazione per vari motivi. Da un lato, impedisce quella che sarebbe stata la chiusura di teatri, attività artistiche, cinematografia giovane e innovativa. Da un altro mostra come Sandro Bondi, prima di lasciare il Collegio Romano, abbia voluto tenere fede a un impegno preso con il mondo della cultura. Da un altro ancora, pone fine alla così detta strategia dei “tagli lineari” che ha il pregio della semplicità e di non scatenare guerre tra ministri e ministeri nella fase dell’allocazione delle scarse risorse. Infine, dimostra come la Politica con la “P” maiuscola sia in grado di definire priorità. Anche se sono perplesso con il metodo adottato, l’aumento delle accise (si legga in proposito l’acuto e appropriato commento dell’Istituto Bruno Leoni a filippo.cavazzoni@brunoleoni.it), e soprattutto che non si sia colta l’occasione di agganciare l’aumento del FUS 2011 (rispetto alle stime di una settimana fa) a una effettiva riforma, specialmente delle fondazioni, è importante sottolineare come, ad onta di certe effe razioni, la decisione prova che il governo ha contezza che “con la cultura si mangia”.


Non è questa la sede per un saggio, più o meno dotto, di economia della cultura; ci sono riviste specializzate a questo fine. È utile, però, ricordare una ricerca e un caso recente.

Veniamo, in primo luogo, alla ricerca. Viene dal maggiore istituto di analisi economica tedesco, l’Ifo. Ne sono autori Olivier Flack, Micheal Frisch e Stephan Heblick, tutti distinti e distanti delle nostre piccole e grandi beghe. I tre economisti studiano lo sviluppo regionale realizzatosi nelle aree dove erano stati costruiti teatri barocchi prima del 1800 o subito dopo, ossia prima della rivoluzione industriale (al fine di evitare che la costruzione e il funzionamento del teatro fossero non una causa ma una conseguenza dello sviluppo). L’analisi riguarda 29 teatri, alcuni in grandi città (Berlino, Monaco, Amburgo), altri in piccoli centri (Bautzen, Passau, Stralsund), nonché con aree simili per struttura economica e livello di reddito, ma senza teatri. Le aree “con” teatri hanno avuto una crescita del Pil di uno-due punti percentuali l’anno rispetto a quelle “senza”. Lo studio conclude che la politica deve pensarci due volte prima di ridurre finanziamenti alla cultura.

Veniamo al secondo episodio. Nel quadro delle celebrazioni per i 150 anni dall’Unità d’Italia è stato presentato a Roma , per una sola sera, uno spettacolo dell’attore Cosimo Cinieri con la banda dell’esercito italiano guidata da Fulvio Creux (e con la partecipazione del soprano Cristina Maffongeli). In essenza un monologo costruito su poesie del Risorgimento, accompagnate da musica dell’epoca. A basso costo, non solo ha avuto grande successo ma è stato invitato all’estero (Singapore, Seul, Monaco, ecc.). Un vero e proprio testimonial dell’Italia e del made in Italy.

