venerdì 30 aprile 2010

MEDIA NON PROFIT :UN’IDEA DAGLI USA : CRIS? LA STAMPA CAMBI COSI’! Avvenire 30 aprile

MEDIA NON PROFIT :UN’IDEA DAGLI USA : CRIS? LA STAMPA CAMBI COSI’!
Giuseppe Pennisi
Il Premio Pulitzer per il giornalismo è stato vinto di un quotidiano fruibile unicamente sul web (www.propubblica.org) per l’inchiesta su fatti e misfatti connessi all’uragano Katrina , in particolare su come il sistema ospedaliero ha risposto alla catastrofe naturale.
Il tempo - vale la pena dirlo- non è sempre galantuomo. Soprattutto non lo è per chi soffre di miopia e non sa guardare al di là delle stanghette dei propri occhiali . Quasi dieci anni fa , in un’isoletta non lontana da Manhattan, veniva celebrata, con una festa super-esclusiva (solo 1000 invitati- molti direttori di quotidiani e di periodici italiani fecero carte false per ottenere un biglietto d’invito) la nascita di quello che sarebbe dovuto essere il periodico del secolo, “The Talk”, frutto dell’iniziativa congiunta di due giganti dei media , la Hearst Corp. e Miramax. Lo avrebbe diretto Tina Brown , reduce di veri e propri trionfi di tiratura e di pubblicità con “The New Yorker” e “Vanity Fair”. Fu un “party” memorabile – affermano coloro che vi sono stati presente. Madison Avenue esultava. Un po’ come le ultime feste a Versailles, che tanto più erano lussuose quanto più nelle strade di Parigi erano già in corso i moti rivoluzionari.
Allora- nell’estate del 1999- sembrava che la carta stampata fosse il motore della pubblicità ed una macchina per macinare utili. Oggi numerosi quotidiani e periodici americani hanno ammainato bandiera bianca e chiuso i battenti: nel corso degli ultimi dieci anni, negli Stati Uniti, l’occupazione nella stampa su carta è passata da 415.000 a 300.000; sempre negli USA, i proventi pubblicitari hanno subito una contrazione del 16% tra il 2008 ed il 2009 (quando hanno toccato 38 miliardi di dollari) e , secondo le stime più recenti, scenderanno a 28 miliardi di dollari entro il 2013. Nel contempo, tra il 1999 ed il 2009 gli utili dell’informazione via Internet sono passati dal 4% al 22% del totale dei ricavi delle industrie “creative” americane (quelli dei giornali sono scesi dal 40% al 14% del totale del settore). In molti Paesi europei (unica eccezione la Germania), la situazione non è migliore di quella italiana; in Francia, ad esempio, nel 2009 , 2.900 giornalisti hanno perso il posto, lo stesso un tempo inossidabile quotidiano sportivo L’Ėquipe ha chiuso in passivo, la stampa “nazionale” con base a Parigi fa acqua (nonostante i considerevoli aiuti pubblici), mentre regge abbastanza bene quella locale fortemente radicata sul territorio e con molte pagine di pubblicità (in gran misura locale).
Non solamente un problema settoriale oppure, come scrivono molti commentatori in questi giorni, principalmente di media mix , ossia di trovare l’equilibrio appropriato tra informazione (ed analisi) su carta stampata, su televisione e su web – e della regolamentazione pubblica (specialmente della pubblicità) per meglio giungere a tale equilibrio. La chiusura di giornali, anche piccoli o “di tendenza” scalfisce ed incrina uno dei beni pubblici per eccellenza: la democrazia. Lo diceva Thomas Jefferson oltre 200 anni fa e lo dimostra oggi un’analisi empirica recente della Università di Princeton : la morte per inedia, a fine 2007, del piccolo Cincinnati Post (una circolazione di appena 27.000 copie) ha comportato una riduzione della partecipazione alle elezioni nei quartieri dove il quotidiano era più letto, nonché la sconfitta sistematica dei canditati a incarichi municipali residenti nei quartieri medesimi. Quasi in parallelo, uno studio comparato della University of Virginia, mostra che, in 115 Paesi (sull’arco di venti anni), c’è un forte nesso tra investimenti diretti dall’estero, progresso tecnologico e libertà di stampa.
Circa due anni fa, negli USA è stata lanciata un’idea interessante. La hanno formulata David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale presso lo stesso ateneo. Dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia , trasformiamo – hanno proposto - la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni ed analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa od a quella lobby, od a questo o a quel partito politico, per pubblicità, per acquisti d’abbonamenti all’ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il mercato pubblicitario. Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” . In giornali di proprietà di fondazioni non profit , i giornalisti guadagnerebbero in autonomia ed autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole
Ci sono numerose proposte di legge d’iniziativa parlamentare all’esame del Congresso Usa (dove per la prima volta si pensa un intervento pubblico nel settore, concetto che solo qualche anno fa avrebbe fatto gridare allo scandalo) mirate a rispondere alla crisi della stampa. Alcune prevedono imposte di scopo (ad esempio, sui bingo) per finanziare i giornali (in una variante, ciascun editore dovrebbe gestire sale bingo con i cui utili tamponare le perdite dei giornali – sic!). Sono state accantonate , ossia archiviate. Sta invece facendo strada il “Newspapers Revitalization Act” proposto dal Sen. Benjamin Cardin ma adesso sottoscritto da molti altri parlamentari in chiave “bipartisan”. Dà corpo all’idea di Swensen e Schmidt e riguarda, quindi, l’assetto aziendale: trasformare i giornali in fondazioni-onlus . In Italia, esistono già testate controllate da fondazioni onlus- c’è, quindi, un terreno da cui partire. Una strada che sembra aperta, ma non necessariamente sarà l’unica percorribile per fermare la crisi che sta stringendo, strangolando l’informazione di qualità in tutti i Paesi occidentali.
L’ECONOMIA CONDANNA IL SETTORE
Alla base della crisi c’è quello che viene chiamato “il morbo di Baumol” dal nome dell’economista americano che nel lontano 1962 lo ha teorizzato: settori a tecnologia fissa perdono inevitabilmente competitività in un mondo in cui il progresso tecnologico è la molla dello sviluppo. L’industria giornalistica è alle prese con due voci di costo a tecnologia fissa e difficilmente comprimibili - la carta e la distribuzione- che le fanno perdere terreno rispetto ad altri media. Lo stesso William Baumol scrisse che per curare il morbo è necessario l’intervento pubblico o con la sovvenzione o con la regolamentazione oppure con un abile mix di ambedue.
Purtroppo , molte proposte formulate in questi mesi ( sostanzialmente mirate ad aumenti dei contributi pubblici per la carta e per la distribuzione) non si fondano su una teoria economica solida del giornalismo. In politica economica, e nelle politiche pubbliche settoriali, le carte vincenti sono sempre basate su una teoria rigorosa. Un appello in tal senso viene dalla Vecchia Europa e dal Paese (la Repubblica Federale Tedesca), il cui maggiore editore di stampa scritta (Axel Springer) ha appena chiuso il consuntivo 2009 con il più utile netto segnato nei 62 anni in cui è in operatività . La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl . L’idea è di costruire una teoria economia del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell’arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l’influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza- oppure l’eccesso- nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono causa di perdita di lettori e di pubblicità. Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero quelle prassi d’effettiva indipendenza, ed autorevolezza che , da un lato, farebbero riacquistare prestigio alla professione e, dall’altro, renderebbero finanziariamente, politicamente e socialmente fattibili soluzioni innovative.
LA RIVISTA MUSICALE DIVENTA “CHARITY”. ESPERIMENTO RIUSCIDO IN CANDA E NEL MONDO
Da alcuni mesi collaboro ad un mensile dalla testata in italiano (“La Voce Musicale”) ma pubblicato a Monréal in francese ed in inglese. L’editore è una “Charity”, ossia una Onlus a fini benefico-culturale. Non è distribuito in edicola (ciò riduce drasticamente i costi) ma ha 90.000 abbonati, oltre un’edizione web di aggiornamento quotidiano. Per $ 43 canadesi se in Canada, $ 73 se negli Usa, & 99 se nel resto del mondo, l’abbondato riceve 11 numeri l’anno su carta; per $ 25 si ha diritto alla rivista in pdf nonché a scaricare musica classica in mp3 da alcune case discografiche. Gli abbonamenti sono trattati, sotto il profilo tributario, come elargizioni ad un’attività culturale; un trattamento analogo ha la pubblicità. La “Charity” di cultura musicale riceve anche contributi dall’equivalente canadese del Fus. L’accesso all’edizione web è gratuito e si è rivelato una forte leva per ampliare la platea degli abbonati.

La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia Il Velino 30 aprile

CLT - Lirica/ “La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia

Lirica/ “La donna senz’ombra”, monito a un’Europa che invecchia
Roma, 30 apr (Il Velino) - Cosa voleva significare negli anni della prima guerra mondiale “Die Frau ohne Schatten” (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hafmannsthal e Richard Strauss, con cui ieri sera è stato inaugurato il 73simo Maggio Musicale Fiorentino? E cosa vuole dire oggi, circa un secolo dopo la sua prima messa in scena a Vienna nel 1919? Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando, durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere “Der Rosenkvalier” (“Il Cavaliere della Rosa”) si scherniva dicendo che era un lavoro troppo lungo e quindi troppo faticoso per un uomo che viaggiava verso gli 80 anni. Diceva agli amici: “Però, se mi chiedessero dirigere ‘Die Frau ohne Schatten’, forse risponderei di sì”. Eppure sotto il profilo orchestrale e vocale quest’ultima è più lunga e molto più complessa di “Der Rosenkvalier”. “La Donna Senz’Ombra” viene rappresentata molto raramente in Italia. Negli ultimi 30 anni c’è solo un’edizione alla Scala e una a Firenze (entrambe con una regia minimalista di Jean Pierre Ponnelle commissionata del Teatro dell’Opera di Colonia, da dove i due teatri italiani hanno noleggiato l’allestimento) e una alla Fenice di Venezia. Viene spesso detto che una delle ragioni per la scarsa presenza di quest’opera nel nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la pucciniana “Turandot”. Viene anche detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere compreso.

In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le favole. E “Die Frau ohne Schatten” è in primo luogo una favola, solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano dall’editore Adelphi circa 20 anni fa e forse neanche il recente mirabile saggio di Mario Bortolotto “La Serpe in Seno”. Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). Il filo dell’apologo è lineare e ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli, i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro: restano un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia si ha però unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di sofferenze. Le due coppie al centro della vicenda sono il giovane e bell’Imperatore con l’Imperatrice e un povero tintore con tre fratelli disabili con la sua donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra e quindi non è una donna completa. L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane per fare l’amore. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggerito dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, causando però a quest’ultima e al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente.

Ma il “furto” non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna e dal tentativo di aiutarla assieme a suo marito. È così La compassione dei Cieli trasforma il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale. Nel loro lavoro, Hofmannsthall e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dalla Grande guerra: non per nulla nella loro opera precedente, “Ariadne auf Naxos”, avevano cantato in pieno primo conflitto mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Un messaggio più che mai attuale oggi, in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più e in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire. Per dare questo messaggio, Strauss avvolge il bel testo di Hofmannsthal di una partitura sontuosa: un sinfonismo continuo in buca di impronta wagneriana corredato da sette intermezzi, tutti su variazioni dello stesso tema, un espressionismo vocale che arriva a scelte stilistiche difficilissime (e che pochi interpreti osano affrontare), l’impiego di scale cromatiche complesse (anche mascherate) per dare, unitamente a contrappunti timbrici, una tavolozza di tinte sgargianti ai vari momenti della favola-apologo.

