sabato 30 gennaio 2010

Verdi nel suo Regno è un compositore incolore Milana Finanza 30 gennaio

Verdi nel suo Regno è un compositore incolore
Di Giuseppe Pennisi

inscena

Un giorno di Regno, opera con cui si inaugura la stagione del Teatro Regio di Parma, rientra nel progetto che intende presentare entro il 2013, centenario della nascita di Verdi, tutte le 27 opere e di diffonderle in un cofanetto dvd. È la seconda opera del compositore, un commedia comica, genere a cui tornò soltanto 50 anni più tardi con Falstaff. Composta in un periodo al compositore morirono prima i due figli e poi la moglie, l'opera restò un giorno solo alla Scala. È stata ripresa sporadicamente nell'Ottocento. Nonostante negli anni 60 Massimo Mila e Gabriele Baldini l'abbiano rivalutata, la sua messa in scena è davvero una rarità. L'intreccio – tratto da una commedia francese messa in musica più volte – riguarda i tentativi di un nobile spiantato di farsi credere il Re di Polonia allora in esilio. Non mancano situazioni divertenti nel libretto, ma la partitura del 27nne Verdi è piuttosto incolore, specialmente se raffrontata con ciò all'epoca offriva Rossini e con l'eleganza proposta da Donizetti. Non mancano momenti musicali di livello quali il duettino tra i due bassi. Ben caratterizzato il personaggio della Marchesa del Poggio. La regia di Pierluigi Pizzi e la bacchetta di Donato Renzetti fanno del loro meglio per dare lustro all'opera. Buono il cast, tra cui eccelle Anna Caterina Antonacci (che varrebbe la pena ascoltare più spesso in Italia). Le repliche durano fino al 9 febbraio. L'opera è co-prodotta dal Comunale di Bologna. (riproduzione riservata)

venerdì 29 gennaio 2010

L’AQUILA, PER RITROVARE LE ALI CI VUOLE UNA VISIONE Avvenire 29 gennaio

L’AQUILA, PER RITROVARE LE ALI CI VUOLE UNA VISIONE
Giuseppe Pennisi
Il centro storico de L’Aquila è stato definito “nel suo insieme un’opera d’arte”. Quindi, la sua ricostruzione merita la diligenza con la quale vengono restaurate le opere d’arte. Per questo motivo, le tematiche della ricostruzione del centro storico de L’Aquila sono da mesi uno degli argomenti all’attenzione del Consiglio Superiore per i beni culturali e paesaggistici.
La ricostruzione del centro storico de L’Aquila comporta non solamente aspetti tecnici ed artistici ma anche trovare il modo per fare sì che esso diventi di nuovo il cuore di una città viva, non un museo accanto a cento nuovi villaggio che -mutuando l’efficace definizione di Moravia a proposito di Los Angeles – tentano di diventare una città.
Il problema è concreto ed immediato. Già nell’ottobre 2004, ad un congresso scientifico al Politecnico di Torino, l’Audis (associazione di studiosi della riconversione dei aree dismesse) ha lanciato un vero e proprio di allarme sul progressivo esodo della popolazione dai centri storici di molti Paesi europei verso nuove periferie attrezzate con grandi supermercati, cinema multiplex e simili. Da decenni, un grido di dolore analogo viene ripetuto dall’Icromm (piccola ma importante agenzia dell’Unesco, con sede a Roma, il cui scopo principale è il restauro dei centri storici). Non mancano esempi: da quelli di Beaune in Francia,dove pur esiste uno dei monumenti più visitati del Paese ma il cui centro storico da anima dell’economia e della cultura della Borgogna è diventato una trappola per turisti a quello di Varsavia, ricostruito (dopo che Hitler ne fece fare “terra bruciata”) in base alle tele del Canaletto ma diventato una scenografia da palcoscenico o da studio cinematografico.
Per fare sì che il centro storico de L’Aquila abbia un’anima non basta una ricostruzione ad opera d’arte , effettuata con la cura e l’amore che si ha proprio nei restauri delle opere d’arte. Occorre un disegno alto che gli dia una missione forte e non si basi sulla premessa, probabilmente illusoria, che, una volta completato il restauro, la popolazione rientri in abitazioni (spesso meno “moderne”) lasciate anni prima e riprenda attività economiche trasferitesi altrove.
L’Aquila è stata per secoli la capitale settentrionale dei vari Regni che si sono succeduti nel Sud dell’Italia – ultimo, in ordine di tempo, quello delle Due Sicilie. In quanto capitale settentrionale di Regni rivolti verso il Mediterraneo, si è sempre caratterizzata come centro culturale , tecnologico ed economico non solamente amministrativo. La vita economica derivava, in gran misura, da quella culturale e tecnologica.
La città può ipotizzare il proprio futuro riconquistando la propria centralità culturale e tecnologica ed utilizzando come base l’Università e il non distante Laboratorio del Gran Sasso. Mesi fa, in altra sede, ho proposto che L’Aquila si dia come missione quella di diventare la Cambridge dell’Italia centrale. Una missione più visionaria che realistica. Senza una visione, però, non si può dare un’anima neanche al centro storico più pregiato.
Ciò comporta, sin da adesso, voltare drasticamente le spalle a prassi discutibili. In primo luogo, non si può creare un’Università d’eccellenza (con centri di ricerca di eccellenza) se i professori, anche quelli nati e cresciuti a L’Aquila, sono pendolari, vi pernottano l’indispensabile, corrono tra una lezione e l’altra e vivono di fatto a Roma (dove ci sono maggiori opportunità per incarichi extra-accademici). In secondo luogo, è necessario il duro impegno per acquisire l’autorevolezza essenziale per avere un ruolo centrale in una rete culturale internazionale.