(Giuseppe Pennisi) 24 mar 2011 12:56

Così gli Usa si godono il "suicidio" dell’Europa Il Sussiadisrio 24 marzo

Economia e Finanza
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FINANZA/ 1. Così gli Usa si godono il "suicidio" dell’Europa
Giuseppe Pennisi
giovedì 24 marzo 2011
Jean Claude Trichet (Foto Imagoeconomica)
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ALITALIA/ Le "fantasie" su Meridiana che ricordano il caso Fiat, di J. Valeron
FINANZA/ Bertone: c’è un “catastrofismo” buono che può salvare l’Europa
vai al dossier Crisi o ripresa?
Ormai lo sanno anche i gatti della zona archeologica di Largo di Torre Argentina: alla prossima riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea (Bce) i tassi direttori per l’eurozona verranno aumentati dello 0,25%. Si tratterà di un primo aumento con il quale le autorità monetarie europee daranno un segnale ai mercati; prima dell’estate, l’incremento complessivo potrebbe essere di un punto percentuale, con un sostanziale raddoppio rispetto ai livelli attuali.
La strategia di comunicazione della Bce è stata questa volta efficace: il cambiamento di rotta, da una politica monetaria “accomodante” a una restrittiva, è stato annunciato, progressivamente, da alcune settimane da esponenti del suo Comitato esecutivo in interventi ufficiosi ed è stato, quindi, già preso in conto dai mercati. Se non interverranno altri elementi, non aspettiamoci un tonfo delle Borse il 7 o l’8 aprile alla lettura del comunicato della Bce.
L’argomento di fondo dei servizi tecnici della Bce è che il tasso d’aumento dei prezzi nell’eurozona supera quel 2% l’anno definito, negli statuti dell’istituto, come il livello di soglia oltre il quale occorre intervenire. A questo punto formale, ne aggiungono uno sostanziale che illustrano con dovizia di grafici relativi ai singoli indici (di andamento dei prezzi) e a ciascuno dei 17 Stati dell’area dell’euro. Se non si intervenisse oggi con un ritocco “leggero” - avvertono - si correrebbe il rischio di doverne porre in essere uno più pesante domani. Non solo, all’Eurotower di Francoforte si auspica che nel palazzone tardo-fascista di Constitution Avenue N.W. a Washington (dove ha sede la Federal Reserve) si prenda esempio dall’Europa.
È un auspicio destinato a cadere nel vuoto, perché, a differenza di quelli della Bce, gli statuti delle autorità monetarie federali Usa pongono come obiettivo della politica della moneta non solo la stabilità dei prezzi, ma anche l’occupazione dei fattori produttivi. Con un tasso di disoccupazione pari al 9% di coloro che vogliono e possono lavorare, Constitution Avenue non è certo pronta a seguire l’Eurotower. E dobbiamo ringraziare il Cielo che non lo farà. Rischiamo di farci male da soli e di farcene ancora di più se pure gli americani adottano una politica restrittiva.

Bradford Delong, ex-Vice Segretario al Tesoro Usa e ora professore di economia all’Università della California a Berkeley, ha prodotto in un saggio ancora a diffusione soltanto su supporto magnetico, alcune cifre da fare tremare sull’economia di quella chiamata un tempo la comunità economica atlantica. Rispetto al periodo precedente la recessione, abbiamo un calo della domanda di ben otto punti percentuali, tassi di disoccupazione che superano di almeno tre punti percentuali quelli generalmente considerati “sostenibili” e nessuna prova che il tasso d’inflazione di base - ossia al netto dei movimenti dei corsi dell’energia e dei prodotti agricoli - stia crescendo.
Gli Stati Uniti - non lo dice apertamente, ma lo fa capire - stanno trainando la carretta della comunità atlantica con un tasso annuo di aumento del Pil superiore al 3%, mentre l’eurozona è a rimorchio con incrementi del reddito nazionale che sfiorano l’1,5%. Se gli europei vogliono farsi del male, possono aggravare sia sé stessi, sia il resto dell’economia mondiale in una fase, come l’attuale, in cui la domanda è debole e la disoccupazione alta (due fenomeni destinati ad accentuarsi a ragione delle vicende del Nord Africa, del Medio Oriente e del Giappone).
DeLong ha ragione. Non tiene, però, conto di alcuni aspetti specifici dell’eurozona, in particolare del rischio d’insolvenza di alcuni Stati indebitatisi, per di più, soprattutto con banche di altri Stati dell’area, istituti che sarebbero i primi a essere colpiti da eventuale insolvenze sovrane.
Non credo che i rappresentanti del Governo italiano in seno al Consiglio Bce saranno in grado di incidere su una decisione che pare già assunta. Ciò dovrebbe, però, indurre a una politica di crescita più incisiva in materia di liberalizzazioni e privatizzazioni.

mercoledì 23 marzo 2011

Roma, la capitale della musica contemporanea Il Sussidiario 23 marzo

NICOLA SANI/ Roma, la capitale della musica contemporanea
Giuseppe Pennisi
mercoledì 23 marzo 2011
Mark Rothko, Four Darks in Red, 1958 (particolare)
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SOSTAKOVIC/ Il Naso, le tribolazioni di un musicista nel socialismo reale di G. Pennisi
OPERA/ Sei teatri per un "Giulio Cesare" da record di G. Pennisi
Ieri sera all'Aula Magna della Sapienza, l’Istituzione Universitaria dei concerti ha dedicato una serata a Nicola Sani, in occasione dei suoi cinquant’anni, presentando in prima esecuzione assoluta due suoi lavori, che formano un dittico, avendo in comune il quartetto d’archi come base timbrica e derivando entrambi il loro titolo da due tele di Mark Rothko, dipinte nel 1958. In Four Darks in Red la disposizione spaziale del quartetto - i due violini alle estremità, violoncello e viola al centro - riprende l’organizzazione delle forme nella tela di Rothko - quattro rettangoli di diversa misura e di diverse tonalità scure, disposti verticalmente su uno sfondo rosso altrettanto scuro. La parte elettronica ad otto canali è realizzata a partire dalle strutture sonore eseguite dallo stesso quartetto d’archi.