Per il direttore d’orchestra le difficoltà sono enormi: l’orchestrazione è molto fitta ed è spesso difficile tenere un equilibrio con le voci (essenziale non solo sotto il profilo tecnico-musicale ma anche per fare comprendere il testo, peraltro di grande bellezza). Lo stesso Strauss ne era consapevole, tanto che negli ultimi della sua vita stava lavorando a un’orchestrazione semplificata. Inoltre la partitura ha una combinazione contrastante di cameristico e di sinfonico; a momenti di musica molto leggera (per pochissimi strumenti) fanno riscontro passaggi, come la conclusione del secondo atto, in cui è essenziale ridurre il volume del suono in buca. Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena, con grande difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci e tra esse e l’orchestra. Zubin Mehta e l’orchestra del Maggio sono abilissimi nel trovare i giusti equilibri e gli impasti appropriati. La regia di Yannis Kokkos, autore anche delle scene e dei costumi, è una lettura elegante ma tradizionale del testo. Siamo in un mondo fiabesco, vagamente persiano, grazie a pochi elementi costruiti, siparietti in tulle e proiezioni, specialmente per i cambiamenti di ambiente e le “trasformazioni” a scena aperta. La recitazione è perfetta, come per un dramma in prosa di qualità. L’opera è rappresenta senza alcun taglio, ma lo spettacolo scorre per circa quattro ore mezzo rapidamente.

Tra le cinque voci dei protagonisti, spicca Elena Pantrakova (“La donna”). Ignota al grande pubblico, era stata chiamata in un ruolo da comprimario ma ha sostituito il soprano wagneriano-straussiano Jeanne-Michelle Charbonnet (che aveva dato forfait) e affronta stupendamente l’impervio ruolo, con sontuosi acuti da soprano drammatico e un volume che riempie il grande teatro. Ottima anche la giovane e bella Adrianne Pieczonka (“L’impetratice”) , sublime nel fraseggio e nei “legato”. Lioba Braun (“La nutrice”) canta spesso in Italia e dà un’interpretazione di livello, anche se con qualche difficoltà nello scendere a tonalità gravi. Albert Dohnen (“Barak”) ha confermato di essere uno dei più duttili tenori wagneriani-straussiani su piazza, mentre Torsten Kerl è un tenore eroico di livello, ma il suo timbro non ha più la chiarezza di un tempo.

(Hans Sachs) 30 apr 2010 11:10

mercoledì 28 aprile 2010

L’euro sulla Grecia che scotta Il Velino 28 aprile

ECO -
Roma, 28 apr (Il Velino) - La Grecia ha chiesto l’erogazione del prestito di salvataggio annunciato dagli altri Stati dell’area dell’euro entro il 19 maggio – oltre quella data non potrà assolvere agli obblighi di rifinanziamento del proprio debito internazionale e sarà “insolvente”. L’Eurogruppo (ossia gli Stati che fanno parte dell’unione monetaria) si riunirà il 10 maggio per decidere sul da farsi: il giorno prima si svolgono importanti elezioni in Germania ed i risultati del voto potranno pesare sulle deliberazioni dei ministri. Nel contempo, il debito estero del Portogallo è sul punto di essere declassato (questo è il parere dei mercati). Ci sono anche timori per la Spagna. L’Italia non è inclusa in quello che negli Anni Novanta (quando era in atto il percorso verso la moneta unica) veniva chiamato il “Club Med” (per indicare Stati “happy-go-lucky” ma di dubbia affidabilità) grazie al rigore con cui abbiamo tenuto i conti pubblici (nonostante una certa slabbratura durante il breve governo Prodi 2006-2008). Non ci siamo, soprattutto, accodati a chi - come alcune banche greche, portoghesi e spagnole - si sono divertiti a copiare gli americani in materia di mutui subprime; i greci, gli spagnoli ed i portoghesi non solo si sono dilettati su questo terreno, ma quando si sono accorti che era scivoloso, hanno trasformato il subprime in debito pubblico (tramite i loro interni salvataggi bancari) per poi impacchettarlo con altri titoli e farlo diventare debito estero (collocato, quello greco, specialmente presso banche francesi ed in minor misura tedesche).

Allora cosa temere? Non direttamente per l’Italia (se non cederemo a lusinghe di allentare il rigore) ma per l’intera area dell’euro. Già un gruppo politico importante (i cristiano sociali della Baviera) ed un comitato di economisti tedeschi chiedono che la Grecia venga espulsa dall’unione monetaria per avere ecceduto nel gioco delle tre carte: la nemesi storica – vi ricordate quando la studiavamo al liceo – è tale che il direttore del servizio legale della Banca centrale europea sia un giurista greco, Pheobus Athanasiou, ne ha indicato la strada e la procedura nel “Legal Working Paper” n. 10,2009 (che Il Sole-24 Ore del 25 aprile chiamava “introvabile” ma di cui Il Velino ne ha copia certificata).

È un’ipotesi realistica? Difficile dirlo. Nel secondo dopoguerra è nata, in modo pacifico (ossia senza annessione politica od in seguito ad un conflitto) una unica unione monetaria, quella europea, mentre se ne sono sciolte molteplici: ad esempio, la zona del franco (in varie fasi tra il 1958 ed il 1965), la zona della sterlina nel 1967, l’unione monetaria della Federazione della Malesia nel 1965-75, l’unione monetaria dell’Africa Orientale (nel 1974), per non parlare del vero e proprio spappolamento dell’area del rublo. Come ho avuto modo di scrivere altrove in modo più tecnico, soltanto nel 2090 o giù di lì potremo giurare della stabilità e dell’irreversibilità dell’unione monetaria europea.

Come la gatta di Tennesee Williams, l’euro miagola sulla Grecia che scotta e potrebbe contagiare altri Paesi dell’area e mettere a repentaglio la moneta unica. Quindi, fermezza e rigore nelle riunioni sugli aiuti alla Grecia.

LA CRISI GRECIA NON CI TOCCA Il Tempo 28 aprile

Giuseppe Pennisi
Timori e tremori stanno creando forti tensioni sui mercati dell’area dell’euro: dopo la Grecia, è sotto tiro il Portogallo e si prepara una batteria ancora più pensante nei riguardi della Spagna. Nel 1997, un economista italiano , residente negli Usa, (ed oggi in odore di Premio Nobel), Alberto Alesina, lo aveva previsto in un documento che mandò su tutte le furie il Ministro del Tesoro e del Bilancio dell’epoca (di cui era consulente): venne allontanato. Non si poté mettere alla porta Martin Feldstein, Capo dei Comitati Economici di due Presidenti americani ed allora Presidente del Nber (l’equivalente del Cnr Usa) che sosteneva tesi analoghe a quelle di Alesina, ed in un modo ancor più sanguigno. Alesina e Feldstein sostenevano che fare entrare nell’area dell’euro Paesi con tendenza a taroccare i conti era la ricetta per mettere a serio rischio l’intero progetto d’unione monetaria. Il direttore generale dell’Eurostat, Yves Franchet, mise in guardia il Presidente della Commissione Europa , e venne destituito; cinque anni più tardi, l’Euro-Presidente (immaginate chi era?) venne condannato al risarcimento danni dalla Corte di Giustizia Europea; ora vive a Bologna e si dedica all’Africa (poveri loro! Già con tanti guai!).
All’origine degli avvertimenti di Alesina, Feldstein e molti altri c’era la convinzione che la moneta unica non potesse tenere tra Paesi profondamente differenti in termini di struttura economica, tendenze a lungo termine di produttività ed inflazione e modo di intendere le relazioni internazionali. Il detonatore non è stato la prassi d’incipriare i conti quanto ciò che Grecia, Portogallo, Spagna ed Irlanda hanno, in vario modo fatto per scansare la crisi dei mutui subprime . Tramite interventi in salvataggio delle banche e delle finanziarie a rischio hanno trasformato “i mutui spazzatura”, prima, in debito pubblico e , poi, collocando obbligazioni sul mercato internazionale (specialmente in quelli di Francia e Germania) in debito estero. Il gioco delle tre carte è finito quando il nuovo Governo greco ha trovato la casse vuote ed ha lanciato S.O.S,
L’Italia non è caduta in questa trappola. In primo luogo, Via Venti Settembre ha tenuto la barra dritta, facendo piangere i dicasteri di spesa ed i loro “clientes”. In secondo luogo, il nostro sistema bancario sarà meno “moderno”, ma è senza dubbio meno avventuroso e meno proclive allo shadow banking che ha pullulato in altri Paesi. In terzo luogo, conta moltissimo la nostra ancestrale (e prudenziale) cultura contadina (secondo la FAO i coltivatori diretti non modificano le loro tecniche tradizione se non vedono, in quelle nuove, la possibilità di quadruplicare i ricavi).

Cosa vogliono dire le tensioni nell’area dell’euro per noi? Il “Legal Working Paper” n. 10,2009 (che Il Sole-24 Ore del 25 aprile chiamava “introvabile” ma Il Tempo ne ha copia certificata) afferma , per bocca del direttore del servizio legale della Banca centrale europea, Pheobus Athanasiou (un giurista greco – un vero caso di menesi storica in questa tragedia)- definisce le condizioni per essere espulsi e dall’Unione Europea (Ue) e dall’Ume. Se non si mette in regola, Atene può essere cacciata dall’Ume e forse pure dall’Ue. Per questo, Portogallo e Spagna hanno i brividi.
La medicina è salatissima: una manovra di bilancio pari al 10% del pil da effettuarsi nell’arco di tre-cinque anni. Un’intensità pari al doppio di quella utilizzata dall’Italia negli Anni Novanta per essere nel gruppo di testa dell’euro. Inoltre ci vorrebbero aiuti non di 45 miliardi di euro ma di circa 75-80. In base alla loro analisi, i cristiano-sociali tedeschi chiedono che si seguano le procedure indicate da Athanassiou per mettere la Grecia alla porta. Un’espulsione – argomentano – eviterebbe il contagio a Portogallo e Spagna, servirebbe da monito e non richiederebbe una modifica dei trattati (che vietano “salvataggi” quale quello in atto).
Per l’Italia non c’è che una strada: rigore interne ed internazionale, senza buonismi e lacrimucce.

martedì 27 aprile 2010

LE PRIVATIZZAZIONI NEL 2009: OPPORTUNITA’ NELLE STRATEGIE DI USCITA DALLA CRISI ECONOMICA, In PROCESSI DI LIBERALIZAZIONE IN ITALIA

27/04/2010

LE PRIVATIZZAZIONI NEL 2009: OPPORTUNITA’ NELLE STRATEGIE DI USCITA DALLA CRISI ECONOMICA
Giuseppe Pennisi
Premessa