giovedì 28 gennaio 2010

- Risorgimento/ Verdi, l’apolitico che divenne il bardo dell’Unità Il Velino 28 gennaio

- Risorgimento/ Verdi, l’apolitico che divenne il bardo dell’Unità

Risorgimento/ Verdi, l’apolitico che divenne il bardo dell’Unità
Roma, 28 gen (Velino) - Ha perfettamente ragione Alberto Mattioli su La Stampa di oggi a sostenere che “il bardo” del Risorgimento è stato Giuseppe Verdi e che la forma artistica in cui questo periodo storico si è meglio espresso non è stato il romanzo ma il melodramma (nelle specifiche dategli dal compositore). Giusta anche l’osservazione di Mattioli sul fatto che Verdi acquisì una coscienza “risorgimentale” solo in concomitanza dei moti del 1848, della Repubblica Romana e delle guerre d’indipendenza. Occorre, però, fare alcune precisazioni. La coscienza risorgimentale di Verdi fu limitata. Il compositore è stato essenzialmente un apolitico, fedele suddito di Maria Luigia sino al trasferimento a Milano e dopo di allora senza alcun manifestazione di “dissidenza” nei confronti degli Asburgo, almeno fino al termine della Terza guerra d’indipendenza. Le opere della “trilogia popolare” (“Rigoletto”, “Trovatore” e “Traviata”) non ebbero le loro prime rappresentazioni nella Milano “liberata” con la Seconda guerra d’indipendenza, ma nella papalina Roma e nella asburgica Venezia. La sua opera concettualmente più rivoluzionaria “Stiffelio”, imperniata sul perdono dell’adulterio, ebbe la prima rappresentazione a Trieste, città che fungeva da porto e da Borsa di Vienna. Verdi, anzi, provava un certo disprezzo nei confronti della politica, palesato apertamente in “Simon Boccanegra”, “Don Carlo” e, soprattutto, “Aida”. Nominato senatore del Regno, non fece mistero (il suo epistolario è chiarissimo) di annoiarsi. Non potendo dimettersi, andava a palazzo Madama il meno possibile.