In Black Area in Reds viene sviluppato lo stesso concetto, determinando un antagonismo timbrico tra quartetto d’archi e trio composto da clarinetto, pianoforte e percussioni, come il nero è contrapposto ai rossi nel quadro di Rothko. Il programma era completato da musica di tre grandi compositori Gustav Mahler, Anton Webern e Claude Debussy, attivi nell'affascinante periodo tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando gli ultimi bagliori del romanticismo s'incontrano con il decadentismo, l'impressionismo e i primi fermenti del nuovo secolo. Di Mahler è stato eseguito il giovanile Movimento di quartetto, in cui già si avvertono sia la cupa drammaticità che le estenuate dolcezze delle Sinfonie.


Giovanile è anche il Movimento lento di Webern, in cui questa icona delle avanguardie musicali novecentesche si dimostra ancora un fervente ammiratore di Wagner e dello stesso Mahler. La Rapsodie fu invece composta da Debussy nel pieno della sua maturità artistica ed è un brano virtuosistico, che sfrutta tutti colori del clarinetto. Le esecuzioni affidate a un gruppo di musicisti tra i più esperti e apprezzati nel campo della musica contemporanea, il Quartetto d'archi di Torino, l'Ensemble Algoritmo e il direttore Marco Angius. Fabio Ferri è il sound engineer e Nicola Sani stesso si occupa della regia del suono. Il concerto è stato applauditissimo da una sala piena in ogni ordine di posto.
Una rarità in una Roma ritenuta “generona” e “canzonettara”? Non proprio, i programmi sia della IUC e che dell’orchestra della Terza Università di Roma privilegiano il contemporaneo. Inoltre, l’associazionismo italiano (Nuova Consonanza) e straniero (in particolare le sedi romane delle Accademie di Francia, Germania, Olanda e Stati Uniti) sono molto attivi. A Roma nella neoclassica sala del conservatorio di Santa Cecilia si svolge ogni anno EMUFEST, il più prestigioso festival europeo di elettro-acustica.
Basti sapere che nel 2009 e nel 2010, se non fosse stato necessario ridurre il programma predisposto per il Teatro Nazionale (la seconda sala del Teatro dell’Opera) a causa di ristrettezze finanziarie, Roma avrebbe avuto una dozzina di ore in più di concerti e opere contemporanee di quelle realizzate a Berlino. Si tratta di eventi spesso affollati, come si è visto al Teatro Olimpico, in occasione delle rappresentazioni della rielaborazione del mozartiano “Flauto Magico” in chiave interetnica e contemporanea, ogni volta che sono in programma prime mondiali e nazionali e in altre sedi concertistiche e sceniche universitarie. Pochi ricordano, inoltre, che alla fine degli anni Trenta, l’Italia è stato il primo paese a lanciare un festival mondiale di musica contemporanea, a Venezia, che nella normativa sui teatri lirici del 1936 La Fenice era deputata all’innovazione e alla sperimentazione e che grazie alla Filarmonica e all’Associazione Nuova Consonanza è stata all’avanguardia della musica contemporanea europea sino alla fine degli anni Settanta.

Nel 2003, con il volume “L’Orchestra del Duce”, Stefano Bigazzi ha raccontato come lo stesso Stravinskij avesse stretto un rapporto privilegiato con Palazzo Venezia considerato, piaccia o non piaccia, uno dei pochi “luoghi della politica” dove si dava rilievo e priorità alla musica contemporanea e d’avanguardia. Per toccare con mano quanto sia stata importante Roma nel periodo denominato “notte della Repubblica”, va segnalata una vera chicca editoriale appena uscita: “Marjorie Wright, una cantante fuori dal comune” (Zecchini Editore). La Wright, cantante irlandese specializzata nel repertorio della contemporaneità più impervia, prima da soprano di coloratura, poi da mezzo soprano e infine da contralto acuto, ha vissuto in prima persona successi e intrighi e conduce il lettore in un labirinto internazionale che aveva allora Roma come punto di riferimento. Una lettura da consigliare al sindaco Gianni Alemanno: la musica contemporanea è una leva importante che non va trascurata nel rilancio della Capitale.