Nei Paesi Ocse, il 2009 è stato caratterizzato non solamente da un freno alle privatizzazioni (a ragione della crisi economica internazionale) ma anche da una forte ascesa dell’intervento pubblico, mentre, nei Paesi in transizione dall’economia pianificata al mercato e nell’economie emergenti, il processo di denazionalizzazione è proseguito secondo il ritmo degli anni precedenti la crisi, ove non più rapido. In breve, il 2009 è stato l’anno delle privatizzazioni asimmetriche.
Il tradizionale rapporto annuale della Reason Foundation, uno dei principali osservatori internazionali sulle privatizzazioni nei Paesi Ocse, afferma che “l’interesse nelle privatizzazioni rimane altissimo” (nonostante la crisi finanziaria ed economica) e che “oggi come non mai i Governi devono riesaminare con attenzione le loro priorità e concentrarsi sulle loro funzioni a loro essenziali utilizzando al meglio le capacità del settore privato in materia di gestione “. Il rapporto, però, pone l’accento non tanto sul processo di privatizzazioni quanto sui progressi in materia di partnership tra il settore pubblico e quello privato e di gestione privata in settori come gli istituti di prevenzione e pena e l’istruzione , specialmente negli Usa, anche se tratta pure di privatizzazioni in servizi pubblici quali i trasporti, l’acqua e lo smaltimento dei rifiuti (Reason Foundation, 2009). Non mancano certo episodi significativi di politiche di privatizzazione messe in risalto dalla Reason Foundation; il documento cita, in particolare, l’esempio della città di Chicago.
In generale, però, è l’aumento dell’intervento pubblico a dominare la scena nei Paesi Ocse.Negli Usa , l’indebitamento della pubblica amministrazione federale è giunto, nel 2009, al 12% del Pil principalmente a ragione dei salvataggio bancari ed industriali; lo stock complessivo di debito (pubblico e privato) supera il 300% del Pil,. Mentre , all’epoca della Grande Depressione degli Anni ’30, era giunto al 150% del Pil. Nell’Unione Europa (UE) e nell’unione monetaria in generale, l’espansione del debito, dell’indebitamento e dell’intervento pubblico causa rischi alla tenuta stessa della moneta unica. I consuntivi 2009 indicano che lo stock di debito e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni, giunti al 135% ed al 13% del Pil per la Repubblica Ellenica, toccano il 96% ed il 14% per l’Irlanda, il 75% e l’11% per la Spagna e il 91% l’8% per il Portogallo. In aggregato, lo stock debito pubblico per l’area dell’euro sfiora il 90%, principalmente, però, a ragione non delle intemperanze del “club Med” (Grecia, Portogallo, Spagna) e dell’Irlanda, ma della forte espansione dei disavanzi di bilancio di Germania e Francia sia per salvataggi bancari (ed industriali) sia per sostenere la domanda. Pure interpretando generosamente il “Protocollo” del marzo 2005 con il quale sono stati ammorbiditi i vincoli del “patto di crescita di stabilità” in caso di recessione prolungata, queste cifre sono molto lontane dei parametri definiti nei trattati (un tetto del 3% del Pil all’indebitamento netto ed un andamento tendenziale verso uno stock del debito pubblico non superiore al 60% del Pil). In questo quadro, l’Italia appare con la Germania e la Repubblica Ceca uno dei tre Paesi con il più basso “indice di malessere” nella nuova versione elaborata da Pierre Cailleteau – l’indice è, in questa versione, la sommatoria di tasso di disoccupazione e di indebitamento netto della pubblica amministrazione in percentuale del Pil (Riley, 2009). Un’indicazione che le politiche di freno alla spesa condotte dal Governo in carica stanno avendo risultati positivi. Ed anche una traccia della rotta da seguire per utilizzare al meglio gli “spiragli” delineati nel Rapporto di Società Libera dell’anno scorso.
Rispetto a questo quadro per i Paesi Ocse , il processo di privatizzazione continua con relativo successo nei Paesi in transizione. Nell’autunno 2009, il Journal of Economic Literature ha pubblicato una rassegna analitica di circa 300 studi (Estrin, Hanousel, Kočenda , Svejnar, 2009). Le privatizzazioni, adesso giunte alla “seconda generazione”, vengono esaminate in termini di efficienza, rendimenti and altri indicatori finanziari; i vari studi vengono anche distinti in base a specifiche metodologie econometriche al fine di valutarne la relativa affidabilità e focalizzare l’attenzione sui risultati più credibili. Viene anche tracciata una tassonomia tra effetti di breve e di medio – lungo periodo e sulla base delle pertinenti aree geografiche (Europa Centrale, Commonwealth degli Stati Indipendenti – ossia ex Unione Sovietica- e Cina). In generale , gli esiti finanziari ed economici sono positivi, specialmente se visti nel medio periodo e se la cessione avviene dallo Stato ad azionisti interni (spesso dubbi se avviene a stranieri). L’eccezione è la Cina dove i risultati sono molto diversificati; in generale positivi ma spesso insignificanti ed a volte negativi. Numerosi studi specifici possono essere consultati sulla biblioteca telematica Social Science Research Network.
E’ in questo contesto più generale che si devono soppesare i rischi e le opportunità di privatizzazioni in Italia come parte della exist strategy dalla recessione che ha colpito durante il Paese nel 2008-2009. Anche quest’anno il Rapporto si concentrerà su alcuni aspetti specifici, poiché solo entrando nello specifico tali rischi ed opportunità, possono essere colti e valutati: a) il sofferto avvio della privatizzazione di Alitalia; b) la denazionalizzazione del trasporto marittimo b) l’avvio della privatizzazione dei servizi pubblici locali. Nelle conclusioni, dato che questa serie ha ormai dieci anni, pare utile tracciare alcuni elementi di una teoria delle privatizzazioni elaborata anche sulla base del “caso Italia”.

Il Sofferto Avvio dell’Alitalia Privatizzata

Gli ultimi tre “Rapporti” di Società Libera hanno dedicato molto attenzione alla lenta, confusa e tardiva privatizzazione di Alitalia, una “delayed privatization” secondo la brillante definizione di un documento della Banca d’Italia (Bortolotti, Pinotti, 2008). Nei dieci anni precedenti la denazionalizzazione, tenere in vita il vettore “di bandiera” con alchimie finanziarie e sostegni pubblici è costato ai contribuenti 4 miliardi di euro; a questa cifra occorre aggiungere i 2,3 miliardi di euro per lo scorporo delle attività poste in liquidazione dal Commissario Straordinario da quelle cedute ai nuovi azionisti. Le analisi di Società Lbera terminavano con numerosi interrogativi sull’effettiva capacità della “nuova” azienda di essere in grado di reggersi sul mercato, in una fase, per di più, di recessione internazionale e di forte contrazione del traffico aereo. Venivano anche sollevati dubbi sulla compattezza dell’azionariato, pur vincolato a restare nella compagine per un cinque anni, e sul ruolo di AirFrance-Kml divenuto in effetti l’azionista più importante della nuova azienda. Veniva, poi, messo in rilievo come la parallela fusione tra la nuova Alitalia e AirOne riducesse drasticamente la concorrenza nel trasporto aereo, specialmente nelle tratte a maggiore redditività (come la Roma-Milano) e come , nonostante il forte intervento dei contribuenti, la nuova SpA tentasse di spiccare il volo con il peso di un forte indebitamento, e con il pericolo, quindi, di un volo da calabrone.
Pochi mesi dopo, l’avvio della nuova azienda, un economista particolarmente attento al settore (Giuricin, 2009a) preconizzava che prima o poi la “privatizzazione infinita” di Alitalia si sarebbe conclusa con una nuova nazionalizzazione, nel senso la compagnia sarebbe diventata una filiale di AirFrance-Klm, che è, di fatto, controllata dall’azionista pubblico. E’, comunque, indifferente se l’azionista di riferimento sia italiano o straniero – quel che conta è l’efficienza, l’efficacia, la competitività e la qualità del servizio. Non è, però, indifferente se esso sia emanazione di uno Stato (italiano o straniero) e considerazioni non economiche (e non inerenti a efficienza, efficacia, competitività e qualità del servizio) incidano nelle strategie aziendali e nella gestione dell’intrapresa.
La prima “relazione semestrale” del management al Consiglio d’Amministrazione della nuova Alitalia ha fatto pensare che i pronostici di Giuricin fossero corretti ed ha lasciato tutti insoddisfatti. Per l’analisi finanziaria, si rimanda a quella puntuale e dettagliata pubblicata su www.chicago-blog.it ; nessuna voce si è levata a mettere in discussione le cifre ed i calcoli ivi presentati (Giuricin, 2009 b). Occorre, sottolineare che la prima “semestrale” riguardava la fase di avvio: non si può chiedere ad un giovane che comincia a solcare un palcoscenico di essere ingaggiato dall’Old Vic per essere il protagonista dello shakespeariano “Amleto”. Inoltre , la “semestrale” si riferiva al periodo sino al 30 giugno non includeva i mesi tradizionalmente “pingui” : quelli estivi. L’aspetto più preoccupante risultante dal documento è che gli obiettivi posti dallo stesso management per la fase d’avvio non sono stati neanche sfiorati: rispetto agli obiettivi, i ricavi sono stati pari a poco più di un terzo, il prezzo medio effettivo del biglietto a meno del 15%, il “load factor” a meno del 20%. Differenze tra obiettivi e risultati di queste dimensioni e la probabilità di un peggioramento dell’Ebit (margine al lordo di tasse ed interessi) di 240 milioni di euro entro fine 2009 non possono non innervosire alcuni soci dell’impresa e suscitare perplessità sulla capacità del management di portarla all’approdo auspicato.
La svolta si sarebbe dovuta verificare in estate (con l’aumento stagionale del traffico passeggeri). E’ stata un’estate dura per tutte le compagnie aeree, tranne alcune low cost: lo documentano le analisi dell’Aita (Aita, 2009): a titolo indicativo nel 2009, negli aeroporti italiani il traffico passeggeri è diminuito del 3% ed il numero dei voli del 6%. Per Alitalia, però, l’estate è stata più dura che per altre aziende di trasporto aereo a ragione dei ritardi dei voli e del pasticciaccio brutto dei bagagli smarriti od inviati verso destinazioni differenti da quelle dei passeggeri; in luglio e soprattutto agosto, questi disservizi hanno riempito le pagine di giornali italiani e stranieri, dando l’impressione che tutte le responsabilità fossero di Alitalia (e non anche delle strutture aeroportuali). Come se ciò non bastasse, ci sono state nuove ondate di scioperi, proprio nei mesi estivi in cui il servizio sarebbe dovuto essere di più alta qualità. In autunno, sondaggi d’opinione stimavano un aumento della disaffezione della clientela (sia passeggeri sia cargo) nei confronti della compagnia.
Sempre in autunno , la stampa riportava il rischio di tensioni, anche gravi, tra i soci. Uno dei quali (AirFrance-Klm) avrebbe fatto sapere “off-the-record” essere in attesa di un miglioramento della congiuntura internazionale (e quindi dei propri conti) per acquistare l’intera azienda e di farla diventare una sua sussidiaria. Dal punto di vista del processo di liberalizzazione della società italiana, tale prospettiva è preoccupante unicamente perché equivarrebbe ad una nuova, almeno parziale, statalizzazione d’Alitalia. Potrebbe, però, portare ad una razionalizzazione del sistema aereo europeo (riducendo e rafforzando i gruppi in grado di affrontare le rotte intercontinentali), accentuando la concorrenza (se le regole del gioco sono stabilite, e monitorate, da un ‘autorità indipendente europea) e rendendo, di fatto, Alitalia il partner per le rotte mediterranee ed orientali di una grande multinazionale dell’aviazione civile.
Come avrebbe dovuto rispondere il management della compagnia alle cifre della prima “relazione semestrale” ed alle voci su tensioni all’interno della compagine azionarie (Pennisi, 2009)? Con un nuovo programma che avesse obiettivi tecnici e finanziari realistici e che fosse rivolto ai nodi strutturali: a) l’eterogeneità degli aerei (una delle cause primarie dei ritardi), b) l’integrazione con AirOne (e la situazione effettiva ereditata da AirOne); c) i tempi ed i modi per affermarsi come efficiente ed efficace compagnia nell’aerea europea e mediterranea, prima, ed avviare una rete intercontinentale, poi).
A fine 2009, risposte esaurienti a questi interrogativi non erano ancora giunte. Una serie di barlumi positivi, tuttavia, apparivano ad autunno inoltrato: in settembre, il 78% dei voli è arrivato in orario, grazie, soprattutto, però agli sforzi effettuati per aumentare la puntualità su due tratte specifiche: Roma –Milano e Palermo-Milano; il management stimava che la seconda semestrale 2009 avrebbe segnato un pareggio; il servizio relazioni esterne della compagnia sottolineava la riduzione della conflittualità. All’inizio di gennaio, il management preconizzava il pareggio di bilancio nel 2011.Altro segno positivo in dicembre: una serie di accordi code-sharing con Aeroflot (Bagnoli, 2009); da tempo, questa sembrava un’alleanza naturale poiché, dopo una drastica riorganizzazione, Aeroflot cercava un partner di qualità per una clientela di qualità (business e prima classe) nelle rotte internazionali (Pennisi, 2007)
Come valutare questi barlumi, ovviamente enfatizzati dai servizi relazioni pubbliche e stampa dell’azienda? Possono essere i segnali di una svolta e di un miglioramento complessivo unicamente se inseriti in una strategia diretta a rendere la compagnia effettivamente competitiva ed acquisire, quindi, una sempre maggiore quota del mercato internazionale (ora Alitalia ha una quota stimata tra il 4% ed il 2% del mercato mondiale- quindi, un’inezia in un’economia globalizzata). Ciò comporta – è vero –modifiche di contesto (ad esempio, la liberalizzazione dei voli intercontinentali) - che non rientrano nelle competenze dell’azienda, e che il Governo italiano può solo effettuare tramite accordi bilaterali. Altre modifiche di contesto (la privatizzazione degli aeroporti e l’attivazione di un mercato per gli slot) sono nell’ambito dell’azione d’indirizzo politico del Governo e di quella legislativa del Parlamento. Lo è, soprattutto, la semplificazione della regolamentazione e degli enti, autorità e commissioni (tra 8 a 10, a seconda del modo di calcolarli) che vigilano sul settore, spesso in modo contradditorio.
In questo campo, la nuova Alitalia è parsa fruire di privilegi più o meno indiretti, specialmente nelle interpretazioni normative dirette ad aumentare i costi e limitare l’attività delle low cost; alcune misure prese a fine 2009 hanno provocato una reazione molto vivace da parte dei social network come Facebook (Mingardi, 2010) e sembrano non essere in linea con la necessità di rafforzare la sicurezza aerea. Tali misure sono fortunatamente rientrate nella prima decade di gennaio 2010.
Quindi, il futuro della compagnia non dipende unicamente da strategie e da gestione aziendale ma anche da politiche pubbliche in cui si tenga conto che nel medio e lungo periodo protezionismi indeboliscono, invece di rafforzare. In armonia con il tema di questo capitolo, un’exist strategy (ossia una strategia per uscire dalla crisi finanziaria ed economica) richiede un miglioramento della competitività e deve scansare protezionismi diretti od indiretti quali quelli adombrati a fine 2009 .

Il Trasporto Ferroviario e Marittimo
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Sul mercato interno, dove la “vecchia” Alitalia ha avuto una posizione dominante (obiettivo ambito pure dalla “nuova”), il maggiore concorrente non sono (tranne che per il trasporto passeggeri verso e dalle isole) le low cost, ma la ferrovia. Competitore sempre più temibile man mano che l’Alta Velocità si estende e che la qualità del servizio ferroviario migliora. Le ferrovie non operano in condizione di posizione dominante ma, in gran parte del territorio, di vero e proprio monopolio: Trenitalia è un’impresa pubblica , controllata dalla SpA Ferrovie dello Stato di cui è azionista totalitario il Ministero dell’Economia e delle Finanze ; Ferrovie dello Stato,a sua volta, controlla il gestore della Rete, Rete Ferroviaria Italiana. Una privatizzazione delle ferrovie (non contemplata nei programmi di governo né nelle proposte dei partiti d’opposizione) è ostacolata sia da argomenti teorici sia da esperienze empiriche. Sotto il profilo teorico, uno studio recente di uno dei maggiori specialisti di storia del pensiero economico (Numa, 2009) dimostra che pure ai tempi dell’ortodossia liberale classica si confrontavano due scuole, nessuna della quale proponeva che il trasposto ferroviario venisse considerato un bene “puro” di mercato: Dupuit, il precursore dell’analisi costi benefici, lo riteneva un “monopolio di fatto” mentre Walras, uno dei padri del marginalismo, lo giudicava un servizio di pubblica utilità. Sotto il profilo dell’evidenza empirica, la denazionalizzazione delle ferrovie in Gran Bretagna è stato seguita da un raddoppio dei costi operativi e da aumenti molto forti dei sussidi pubblici ai gestori (che avevano minacciato la sospensione del servizio), oltre che da una riduzione della sicurezza e da un incremento dei sinistri, particolarmente di quelli più gravi (Shaoul, 2006). Viene, talvolta, proposto lo scorporo della rete da la SpA di cui Trenitalia è una sussidiaria; tale scorporo non solamente non compare nei programmi né del Governo né dell’opposizione ma , ove venisse realizzato, non comporterebbe un aumento della concorrenza se non si facessero avanti nuovi vettori. Flebili segni in tal senso sono spesso rientrati nel giro di pochi giorni. Una recente analisi comparata delle deregolamentazione delle ferrovie in Europa negli ultimi 20 anni fornisce utili indicazioni per la graduale e progressiva liberalizzazione del settore (Friebel, Ivaldi, Vibes, 2010).
Differente il caso del trasporto marittimo a cui si è accennato nel “Settimo Rapporto” di Società Libera. Dopo mesi di confronto sulle procedure per la privatizzazione di Tirrenia Navigazione SpA, a fine dicembre 2009 la Commissione Europea ha inviato all’Italia una lunga lettera nella quale le modalità dell'operazione previste dal Governo vengono ritenute "accettabili" e si sollecitano tempi rapidi per il riassetto, nonché si prospetta una procedura di infrazione che sarà, però, interrotta od archiviata "non appena" l'Italia si rimetterà in linea con il rispetto delle norme europee sul cabotaggio marittimo. Nella lettera si precisa, inoltre, che il servizio pubblico deve essere limitato alle linee per le quali la presenza ininterrotta durante tutto l'anno di altri operatori non è effettivamente assicurata. Inoltre, la durata dei contratti di servizio pubblico non deve andare oltre a quanto "strettamente necessario" per il successo della privatizzazione: non oltre otto anni, dunque, per Tirrenia Navigazione e fino a 12 anni per le società regionali. Ancora: l'Ue chiede procedure "trasparenti e non discriminatorie" nella gara per Tirrenia Navigazione; in particolare, il governo non dovrebbe imporre ai potenziali acquirenti condizioni di "natura pubblica", come il mantenimento dei livelli occupazionali, mentre le varie società dovranno essere vendute a condizioni di mercato e quindi a chi offre il prezzo più alto. La Commissione avvisa poi che, a riassetto avviato, valuterà se vi saranno "aiuti di stato" non compatibili con le norme Ue, mentre richiede che le risorse finanziarie per l'ammodernamento della flotta Tirrenia rientrino nell'ambito della compensazione del servizio pubblico. Inoltre, l'Ue chiede che eventuali ammortizzatori sociali siano applicati solo ai dipendenti licenziati in occasione della privatizzazione. Quanto alla privatizzazione delle società regionali, Bruxelles fa sapere che andranno "valutate caso per caso".
Il bando di gara è stato approvato. Secondo il Ministero delle Infrastrutture,la privatizzazione sarà completata entro il 2010. Non mancano nubi (quali la creazione di una “bad company” analoga a quanto fatto per Alitalia, scaricando sui contribuenti l’onere di debiti e di attività fuori mercato), ma nel complesso il processo pare avviato in maniera soddisfacente e tale da apportare un contributo positivo, ancorché limitato, all’exist strategy.
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La Liberalizzazione Infinita dei Servizi Pubblici Locali.

I temi della liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali sono stati trattati ampiamente nei tre Rapporti precedenti di Società Libera. Dopo anni di tentativi, nelle ultime settimane del 2009, la saga ha avuto una vera e propria svolta non nel senso previsto della “privatizzazione silenziosa” anticipata un anno fa (Società Libera, 2009) come conseguenza di un “grimaldello” incluso in una norma del 2008 sulla contrattualistica nel settore pubblico, ma in quanto risultato di un decreto legge per porre la normativa italiana in vari settori (non unicamente quello dei servizi pubblici locali) in linea con le direttive ed i regolamenti UE ed evitare, quindi, possibili “procedure d’infrazione”- come aveva enfatizzato già nella primavera l’allora Vice Presidente della Commissione Europea ed attuale Ministro degli Esteri, Franco Frattini (L’Occidentale, 2007). Il “decreto Ronchi salva-infrazioni” (il decreto legge così chiamato dal nome del Ministro per le Politiche Comunitarie), convertito in legge alla fine di novembre (Legge di conversione 166 del 20 novembre 2009). prevede che le gare ad evidenza pubblica diventano la regola per l'affidamento dei servizi (ad eccezione della distribuzione dell'energia elettrica, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali e compresa l'acqua che, però, rimane un “bene pubblico” sotto il profilo giuridico) da parte delle amministrazioni pubbliche. Le gestioni dovute ad un affidamento “in house” cessano alla data del 31 dicembre 2010; tuttavia, le società partecipate potranno proseguire dopo il 2010 e potranno mantenere i contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Per le società quotate; il termine slitta al 2013, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015. Inoltre, tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato “devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.
La normativa , salita alla ribalta per quella che è stata definita “privatizzazione dell’acqua”, in effetti, riguarda “la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Non rappresenta neanche una liberalizzazione a vasto raggio poiché concerne unicamente un numero limitato di servizi pubblici locali: l’esclusione dalla sua sfera applicativa dell’energia, del trasporto ferroviario e della farmacia comunali ne limita i contenuti in maniera significativa. Nonostante questi limiti, anche autorevoli commentatori considerati contigui all’opposizione riconoscono che si tratta di una svolta significativa, tentata per anni da Governi di differente ispirazioni politica, ma per la prima volta riuscita (Giannini, 2009).
A fine dicembre, il rapporto Isae sulla finanza locale (Isae, 2009) sottolineava la probabilità che il processo di liberalizzazione (e miglioramento della gestione) parta proprio dal settore idrico nel Mezzogiorno: il 76% dei 1300 comuni in Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia affidano i servizi connessi agli acquedotti o a SpA interamente a capitale pubblico od a strutture dell’amministrazione comunale- due forme di gestione che vengono spazzate via dalla nuova normativa. Sempre secondo il documento, il fabbisogno d’investimenti nel settore idrico dimostra che il Sud è il terreno ideale per sperimentare la riforma (per quando incompleta) dei servizi pubblici locali: stime di Coviri (Comitato di Vigilanza sul settore delle acque) e della Confservizi (l’associazione delle aziende pubbliche a livello locale) quantizzano a € 60 miliardi (di cui 24 nel Mezzogiorno) gli investimenti necessari nei prossimi tre decenni nel settore dell’acqua.
Se ben attuata, la svolta potrà contribuire alla exist strategy dalla crisi non solamente nel medio e lungo periodo (tramite il miglioramento della gestione risultante dall’innescamento della concorrenza , pur contenuta, nel settore) ma anche a più breve termine , contribuendo ad alleggerire il fardello dell’indebitamento degli enti locali , stimato in € 110 miliardi a cui aggiungere € 10 miliardi di crediti difficilmente esigibili. E’ un percorso – occorre ammetterlo- ancora tutto in salita. E’ stato, però, tracciato ed iniziato.

Una Teoria Economica delle Privatizzazioni

La letteratura sulla teoria economica delle privatizzazioni è molto vasta (per una rassegna recente, si veda Volokh, 2008). In generale , si fonda sull’ipotesi che gli imprenditori privati riescono a cogliere i segnali del mercato meglio e più speditamente dell’operatore pubblico ed analizza l’efficienza finanziaria, economica, sociale e politica dell’assetto proprietario (se privato o se con una più o meno vasta partecipazione dello Stato e delle sue diramazioni). Anche le teorie “positive” elaborate negli ultimi anni (Avishur, 2000), pur spiegando e modellizzando le varie modalità di privitazzazioni, non forniscono una spiegazione rigorosa delle ragioni economiche per cui a “ondate” di nazionalizzazioni seguono “ondate” di privatizzazioni. In Europa, ed anche in Nord America, ci sono state “ondate” vaste e durature di nazionalizzazioni negli Anni Trenta e nel periodo immediatamente successivo la fine della seconda guerra mondiale. Ad esse ha fatto seguito un “ondata” di privatizzazioni iniziata in generale negli Anni Ottanta (ma, come si è visto nei Rapporti di Società Libera cominciata in Italia con una decina d’anni di ritardo rispetto al resto del continente. Dal 2007, è in atto una nuova “ondata” di nazionalizzazione in quasi tutti i maggiori Paesi Ocse (come delineato nella Premessa a questo capitolo). L’Italia è stata un’eccezione; l’”ondata” nel resto dei Paesi Ocse ha frenato il processo in atto ma lasciando spiragli per una nuova fase come parte integrante della exist strategy dalla crisi economica e finanziaria che ha caratterizzato la seconda metà della prima decade di questo secolo.
Sarebbe banale spiegare queste “ondate” unicamente rispetto all’andamento dei cicli economici in quanto le fasi “nazionalizzazioni” hanno spesso coinciso o con profonde e lunghe recessioni; tra l’altro la fase successiva alla seconda guerra mondiale richiedeva, sì, lo smaltimento del forte debito pubblico accumulato durante il conflitto ma ha coinciso in gran misura con i “miracoli economici”, in cui l’esperienza dell’economia di guerra aveva diffuso la convinzione che la programmazione economica da parte dello stato fosse la leva necessaria per meglio indirizzare energie dell’intera economia (Kindelberger,1967; Janossy 1973).
Un approccio interessante viene presentato in un lavoro ancora inedito (al momento della stesura di questo testo) di due political economists francesi Rosa e Pérard della parigina Sciences Po in cui si presenta un modello esplicativo dei cambiamenti di perimetri tra pubblico e privato e della loro scansione temporale. Il modello comporta la costruzione di un processo di asta competitiva per i diritti di proprietà su imprese; i contendenti sono gli investitori privati e lo Stato. Nel modello , gli investitori privati attribuiscono valore ai rendimenti per gli azionisti, lo Stato alla sopravvivenza politica ottenuta tramite il trasferimento di cash flow a vari clientes politici. Le fasi di nazionalizzazioni e di privatizzazioni dipendono da quale tipo di investitore (i privati o lo Stato) hanno il costo opportunità relativamente più basso nel partecipare all’asta vincendola. Una verifica econometrica dell’ipotesi, su un arco di 15 anni (1988-2002) su otto Stati europei (Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia) convalida il modello e le sue ipotesi. Inoltre, la teoria spiega come e perché un regime totalitario come quello nazista abbia avuto una fase intensa di privatizzazioni di grandi industrie e di banche commerciali.
Quali le implicazioni ai fini della nostra analisi? Nei paragrafi precedenti di questo Rapporto sono state indicate alcune opportunità che le privatizzazioni nei comparti del trasporto aereo e marittimo e dei servizi pubblici locali (soprattutto quelli idrici) contribuiscano ad una exit strategy dalla crisi. Non sono state prese in considerazioni ulteriori privatizzazioni di Eni, Enel, Rai, Poste e Finmeccanica a ragione della situazione ancora turbolenta dei mercati finanziari (sempre che non siano d’interesse a “fondi sovrani” che negli ultimi tempi si sono rivolti al settore delle public utilities, degli USA – Bernstein, Lerner, Shoar, 2009).
Tuttavia, come sottolineato nel Rapporto 2009 di Società Libera l’informazione e l’analisi sul costo opportunità delle risorse nel settore pubblico è molto frammentaria ed incerta. E’ possibile che, anche a ragione della forte iniezione di liquidità effettuata, nei Paesi Ocse, nel 2008 e nel 2009 e dell’alto tasso d’indebitamento delle pubbliche amministrazione, che, una volta stabilizzati i mercati finanziari, ci siano le condizioni perché l’asta delle privatizzazioni riprenda nei termini delineati da Rosa e Perard.