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martedì 22 marzo 2011

Sei teatri per un "Giulio Cesare" da record Il Sussidiario 22 marzo

OPERA/ Sei teatri per un "Giulio Cesare" da record
Giuseppe Pennisi
martedì 22 marzo 2011
Il Giulio Cesare in scena
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MUSICA/ Anniversario Mahler, il derby delle grandi orchestre sinfoniche romane
NABUCCO/ Verdi e il "Va pensiero" nelle mani di Muti, nel 150° dell'Unità d'Italia
L’esecuzione in tempi moderni di opere di Georg Friedrich Händel comporta enormi problemi. In primo luogo, la durata: l’integrale di “Giulio Cesare in Egitto” sfiora i 250 minuti. In secondo luogo, la tessitura: quando i lavori di Händel per il teatro ricominciarono ad apparire (in sostanza nella seconda metà del Novecento dopo alcuni tentativi sperimentali all’inizio del secolo), dato che i principali ruoli maschili erano stati scritti per castrati, non c’è altra scelta che abbassarli di qualche ottava per affidarli a baritoni (o anche a bassi-baritoni) oppure, come si fa adesso, utilizzare mezzo-soprani o contralti.


In terzo luogo, l’orchestrazione era stata concepita per strumenti d’epoca, in pratica introvabili. In quarto luogo, le arie erano ripetitive (articolate, spesso, su due “da capo”). In quarto e ultimo luogo, gli allestimenti erano difficili e onerosi poiché prevedevano frequenti cambiamenti di scena (in epoca barocca risolti tramite siparietti dipinti e complessi macchinari).


L’edizione che rilanciò il “Giulio Cesare in Egitto” in tempi moderni fu il risultato di alcuni testardi - Beverly Sills, Norman Triegle, Julius Rudel, Tito Capobianco e Ming Cho Lee - in un teatro allora secondario, la New York City Opera (fratello molto minore del Metropolitan che lo fiancheggia al Lincoln Center). Nel 1966, Rudel non aveva alcuna ambizione filologica: tagliò a destra e a manca; Capobianco (regia) e Ming Cho Lee si ispirarono al bianco e nero di Piranesi, Cesare era incarnato dal miglior basso-baritono su piazza (Triegle) e le seduzioni di Cleopatra affidate alla Sills.


L’edizione ebbe in enorme successo; fu portata in tournée attraverso gli Usa - reggeva ancora bene alla metà degli Anni Settanta quando la compagnia visitò il Kennedy Center di Washingtion dove la vidi e ascoltai. Il rilancio europeo ebbe luogo a Monaco di Baviera, sempre con un basso baritono (Fischer-Dieskau) come protagonista, l’affascinante Troyanos nel ruolo della Regina d’Egitto, la bacchetta di Karl Richter (che aveva tagliato una mezz’ora di musica) e un’ambientazione abbastanza tradizionale.


Affascinante l’allestimento romano del 1984 con Margerita Zimmerman e Monserrat Caballé, con Gabriele Ferro alla guida dell’orchestra e la regia di Alberto Fassini; si era scelto un mezzo soprano come protagonista maschile. L’allestimento ebbe successo e venne ripreso qualche anno più tardi con Cecilia Gasdia nel fulgore delle sue qualità sceniche e vocali.


Una decina di anni fa vidi un allestimento, co-prodotto dal Teatro Real di Madrid e dal Teatro Comunale di Bologna, oltre un’ora di musica veniva eliminata, tagliando completamente sette dei 45 numeri, riducendo i recitativi e operando anche all’interno delle singole arie (falcidiando i “da capo”); lo spettacolo non durava più di tre ore e mezzo (rispetto alle oltre quattro ore delle edizioni romane del 1984 e del 1998 e di quella di Martina Franca del 1989).