Riferimenti bibliografici

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Rosa J-J, Perard E. (2010) When to Privatize, When to Nationalize in corso di pubblicazione ; si può richiedere a edouard.perard@sciences-po.org
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Società Libera (2009) Settimo Rapporto- Processo di Liberalizzazione della Società Italiana F. Angeli, Milano

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TRE DUBBI SULLA CAPACITA’ DEI GRECI DI METTERE IN ORDINE I CONTI Il Foglio 27 aprile

TRE DUBBI SULLA CAPACITA’ DEI GRECI DI METTERE IN ORDINE I CONTI
Giuseppe Pennisi
I negoziati in corso tra la Grecia, da un lato, e i rappresentanti del Fondo monetario (Fmi) e dell’Unione monetaria europea (Ume) ci riguardano molto più da presso di quanto non sembri. E non perché l’Economist di Londra sostenga che in caso di insolvenza da parte della Repubblica Ellenica e di contagio nei confronti di altri Stati dell’area dell’euro, dopo Irlanda, Portogallo e Spagna, l’Italia sarebbe a rischio di un fato analogo. Siamo entrati nel gruppo di testa della moneta unica con i conti in ordine e, con costanza e fermezza, siamo riusciti a mantenerli tali , nonostante i tremori ed i timori successivi all’11 settembre 2001 e la crisi finanziaria internazionale in atto dal luglio 2007. Allora perché preoccuparsi? Non certo per la spesa addizionale che comporta la nostra partecipazione all’eventuale programma Fmi-Ume (tanto più che si tratta di un prestito alla Repubblica Ellenica a tassi quasi di mercato). Ma per la capacità di tenuta dell’unione monetaria medesima rispetto a questo shock. La trattativa in corso in Atene non riguarda solo la Grecia ma l’essenza stessa dell’Ume e dei suoi trattati fondatori (Maastricht e patto di stabilità): lo mostrano a tutto tondo due documenti.
Il primo è “Legal Working Paper” n. 10,2009 (ma pubblicato in gennaio quando la “crisi greca” era già nelle prime pagine) il cui il direttore del servizio legale della Banca centrale europea, il giurista greco Pheobus Athanasiou (- definisce le condizioni per essere espulsi e dall’Unione Europea (Ue) e dall’Ume. Il monito è serio: l’Ellade le soddisfa tutte – quindi, se non si mette in regola può essere cacciata dall’Ume e, secondo un’interpretazione rigorosa delle pagine firmate da Athanassiou, pure dall’Ue.
Il secondo sono le varie bozze (i dettagli cambiano ogni ora) del piano di riassetto della Grecia: un elemento è costante- una manovra di bilancio pari al 10% del pil da effettuarsi nell’arco di tre-cinque anni. E’ fattibile? Per entrare nell’euro, negli Anni Novanta, l’Italia ha spalmato su circa dieci anni, una manovra analoga (il 9,5% del pil), aumentando di sette punti percentuali sul pil il carico fiscale e tagliando di due punti percentuali e mezzo le spese, azzerando in effetti l’investimento pubblica (lo sottolinea il documento Bankitalia 334/98). Il percorso italiano, inoltre, è stato interrotto da due “pause” (nel 1992, quando però proprio la “pausa” innescò la crisi) e nel 1994 (quando il Governo Ciampi ritenne da dare respiro al sistema economico dopo la maxi-manovra attuata dal Governo Amato). Quindi, ciò che si aspetta dalla Grecia è un “aggiustamento”, in termini tecnici, molto più intenso di quello effettuato dall’Italia. Stime econometriche (utilizzando un modello analogo a quello Fmi) suggeriscono che se i 45 miliardi di aiuti verranno erogati rapidamente e l’estero continuerà ad acquistare bonds greci al 6% -7% l’anno, la manovra comporterà crescita zero per almeno due anni (ed un aumento del tasso di disoccupazione al 12-13% della forza lavoro); la Grecia potrebbe sperare in un tasso positivo di crescita (ancorché molto basso – attorno all’1%) a partire dal 2014, non prima.
Ci sono legittimi dubbi che i greci siano in grado di sostenere una stretta di tale intensità. In caso d’insolvenza verrebbero penalizzate soprattutto le banche franco-tedesche (che detengono tra il 50% e l’80% del debito estero greco ). Ciò spiega perché i Governi di Parigi e Berlino siano i capofila dei piani di salvataggio. Tuttavia, da un lato, le banche francesi hanno (secondo tutte le stime) un tasso di esposizione verso la Grecia pari al doppio di quelle tedesche.
Per l’Italia si aprono due scenari. Se il salvataggio funziona (ma lo si saprà solo nel 2013-14) e blocca il contagio, adoperarsi per modificare i trattati e precisare quando e come mettere in atto operazioni analoghe nell’Ume. Se il salvataggio non funziona, prendere ripari in vista di una seria crisi dell’Ume.

Trappole e promesse del federalismo fiscale Ffewebmagazine del 27 aprile

Focus


Le architravi di una buona riforma? Incentivi di mercato e standard di servizi
Trappole e promesse
del federalismo fiscale
di Giuseppe Pennisi La grande (e lenta) riforma – il federalismo fiscale – in corso di messa a punto tramite una serie di decreti attuative, contiene molte promesse in cui, come sempre accade quando si è alle prese con riforme di questa portata, si annidano anche numerose trappole. Vediamo di individuarle, alla luce della letteratura più recente; è tanto vasta che alcuni titoli possono sfuggire a chi sta impostando i decreti legislativi. Occorre, in primo luogo, chiarire cosa si intende per “federalismo fiscale”. A mio avviso, la giustificazione più cogente è stata proposta, nel lontano 1997, da Yingyi Qian e Barry Weingast nel saggio Federalism as commitment to preserving market incentives (“Il federalismo come impegno a mantenere gli incentivi di mercato”) nel Journal of Economic Perpectives. Si basa sulla teoria degli incentivi che spiega perché alcune imprese funzionano bene e altre male. Il vero federalismo costringe a mantenere gli incentivi di mercato anche a chi ciò non vuole, in quanto solamente tramite incentivi di mercato le aree (o regioni, o Länder o States federati) hanno lo stimolo a massimizzare i benefici per le loro collettività e si pongono in uno spirito di sana “competizione” (dal latino “cum petere”, cercare insieme) nell’interesse di tutti. Come dimostrano le analisi empiriche che hanno meritato il Premio Nobel 1993 a Robert Fogel, il federalismo competitivo è stato la molla dello sviluppo degli States del Sud degli Stati Uniti, devastati dalla guerra di secessione della metà dell’Ottocento (quando il loro Pil pro-capite, leggermente superiore alla media nazionale prima del conflitto, ebbe una contrazione di oltre il 50%) .Quale che sia il modello specifico, il federalismo deve essere, al tempo stesso, politico, economico e burocratico. Il federalismo politico richiede che le decisione vengano prese a livello locale in gran parte delle materie che toccano la vita dei cittadini; devono ovviamente essere anche controllate con il voto popolare a livello locale. Non è necessario concentrare la funzione decisionale in un solo livello; di solito ce ne sono numerosi (ad esempio, nel federalismo Usa, lo Stato dell’Unione, la Contea e il Municipio). È essenziale, però, che ci sia chiarezza su quale livello è responsabile di cosa; senza tale chiarezza, non è possibile esercitare alcun controllo democraticoGli effetti della prima legislatura “devoluta” britannica, a cui s’ispira il modello che si sta iniziando ad attuare in Italia, è stato condotto da Mahmoud Ezzamel (Cardiff Business School), Noel Hyndham (Queen’s University di Belfast), Irvine Lapsey e Aage Johnsen (ambedue dell’Università d’Edimburgo) e June Pallott (University of Canterbury) e pubblicato alcuni anni fa nella rivista di Public Money & Management. Si concentra su un tema, a metà strada tra economia e politica: in che misura la “devoluzione” ha aumentato la “democratic accountability” (ossia la responsabilizzazione di politici e burocrati nei confronti degli elettori). La devoluzione ha innescato maggiore “apertura”, “trasparenza”, “consultazioni” e “verifica” specialmente per quanto riguarda finanza e politiche pubbliche; ha anche messo in moto un “information overload”, un “sovraccarico da informazioni”. Di conseguenza, chi fa politica dipende oggi più di ieri da “tecnici, consiglieri parlamentari e consulenti in generale che sappiano filtrare l’informazione”. Decide, però, in base ad analisi più ricche.Il federalismo fiscale non implica solamente di dividere le fonti di gettito tributario tra centro e periferie (nel caso italiano Regioni, Province - se esisteranno ancora -, Comuni) ma di definire il “nucleo duro” di competenze economiche essenziali da mantenere al centro e di “devolvere” il resto alle periferie. Non si può avere federalismo economico e pretendere “uniformità” di servizi ai cittadini su tutto il territorio nazionale. Tale “uniformità” impedirebbe le scelte delle periferie su priorità e livelli di tassazione; quindi, renderebbe o impossibile o finto il federalismo politico. Lo sottolinea efficacemente Learco Saporito che ha vissuto il processo che ha contribuito al federalismo fiscale in tre vesti differenti: da componente del Governo, da legislatore e da studioso di diritto. Il suo libro, rigorosamente giuridico, dimostra come dal 2001 (nuovo Titolo V della Costituzione) siamo in mezzo a un guado: lasciando la sponda napoleonica (ove pensassimo fosse adatta al 21simo secolo) ci siamo dati, mani e piedi, al federalismo burocratico senza avere definito il federalismo politico e quello fiscale. Non possiamo neanche più permetterci la scappatoia, molto mediterranea, di un federalismo finto. Lo afferma anche il volume della Fondazione ItalianiEuropei, uscito proprio all’inizio di gennaio. Il federalismo burocratico è quello degli uffici: ci devono essere burocrazie che rispondano ai responsabili del federalismo politico ed economico, e in ultima istanza agli elettori. Purtroppo, in Italia, la riforma del 2001 è stata un vero e proprio monumento a quel federalismo burocratico che, come indicato da Hongbin Cai e Daniel Treisman (ambedue della Università della California a Los Angeles, quindi molto distanti dalle nostre beghe) in un saggio di alcuni anni fa, corrode istituzioni ed economia se non è nell’ambito di un ben articolato federalismo politico ed economico.Fatta questa precisazione, occorre sottolineare che una delle promesse principali del federalismo fiscale è una migliore gestione della finanza pubblica – in termini sia quantitativi (riduzione del disavanzo e in prospettiva pareggio di bilancio, oltre che riduzione dello stock di debito pubblico in percentuale del pil) sia qualitativi (servizi più efficaci ai cittadini per unità di spesa). Non è una promessa priva di basi effettuali. Lori L. Lachman, Guillermo Rosa, Peter Lange e Alan Bester della Duke University hanno passato lustri a studiare questi temi. Di recente, hanno aggiornato e approfondito una ricerca sull’esperienza di quindici paesi dove vige il federalismo fiscale. Ne hanno pubblicato i risultati sulla rivista scientifica Economics & Politics, Vol. 19, pp. 369-420 in un saggio intitolato The Political Economy of Budget Deficits. Il lavoro è interessante per la metodologia econometrica utilizzata: dallo studio si ricava che dove le istituzioni preposte al controllo complessivo del bilancio – quali, in Italia, la Ragioneria Generale dello Stato – sono “forti”, il federalismo ha un impatto positivo sulla gestione e la qualità della spesa (grazie a un più stretto controllo sociale) e ne può comportare una riduzione complessiva.Le trappole non mancano e sono documentate da Wallace E. Oates con il suo solito stile brillante in un saggio (On the Evolution of Fiscal Federalism: Theory and Istitutions), pubblicato nel fascicolo di giugno del National Tax Journal e rilanciato, dallo stesso Oates, sul proprio blog. Oates è uno dei maggiori esperti, non solo Usa, della materia: basta consultare, su un qualsiasi motore di ricerca, la sua vasta bibliografia. La rassegna della teoria e dalla prassi condotta nel saggio (e ripresa nel blog) dovrebbe essere cibo importante ove non essenziale per chi opera nel settore, poiché è tra le più complete e più aggiornate nella letteratura internazionale di questi ultimi mesi. La trappola più insidiosa individuata da Oates sono gli “interfederal grants” (ossia i trasferimenti, a fondo perduto anche ove finalizzati a obiettivi specifici tramite provvedimenti “di scopo”) tra soggetti politico-territoriali della federazione o confederazione. «La letteratura chiarisce in modo eloquente che questi strumenti sono all’origine di serie distorsioni del federalismo fiscale». È preferibile consentire risorse proprie ai vari soggetti (imposta sul reddito regionale, accise su certe produzioni) e creare “rainy-day funds” per fare fronte a esigenze improvvise: una riduzione dell’attività economica in un’area (pensate cosa sarebbe successo nel Lazio se nel 2008 gli “irriducibili” avessero costretto Alitalia ad atterrare gli aerei e a mettere 20.000 persone in mobilità) o un’inattesa causa naturale (uragano, terremoto). Tali “rainy-day funds” consentono di superare la trappola dei trasferimenti.Per cogliere le promesse ed evitare le trappole, il nodo è la definizione degli standard minimi di servizi e costi. In questa materia, il contributo al tempo stesso più recente e più interessante è di Helmut Steitz della Università tecnologica di Dresda. Il lavoro Minimum Standards, Fixed Costs and Taxing Autonomy of Subnational Governments può essere richiesto direttamente all’autore poiché in corso di pubblicazione (seitz@tu-dresden.de). Si basa sull’esperienza tedesca, dove i Länder hanno una potestà fiscale molto limitata. Il lavoro ha una parte teorica ed una empirica. La seconda contiene indicazioni tecniche interessanti per la derivazione degli standard (il compito che dove essere affrontato in Italia nei prossimi mesi) e calcola gli effetti distributivi d’autonomia tributaria relativamente ampia, tenendo conto del meccanismo di “equalizzazione fiscale” (per i Länder orientali) messo in funzione in seguito all’unificazione. Contiene anche stime della spesa per gli standards minimi. In Italia – pochi lo sanno – circa cinque anni fa il Dipartimento per la Coesione e le Politiche di sviluppo (trasferito dal Ministero dell’Economia e delle finanze al Ministero dello Sviluppo economico) ha iniziato (in collaborazione con le Regioni) un interessante lavoro d’individuazione quantitativa degli standard di servizi alla collettività. Nelle prime fasi, il lavoro è stato accompagnato da incontri seminariali anche con specialisti provenienti dalle università. Fornisce un tassello importante per dare corpo alle promesse e non cadere nella trappole.Incentivi di mercato – come indicato da Yingyi Qian e Barry Weingast nel loro breve ma magistrale saggio di circa tre lustri fa – e standard di servizi – come proposto da Helmut Steitz – rappresentano le architravi per un federalismo fiscale che sia leva di sviluppo anche per le aree in ritardo.

27 aprile 2010

domenica 25 aprile 2010

IL WERTHER A PARMA SI ISPIRA AL TEATRO DI IBSEN Milano Finanza 24 aprile

Giuseppe Pennisi
“Werther” di Jules Massenet (in scena al Regio di Parma sino al 2 maggio) è riletto da Marco Carniti (di norma alla prese con la prosa e con il cinema) vede il debutto nel ruolo del trentenne Francesco Meli.
Carniti trasferisce la vicenda dalla Weimar dell’inizio del XIX secolo ad un’Europa vagamente nordica dell’inizio del XX. I bambini vestono alla marinara. Gli abiti delle Signore riflettono la moda dell’epoca. Soprattutto si sente odore di Ibsen e di Strindberg (o di Giacosa che, allora, era la versione nostrana dell’avvicinamento del teatro alla psicoanalisi). Sin dal corteo funebre che accompagna l’ouverture, si avverte una forte impronta psicoanalitica, più che romantica : Charlotte sposa Albert (pur amando Werther) per prestare fere alla promessa alla madre morente (il cui scialle è sempre in scena)ma la sua mente, non solo quella del giovane, gradualmente si sconvolge (come mostra il disordine crescente nella sua stanza). Sonia Ganassi, veterana del ruolo, dà bene questo taglio psicoanalitico al personaggio.
Meli, dal canto suo, regge una parte molto ancorata al registro di centro, ma non priva di impervi acuti. Ci si deve chiedere se dopo avere interpretato Idomeneo, Gabriele Adorno (in “Simon Boccanegra”) e Werther, potrà mai tornare ai ruoli “di agilità” rossiniani che hanno lanciato la sua carriera. Deliziosa Serena Gamberoni (Sophie), efficace Giorgio Caoduro (Albert), accurata la concertazione di Michel Plasson. Comprensibile il francese di tutti.

sabato 24 aprile 2010

al Regio di Parma un “Werther” in psicoanalisi Il Velino 23 aprile

CLT - Teatro, al Regio di Parma un “Werther” in psicoanalisi

Teatro, al Regio di Parma un “Werther” in psicoanalisi
Roma, 23 apr (Il Velino) - “I dolori del giovane Werther” di Goethe è un romanzo epistolare imperniato esclusivamente sui sentimenti. La sua pubblicazione, alla fine del Settecento, provocò un vero e proprio uragano in Europa perché interpretava lo spirito del tempo meglio di quanto scritto sino ad allora. Innescò anche numerose imitazioni come “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo. Lo sviluppo drammatico è quasi esclusivamente nelle crescente solitudine ed “ennui de vivre” del protagonista giovane aristocratico 23enne della Westfalia, innamorato della ventenne Charlotte , promessa sposa al suo migliore amico Albert (25 anni) poiché ciò è stato richiesto alla giovane dalla madre morente. Sempre più solo, Werther giunge al gesto estremo: suicidarsi con le pistole dategli dallo stesso Albert, consapevole della situazione. Goethe sviluppò in modo magistrale la dissonanza crescente tra la prestanza fisica, l’amore per la natura e i momenti di gioia del protagonista, da un lato, e la sua sempre più straziante disperazione. Nel romanzo, Charlotte non ha un vero e proprio sviluppo drammatico-psicologico: ama Werther ma deve sposare un altro perché così dicono le consuetudini del tempo e la parola data alla madre.

Pochi ricordano che il romanzo attirò quasi da subito autori di teatro in musica: già nel 1792 andava in scena un’opera di Kreutzer. Furono molto i musicisti italiani che trassero opere dal lavoro: Vincenza Pucitta (Venezia, 1802), Niccolò Benvenuti (Pisa , 1811), Roberto Gentili (Roma 1862). Non mancarono gli spagnoli , Eduardo Ximenes (Velancia , 1879). E naturalmente i tedeschi. Pochi di questi lavori sono oggi ricordati. L’unico sempre sulle scene è quello di Massenet. Ci volle una cooperativa di librettisti (Eduard Blau, Paul Millier, Geroges Hartmann) per permettere a Jules Massenet di farne un “dramme lyrique”, inizialmente rifiutato dai teatri francese, ma di successo in tutto il mondo dopo il trionfo a Vienna nel 1892. Più importante del libretto, peraltro fedele alla vicenda, è la scrittura orchestrale e vocale di Massenet ,specialmente nelle due arie di Werther sul tema del nesso tra l’uomo e la natura: in ambedue i casi, la natura è qualcosa di oggettivo (e di oggettivamente bello ed attraente) in cui il giovane proietta la propria tormentata vita interiore.

Nonostante si tratti di dramma in musica, molto francese e chiaramente agganciato all’inizio del Romanticismo, “Werther” ha ancora grande successo in Italia. Nel 2007, ci furono ben tre differenti allestimenti. Uno a Roma (regia di Alberto Fassini ripresa da Joseph Francioni Lee), molto oleografico in cui si giustapponeva la solitudine di Werther (sino al passo estremo) a un ambiente bigotto descritto nei minimi particolari con scene grandiose e tradizionali. La direzione di Alain Lombard era lirica. Giuseppe Filianoti era un Werther fervido ed ardente. Accanto a lui Beatrice Uria Manzon , bella e passionale. Un secondo a Napoli, offriva un Werther stilizzato e sensuale, in cui i due protagonisti erano in scena già nella sinfonia. La regia di Decker e le scene di Gussman non erano descrittive ma allusive. L’accento poggiava sugli stati d’animo. A differenza di Filianoti (un bari-tenore dal repertorio già vastissimo), José Bros è specializzato nei ruoli “belcantistici”: il suo era un Werther struggente e dalla vocalità spericolata ma mai volgare. Non fu facile essere sexy (come voleva Decker) per Sonia Ganassi, la cui Charlotte giocava interamente sull’abilità vocale. Un terzo allestimento, innovativo e inconsueto, ci fu a Savona e Rovigo. Nel 2009, un “Werther” all’acquerello (con Filianoti nel ruolo del protagonista) si è visto al teatro Cilea di Reggio Calabria.

Sino al 2 maggio è in scena al Teatro Regio di Parma l’edizione approntata tre anni fa per Savona e Rovigo. Nel tempo è cresciuta ed è diventata più interessante di quanto non lo fosse nella primavera 2007. Il regista Marco Carniti (le scene sono di Alessandro Chi) trasferisce la vicenda dalla Weimar dell’inizio del XIX secolo a un’Europa vagamente nordica dell’inizio del XX. I bambini vestono alla marinara. Gli abiti delle signore riflettono la moda dell’epoca. Soprattutto si sente odore di Ibsen e di Strinberg o di quel Giacosa che, allora, era la versione nostrana dell’accostarsi del teatro alla psicoanalisi (si pensi a “Tristi Amori”). Sin dal corteo funebre che accompagna l’ouverture, si avverte una forte impronta psicoanalitica più che romantica: Charlotte acquista un ruolo centrale. La promessa alla madre morente (il cui carro funebre attraversa il palcoscenico durante l’ouverture e il cui scialle è sempre in scena) gradualmente sconvolge la sua mente e non solo quella di Werther. Lo dimostra il disordine crescente nella sua stanza. Nonché nello studio del protagonista che si spara tra cataste di libri. Sonia Ganassi, veterana del ruolo, dà bene questo taglio psicoanalitico al personaggio. Rispetto alla versione napoletana di tre anni fa, ha perso peso, ha costumi che meglio le si adattano ed è diventata complessivamente più attraente. Francesco Meli, dal canto suo, regge una parte molto ancorata al registro di centro, ma non priva di impervi acuti. Sfoggia un fraseggio elegante e un “legato” delicato e , soprattutto, affronta con disinvolture le “mezze-voci” richieste dalla partitura spesso subito dopo momenti “spinti” Ci si deve chiedere se dopo avere interpretato Idomeneo, Gabriele Adorno (in “Simon Boccanegra” circa un mese fa sempre a Parma) e Werther, potrà mai tornare ai ruoli “di agilità” rossiniani che hanno lanciato la sua carriera. Deliziosa Serena Gamberoni (Sophie); dà al personaggio una solida consistenza psicologica, togliendola dagli schemi consueti di farne una pupattola alla Pollyanna. Efficace Giorgio Caoduro (Albert). Accurata la concertazione di Michel Plasson. Ottimo il francese dei due protagonisti , buono quello degli altri.