I ruoli maschili erano affidati, in gran misura, a mezzo-soprani e contralti, nonostante che nell’opera, Giulio Cesare, giunto a 54 anni d’età, in Egitto sia più seduttore che condottiero. La scrittura orchestrale non veniva modernizzata (dirigeva Rinaldo Alessandrini); non si scivolava, però, nella tentazione di aggiungerle fioriture alla Hornancourt. Luca Ronconi trattava gli aspetti scenici con misura: un impianto fisso con due maxischermi dove venivano proiettati spezzoni di deserti e piramidi nonché di vari “Cesare e Cleopatra” della miglior tradizione di Hollywood e di Cinecittà.

Il kitsch veniva esaltato dai costumi (dai romani in abito coloniale a Cleopatra abbigliata alla Claudette Colbert). In questo quadro, il complicato libretto di seduzioni, intrighi, tradimenti e sangue veniva letto con ironia dall’inizio alla fine.

Questi non sono che alcuni esempi di allestimenti che ho visto e recensito: considero “Giulio Cesare in Egitto” come una pietra miliare del teatro in musica non solo per la caratterizzazione dei personaggi (insolita in un’epoca barocca dove i vocalizzi contavano più dell’evoluzione psicologica) ma anche perché anticipa - ad esempio l’uso del recitativo accompagnato che esplode in un’aria nella scena dell’appuntamento tramutato in imboscata - pure il declamato del Novecento.


L’edizione vista a Ravenna si distingue da molte altre. In primo luogo, come si è accennato, “Giulio Cesare in Egitto” è anche opera costosa da realizzare: tre atti e undici quadri (da scene di battaglia, a serragli per harem orientali, da palazzi a prigioni, a porti). Ben otto solisti, tutti con almeno un’aria importante. L’allestimento è co-prodotto da sei istituzioni (i teatri di Ferrara, Modena e Ravenna in Italia; l’Opera Nazionale polacca di Poznman, l’Opera di Brema in Germania ed il Festival annuale Händeliano a Halle).

Concepito per essere vista e ascoltata da esperti della musica di Händel non si potevano fare sconti, specialmente sotto il profilo musicale: per questo il lavoro è affidato alla ravennate Accademia Bizantina guidata da Ottavio Dantone che utilizza un organico il più possibile simile all’originale: 28 strumentisti e l’impiego di strumenti d’epoca come la tiorba, la viola da gamba, i violoni e i flauti traversi.

Il suono ha la ruvida dolcezza (solo in apparenza una contraddizione in termini) del teatro barocco, è di grande supporto alle voci, tranne che nelle “sinfonie” che fungono da preludi o intermezzi (grandioso quello della battaglia).
Tra le voci, spiccano Sonia Prina (Cesare) e Maria Grazia Schiavo (Cleopatra)- un po’ troppo adolescente carico di ormoni il Cesare all’ora cinquantaquattrenne e molto seducente la Cleopatra. Ambedue perfette nella chiarezza dell’emissione. José Maria Lo Monaca è una Cornelia che enfatizza gli aspetti drammatici e “larmoyant” del ruolo. Una scoperta il controtenore Paolo Florez nel ruolo di Sesto. “Cattivi”, come richiede la parte, i bassi-baritoni d’agilità Riccardo Novaro (Achilla) e Filippo Mineccia (Tolomeo). Buoni i “confidenti” dei protagonisti - sempre presenti nel teatro barocco - Floriano D’Auria e Andrea Mastoni.


Intrigante l’allestimento scenico. Non siamo nell’Egitto del 48 avanti Cristo o giù di lì, ma in un’imprecisata Africa all’epoca delle conquiste coloniali: Giulio Cesare è un novello Ulisse joycesiano alla ricerca di sé stesso e dell’origine dell’universo. Gli egiziani/africani rappresentano un mondo antico di sapienza ancestrale che si giustappone al moderno, ma transeunte di cui sono portatori i romani.


Cleopatra conquista Cesare non solo con le arti dell’eros (nella prima scena del secondo atto) ma anche in quanto portatrice di un sapere universale e antico da condurre alla conoscenza dell’anima. Funziona bene nella prima parte. Un po’ meno nella seconda quando, nelle scene di battaglia e prigione, si accentua un grand-guignol di sangue e stupri che poco a che a vedere con quanto avviene e nel golfo mistico e nel canto.


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