(Hans Sachs) 23 apr 2010 13:57

giovedì 22 aprile 2010

Collegialità, per sciogliere i nodi dell'economia in Ffwebmagazine 22 aprile

L'Europa e i rischi di una nuova crisi
di Giuseppe Pennisi Nella settimana appena iniziata il Global Financial Stability Report (che verrà presentato alla stampa a Washington il 20 aprile) e il World Economic Outlook (la cui presentazione avverrà il 21 aprile sempre nell’ambito delle riunioni primaverili degli organi di governo di Banca mondiale e Fondo monetario) tratteggeranno una ripresa lenta per l’Europa e il rischio di una nuova crisi che, questa volta, potrebbe esplodere in quel Vecchio Continente che – lo mostra a tutto tondo il bel film finanziario The World’s Next Supermodel di Ijsbrand van Veelen, ancora non distribuito in molti paesi europei – è riuscita a dare prova di resilience (resistenza) nel 2007-2009. I testi dei due documenti sono già in circolazione in quanto approvati dai consigli di amministrazione delle due istituzioni due settimane fa e, quindi, a disposizione delle diplomazie economiche internazionali. Giovedì 15 aprile, il Bollettino mensile della Banca centrale europea aveva già lanciato un avvertimento e dai suoi felpati uffici erano giunte voci sul rischio di insolvenza da parte dell’Irlanda, del Portogallo e della Spagna.

Dove si annida ora il rischio europeo? Sta venendo al pettine – lo documenta uno studio della università di Maastricht, che ha ricevuto molto attenzione a Washington (e non solo) – un nodo di cui pochi si sono accorti: un’analisi dettagliata della contabilità di un campione delle principali banche indica che alcuni paesi (Grecia ed Irlanda in primo luogo ma anche Spagna e Portogallo) hanno trasformato i mutui sub-prime (specialmente quelli nelle attività d’istituti a partecipazione statale) in debito sovrano. L’analisi conclude che c’è la minaccia di default della Grecia e dell’Irlanda tale «da non farci escludere un contagio nell’area dell’euro nel prossimo futuro». A conclusioni in parte analoghe giunge un lavoro interno (il paper n. 1001) della Banca centrale spagnola sull’andamento dei prezzi dell’edilizia residenziale nei maggiori paesi dell’area dell’euro. Più specificatamente guardando ad Atene ed alle sue politiche, una vera e propria squadra di economisti greci, nell’ultimo numero dell’International Journal of Economic Science and Applied Research, esamina l’andamento del doppio deficit (conti pubblici e conti con l’estero) della Repubblica ellenica negli ultimi 18 anni.

Il verdetto è amaro: dopo lustri di vita “allegra” al di sopra dei propri mezzi, la “sostenibilità – del doppio disavanzo - è debole”. In parallelo, dall’università di Tilburg in collaborazione con quella Princeton, è appena arrivato un nuovo modello da cui si evincono i rischi di contagio, mentre dalla serena Lovanio, il titolare della cattedra di diritto europeo, Damien Gerard, avverte, in un saggio la cui pubblicazione è programmata per maggio, che le paratie Ue – un misto di concorrenza e regolazioni – non sono in grado di evitare una trasmissione di una crisi valutaria da uno Stato membro all’altro.

Ce n'è, quindi, abbastanza per dare kirkegarderiani timori e tremori anche a chi, come il Cancelliere della Repubblica Federale, deve tenere gli occhi puntati sui sondaggi e suoi concittadini la cui età di pensionamento è stata portata a 67 e non gradiscono aiutare i greci che scioperano contro la proposta di innalzare la loro (attualmente a 60 anni). Accantonando i problemi interni della Germania, quali i rischi maggiori per i paesi dell’Ue (Italia inclusa) che fanno parte della ciambella (da lanciare – ricordiamolo – solo se Atene lo chiede in quanto sul punto di affogare)? A mio avviso, potrebbe ripetersi quanto avvenne nel caso della crisi argentina del 1999-2002.

Rimasti scottati con i tango bonds, saranno rari i risparmiatori italiani (ma non solo) che cederanno alle lusinghe di eventuali kàlamantianos bonds (dal nome della danza nazionale greca); le stesse banche centrali li terranno nelle loro casseforti senza metterli sul mercato del dettagli. Ne soffrirà comunque l’unione monetaria non soltanto perché si accentueranno le tensioni nel suo seno. Uno dei “padri” dell’economia tedesca, Joachin Starbatty, ora professore “emerito” all’università di Tubinga (e ascoltato a Berlino) ha pubblicato, su 120 quotidiani nazionali e internazionali, un appello affinché la Germania lasci l’attuale eurozona per costruirne un’altra “con gli Stati che ne sono all’altezza”. L’Italia, fa capire Starbatty, non è tra questi. Grazie al cielo, Starbatty è “emerito” e, come tale, ha autorevolezza ma non voce in capitolo. Un comitato di economisti tedeschi ha iniziato la raccolta di firme per un ricorso alla Corte Suprema della Repubblica Federale contro l’eventuale prestito alla Grecia (ed ad altri Stati iper-indebitati della zona euro).

Ove ciò non bastasse, giungono notizie preoccupanti dall’altra sponda dell’Atlantico: le accuse pesantissime dell’organo americano di controllo dei mercati azionari (la Security and Exchange Commission) nei confronti di Goldman Sachs uno dei cui programmi d’investimento avrebbe “frodato” i risparmiatori/investitori. In questo quadro si situa la politica economica dell’Italia: grazie ad un’abile manovra di bilancio , abbiamo dato prova di resilience nella crisi 2007-2009. Saremo in grado di dare una prova analoga e di rispondere al tempo stesso alle esigenze dei ceti e delle aree più deboli nella nuova tempesta di cui si vedono già nere nuvole piovose?

L’ultimo Bollettino della Banca d’Italia, diramato il 15 aprile, mostra un vero e proprio scatto del made in Italy, dimostrazione della capacità dei nostri esportatori e delle politiche in loro supporto. Al tempo stesso, però, la ripresa è lentissima ed i consumi frenano a ragione della modesta propensione delle famiglie (che temono una nuova crisi). Il problema è speculare a quello degli anni Ottanta quando si dovette, al tempo stesso, ridurre l’inflazione e sostenere la crescita (con particolare attenzione alle fasce ed ai territori più fragili).

Non basta contare sui sentiments degli italiani e ripetere che siamo stati bravi negli ultimi due anni e lo saremo ancora di più in quelli successivi, ove il peggio non fosse ancora passato. Da un lato, occorre dare corpo alla promessa in base alla quale da tre lustri gli italiani danno e confermano fiducia al centrodestra: ridurre l’oppressione tributaria. Da un altro, mantenere il rigore dei conti pubblici: molto si potrebbe fare riducendo drasticamente l’Himalaya dei residui passivi annidati in contabilità speciali. Da un altro, ancora, fare leva sulla grande opportunità di uniformità politica tra centro e Regioni per lanciare un vasto programma di sviluppo concentrando investimenti, liberalizzazioni e ri-regolazione su alcune aree specifiche. In questo quadro, infine, occorre inserire le grandi riforme.

Nessuna di queste linee è semplice. È essenziale un dibattito a differenti livelli - quello tecnico (tra economisti affini all’attuale maggioranza), quello politico (in seno al governo) e quello parlamentare.
Il magnate della siderurgia Andrew Carnegie volle, nel suo testamento, una lapide in cui ci fosse (oltre al nome e al cognome ed alle date di nascita e morte), un’unica frase: «Ebbe la fortuna di avere collaboratori sempre più brillanti di lui». Un elogio a quella collegialità ora quanto mai essenziale.

22 aprile 2010

mercoledì 21 aprile 2010

Banche, giubbe grigie e giubbe blu Il Velino 21 aprile

Banche, giubbe grigie e giubbe blu

Roma, 21 apr (Il Velino) - La nostra infanzia (almeno di coloro della mia generazione) è stata nutrita non da Nutella ma del colore delle giubbe, dei soldati della Guerra di Secessione americana, grigie quelle dei “sudisti”, blu quelle dei “nordisti”. In “Via col Vento” di Victor Fleming (1939, ma arrivato in Italia soltanto nel 1948), si vedevano quasi esclusivamente giubbe grigie, ma in “La legge del signore” di William Wyler (1956), “Soldati a cavallo” di John Ford (1959), “Shenandoah, la valle dell’onore” di Andrew McLaglen, gli spettatori (delle seconde visioni- dove era tollerato fare chiasso in sala) erano divisi in schiere che parteggiavano apertamente o per le giubbe “grigie” o per quelle “blu”. Siamo tornati a schieramenti analoghi dopo la richiesta della Lega Nord di avere una maggiore presenza nel sistema bancario? Credo che la questione meriti una riflessione più meditata di quella, superficiale e frammista a sarcasmo, che si è letta in molti giornali negli ultimi giorni.

In primo luogo, a mio avviso, una gara tra giubbe grigie e giubbe blu (senza arrivare all’incendio di Atlanta o alla battaglia di Manassas) , è preferibile alla situazione che ha prevalso tra gli anni Sessanta e la fine degli Anni Ottanta quanto le nomine negli istituti di credito (in gran misura controllati dallo Stato) venivano fatte tramite un vero e proprio “Cencelli bancario”, nonostante pareri delle Commissioni parlamentari e della Banca d’Italia (spesso mere formalità): in una sola sessione del Comitato Interministeriale del Credito e del Risparmio vennero nominati 120 Presidenti e Vice Presidenti di banche (anche per coprire prorogatio decennali). Le privatizzazioni ed il riordino del sistema bancario italiano attorno ad un numero limitato di poli fanno sì che tale prospettiva è fortunatamente non più proponibile. In secondo luogo, la normativa bancaria in vigore prevede che le Fondazioni (che controllano gran parte degli istituti) abbiano, nei loro organi di governo, rappresentanti degli enti locali. Dove tali enti hanno al loro volante la Lega od altra formazione politica è consequenziale che tali rappresentanti riflettano il conducente e siano da essi indicato. Ciò non significa un ritorno al “Cencelli bancario” ma applicazione di norme costruite con la logica (non banale) di un ancoraggio al territorio. In terzo luogo, anche se manca un’anagrafe od una banca dati del comparto è sufficiente scorrere gli organi direttivi dell’ABI per toccare con mano che già oggi le giubbe blu sono molto più numerose delle giubbe grigie.

Le ragioni sono molteplici. Una non secondaria si riallaccia alle vicende delle due principali banche meridionali la cui gestione è stata tale da porle sull’orlo del fallimento e farle “salvare”, per incorporazione o fusione, da istituti del Nord (tramite una strategia organizzata dalla Banca d’Italia ed attuata prima dell’entrata in vigore dell’unione monetaria europee, successivamente sarebbe stata possibile solo la liquidazione forzosa). Di conseguenza, la richiesta della Lega è in gran misura già nei fatti. In quarto logo, un ricordo personale: quando era direttore generale dell’ABI, Felice Giannani amava ripetere, tra il serio ed il faceto, che nel secondo dopoguerra il Nord aveva effettuato un vero e proprio take over di gran misura della finanza e dell’industria ma – helas!- aveva snobbato la pubblica amministrazione. Con un take over pure là, la modernizzazione dell’Italia sarebbe stata più rapida.

(Giuseppe Pennisi) 21 apr 2010 09:26

martedì 20 aprile 2010

ALITALIA SULLA BOCCA DEL VULCANO Il Tempo del 20 aprile

ALITALIA SULLA BOCCA DEL VULCANO
Giuseppe Pennisi
Cosa implica l’interruzione di traffico aereo, causata dall’eruzione (ancora in corso) del vulcano nella lontana Islanda, per le compagnie aree in generale e per la nuova Alitalia in particolare? E’ una domanda che pochi si pongono in questi giorni, poiché si è preoccupati, principalmente, ed a ragione, del caos che il sinistro sta causando per i passeggeri e per le merci, nonché per i suoi effetti sulla fragile ripresa in atto in Europa dopo una severa contrazione dell’economia. E’ un interrogativo, tuttavia, che va posto non solo per gli aspetti che l’impatto dell’eruzione ha sui conti delle compagnie ma per implicazioni più vaste di politica economica.
L’ACI –Europe (un’associazione che raggruppa 400 aeroporti europei in 46 Paesi) ha diramato la sera di domenica 18 aprile una stima secondo cui i disagi sino ad allora hanno comportato per le compagnie aeree europee una perdita di entrate di un miliardo di euro circa; a questa cifra si devono sommare le spese aggiuntive per dare assistenza ai passeggeri. La perdita di entrate e l’aumento di uscite cresce ogni ora, non solo ogni giorno che il fenomeno persiste. Per la nuova Alitalia si parla di un costo addizionale di 10 milioni di euro al giorno. E’ difficile dire sino a quando durare la situazione in atto e quanto ci vorrà per tornare ad un quadro ordinato di trasporto aereo in Europa.
Il Tempo può esaminare questi numeri con distacco e distanza – sine ira ni studio , come ci veniva insegnato al liceo quando leggevano i testi di Virgilio – perché abbiamo analizzato per anni con occhi critici e severi le vicende di quella che , in un bel saggio, Andrea Giuricin ha chiamato La privatizzazione infinita della compagnia. Il danno si presenta , per l’Alitalia, più serio che per altre compagnie perché arriva in un momento in cui dopo un avvio travagliato dava ogni giorno segni di miglioramento; secondo le statistiche internazionali, negli ultimi mesi era diventata la società aerea più puntuale ed aveva anche portato il load factor, il coefficiente di riempimento degli aerei, a standard elevati. Gli effetti dell’eruzione- nel gergo delle compagnie di assicurazioni anglosassoni lo chiamano “Act of God” (ossia azione imprevedibile venuta dal Cielo) ! – rischia di mandare a monte gli sforzi per portare a termine il risanamento.
Ciò non è unicamente un problema aziendale, ma anche un nodo di politica economica non solamente per il ruolo che Alitalia e l’indotto hanno nel progresso del Paese ma anche e soprattutto perché la politica industriale italiana si base in grande misura sul trasporto aereo. Ciò non vuole necessariamente dire contemplare passi indietro nella privatizzazione infinita tramite finanziamenti pubblici sotto varie forme di incentivi. Alcune misure di sollievo possono essere formulate ed attuate tramite la regolamentazione. Dato che – come si è visto – il problema riguarda non solo l’Alitalia ma tutte le compagnie europee, di grandi e piccole dimensioni, l’Italia potrebbe prendere un’iniziativa appropriata in sede in Ue.

lunedì 19 aprile 2010

Opera, a S. Cecilia il doppio volto della Firenze rinascimentale Il Velino 19 aprile

CLT - Opera, a S. Cecilia il doppio volto della Firenze rinascimentale


Roma, 19 apr (Il Velino) - “Eine florentinische Tragödie” (“Una tragedia fiorentina”), del compositore austriaco Alexander Zemlinsky (1871-1942), è un atto unico breve (50 minuti) che richiede non solo un grande organico, ma anche tre grandi voci e tratta con estrema crudeltà di adulterio, sesso, tradimento e omicidio in un quadro intriso di decadentismo. “Gianni Schicchi” di Giacomo Puccini (1858-1924) è un’opera comica, quasi polifonica data la molteplicità delle voci (14 solisti), di durata analoga e densa di ironia su vari aspetti della vita, dall’imbroglio, alla cupidigia, all’amore. A una lettura superficiale poteva sembrare un’idea ardita accostare nella stessa serata questi due splendidi atti unici eseguiti in forma di concerto, entrambi ambientati a Firenze. Il tentativo lo ha voluto realizzare a Roma l’Accademia nazionale di Santa Cecilia. Già era successo alla Scala cinque anni fa, mentre nel 1998, a Firenze l’atto comico con cui Puccini conclude il Trittico era stato accoppiato con un altro lavoro di Zemlinsky, “Der Zwerg” (“Il nano”) crudele quanto “Eine florentinische Tragödie”, se non di più. Tuttavia tra i due lavori ci sono molti nessi. Quello di Puccini è quasi coetaneo a quello di Zemlinsky (entrambi realizzati intorno al 1917); utilizzano sia l’uno che l’altro un grande organico orchestrale (quello dell’austriaco è quasi il doppio di quello del lucchese); si svolgono nella Firenze tra Medio Evo e Rinascimento; hanno libretti di grande pregio letterario (“Eine florentinische Tragödie” è su un testo di Oscar Wilde e “Gianni Schicchi” su uno di Gioacchino Forzano). Infine, ma si tratta di dettagli, Puccini aveva pensato di mettere in musica “Eine florentinische Tragödie” in traduzione italiana (includendolo in quello che sarebbe diventato Il Trittico) ma ci rinunciò per vari motivi. Il lavoro di Wilde venne tuttavia messo in musica, in italiano, da Mario Mariotti, premiato in un concorso per giovani compositori e rappresentato nella stagione del Teatro dell’Opera del 1914.

Le vicende biografiche di Zemlinsky sono poco conosciute. Di Mariotti, addirittura, sembra essersi persa ogni traccia. “Alexander Zemlinsky – scriveva Arnold Schömberg nel 1949 - è colui al quale sono debitore di quasi tutto quello che so di tecnica e di problemi del comporre. Ho sempre fermamente creduto che sia stato un grande compositore e ne sono convintissimo ancora oggi: forse il suo tempo verrà prima che ce lo aspettiamo”. Zemlinsky, suo cognato e maestro, era morto sette anni prima poverissimo a Larchmont, vicino a New York, dopo aver tentato disperatamente di affermarsi negli Usa. Il suo lavoro più complesso, “Köning Kandaules” (“Il re Kandaules”), da un soggetto di André Gide venne respinto dal Metropolitan Opera in quanto ritenuto eccessivamente scabroso. D’altronde, anche un suo estimatore come Theodor W. Adorno, considerava “ineseguibili a causa del loro soggetto” i suoi lavori per la scena. E così, mentre i suoi allievi – oltre a Schömberg, Webern, Korngold – mietevano allori e la prima donna di cui si era innamorato, Alma, sposava Gustav Mahler, Zemlinsky faceva il professore di composizione e il direttore d’orchestra, spesso in teatri secondari. Solo dal 1980, quando “Der Zwerg” e “Eine florentinische Tragödie” furono messe in scena dall’Opera di Amburgo, Zemlinsky è stato riconosciuto tra i maggiori autori del teatro musicale della prima metà del Novecento. I suoi drammi in musica sono brevi e molto intensi, in uno stile eclettico, a cavallo tra XIX e XX secolo e hanno successo soprattutto tra i giovani. Per questo motivo negli ultimi 30 anni vengono rappresentati frequentemente non solo in Germania e in Austria ma anche in quell’America che all’esule ebreo aveva sbattuto la porta in faccia.

L’Accademia di Santa Cecilia ha fatto, senza dubbio, un grande sforzo produttivo, affidando i due lavori alla bacchetta di Vladimir Jurowski – uno dei pochi direttori d’orchestra, con James Conlon, in grado di dare la “tinta” giusta a Zemlinsky e anche di trovare il brio sardonico e toscano di Puccini. I lavori sono stati presentati più in mise en éspace (forma semi-scenica con recitazione ma senza scene e costumi) e con due cast differenti. Su una pedana dietro l’orchestra , Nikolai Schukoff, Sergj Leiferkus e Aline Coote in “Eine florentinische Tragödie”. In un gioco di sedie di fronte all’orchestra, Juan Pons, Adrìane Kucerova, Sara Mingardo, Saimir Pirgu, Luigi Roni, Gregory Bonfatti, Vittorio Prato, Rosanna Savoia, Anna Maria Chiuri, Giulio Mastronotaro, Marta Pacifici, Marcovalerio Marletta, Massimo, Simeoli , Andrea D’Amelio e Gian Paolo Fiocchi in “Gianni Schicchi”. Due cast di livello che si sono meritati caldi applausi.

(Hans Sachs) 19 apr 2010 12:07

domenica 18 aprile 2010

MUSICA ROMANA: UN TOCCASANA IL DECRETO FUS Il Tempo 18 aprile

MUSICA ROMANA: UN TOCCASANA IL DECRETO FUS
Giuseppe Pennisi
Ci spiace. Ma non ci accodiamo al coretto a cappella che la mattina del 17 aprile ha sparato sul decreto legge in materia di fondazioni lirico-sinfoniche. Da un lato, il vostro “chroniquer” è sempre stato stonato. Da un altro, il provvedimento è un primo passo sulla “strada giusta” (come sostiene Filippo Cavazzoni - unica voce dissidente, unitamente alla mia, dal “coretto”- sul”Chicago Blog” dell’Istituto Bruno Leoni, non certo contiguo al Governo). Da un altro ancora, il decreto contiene misure importanti sia immediate sia in potenza per dare a Roma la centralità che la capitale merita.
La prima bordata di critiche da parte del coretto riguarda la necessità di una misura d’urgenza come un decreto legge. Con 7 delle 14 fondazioni con i bilanci consuntivi in rosso, tre appena uscite dal commissariamento, altrettante prossime ad esserlo, con sovvenzioni pubbliche (pur pari alla metà dell’intero Fus, Fondo unico per lo spettacolo) che non coprono il costo dei dipendenti (una voce in vera e propria escalation), da due anni sostengo su Il Tempo l’urgenza di prendere misure prima che la lirica passi dalla sala di rianimazione alla camera ardente. L’intervento, indispensabile, è sulla maggiore voce di costo: il personale, allineandone la contrattazione ed altre regole al resto del settore pubblico (dato che Pantalone lo paga interamente). E’ difficile capire perché molti teatri italiani (con 7-10 opere l’anno in cartellone) hanno un organico analogo a quello della Staatsoper di Vienna (che nel 2010 offre 50 titoli e 10 nuovi allestimenti). Contrattazione nazionale tramite la mano pubblica (nel caso italiano, l’Aran), assunzioni legate al turnover e blocco delle abitudini di alcuni di non presentarsi alle prove per svolgere altra attività professionale sono misure in atto in Germania, Austria, Francia, Benelux, oltre che negli Usa e pure in Russia, nei confronti delle quali è difficile capire le proteste e le minacce di occupazione dei teatri. Portata l’Italia nell’euro, dobbiamo portare le migliori prassi europee nella Penisola. Pure nei teatri.
Roma ha un posto privilegiato nel decreto in quanto si riconoscono le esigenze d’autonomia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia per mantenere, ed accrescere, quello standard internazionale che la ha resa famosa nel mondo. Ed il Teatro dell’Opera? Avremmo voluto che avesse anche lui un ruolo privilegiato, dato il carattere di rappresentanza del teatro lirico della capitale (già, peraltro, riconosciuto per legge). Il decreto, però, è solo un primo passo. Il Teatro dell’Opera ha nuovo Sovrintendente, un nuovo Direttore Artistico e un nuovo CdA: diamo loro il tempo di presentare una programmazione di livello e di attuarla (attirando anche soci privati) in modo il teatro a Piazza Gigli possa fruire di uno status analogo a quello della Scala. Un tempo – occorre ricordarlo – il Teatro dell’Opera vinceva gare con la Scala (in termini di quantità e qualità di offerta); non è, quindi, un traguardo irraggiungibile.