Quindi, la partecipazione di Verdi al movimento di unità nazionale fu sostanzialmente passiva, non come quella di Richard Wagner, rivoluzionario e nazionalista, che sin dalle prime opere (si pensi a “Lohengrin”) vagheggiava un nuovo e invincibile impero germanico. I suoi melodrammi vennero, però, letti come espressione risorgimentale da quella borghesia che andava a teatro, ne finanziava l’operatività ed era l’anima del movimento. Poco importa che alla prima alla Scala nel 1842 “Va’ pensiero” ricevette applausi di cortesia mentre il pubblico si spellò le mani all’inno finale a Dio (Verdi non era credente). Eppure, nell’immaginario, “Va’ pensiero” viene ancora oggi letto come simbolo del Risorgimento. È utile aggiungere che il Risorgimento è uno dei due periodi – l’altro è il Seicento a Venezia – in cui, in Europa, la lirica si finanziò con le proprie gambe, ossia con i proventi della biglietteria e i finanziamenti dei “palchettisti”. Altro segno del ruolo del melodramma nel movimento di unità nazionale.

(Hans Sachs) 28 gen 2010 17:23

SERVE UN PATTO GENERAZIONALE Il Tempo 28 gennaio

SERVE UN PATTO GENERAZIONALE
Giuseppe Pennisi
Il Ministro per l’Innovazione e la Funzione Pubblica, Renato Brunetta, ha lanciato in questi giorni alcune provocazioni sulla necessità, ed urgenza, di riscrivere il patto generazionale . Provocazioni giustificatissime; anche il vostro chroniqueur , una quindicina di anni fa, ha tentato di smuovere le acque con un libretto intitolato La guerra dei trentenni. Le provocazioni hanno suscitato irritazione, come avviene sempre quando si lancia un sasso nello stagno. Specialmente irritati coloro (come quei sindacalisti che tutelano solo e sempre che si avvicina alla pensione) che temono di perdere qualcosa.
In effetti, dati ed esempi recenti mostrano che cambiare la voce di spesa più importante del welfare (quella per le pensioni) può essere non un”gioco a somma zero” (in cui le perdite sono compensate da vincite e viceversa) ma una partita in cui vincono tutti (in gergo un win-win-game).
Come mai? In un meccanismo previdenziale in cui gli assegni sono correlati ai contribuiti quanto più si resta nel mercato del lavoro, si produce, si guadagna e si contribuisce tanto più l’assegno è pingue e tanto meno si rischia di passare l’ultima fase della vita in povertà. Un’analisi del centro studi tedesco CESifo conclude che una coppia di anziani europei considera la pensione “adeguata” se copre l’80% del reddito disponibile negli ultimi anni di vita attiva. Una del Michigan Research Center for Retirement stima “adeguate” le pensioni se pari al 70% degli ultimi stipendi. Con il contributivo all’italiana, dopo 40 anni di lavoro, con una progressione di carriera superiore alla media si andrà in pensione con il 40%-50% dell’ultima retribuzione; inoltre, con il passare degli anni l’assegno mensile è destinato ad assottigliarsi a ragione del metodo d’indicizzazione. Il problema non si risolve togliendo ai padri per dare ai figli ma tenere più a lungo al lavoro quei padri che possono e vogliono farlo. Ciò si ottiene non ritardando l’età della pensione ma abolendola (fatti salvi controlli per appurare che si è in grado di svolgere i compiti richiesti).
Negli Usa, una quindicina di anni fa, su richiesta di gruppi di senior citizens la Corte Suprema ha abolito l’età legale della pensione in quanto discriminatoria nei confronti degli anziani. In Gran Bretagna su istanza della Commissione per i Diritti Umani e Pari Opportunità, la Camera dei Comuni sta esaminando una proposta analoga.
Non ci troveremmo con un tappo che bloccherà le carriere dei giovani? Non solamente si tratta di mercati del lavoro distinti, ma ipotizzando che l’impresa privata, rispondendo al mercato, non si tenga manager vetusti diventati inutili, il problema si pone per la Pa. Lo si può risolvere facilmente stabilendo (come già fanno molte organizzazioni internazionali) che dopo una certa età anagrafica si lasciano le posizioni di line e si passa, in funzione di staff, a supportare dirigenti giovani.
Pensiamoci : è un piccolo passo verso l’economia della felicità.

mercoledì 27 gennaio 2010

La politica e l'economia della "privatizzazione" dell'Acea Il Velino 27 gennaio

- La politica e l'economia della "privatizzazione" dell'Acea

Roma, 27 gen (Velino) - L’annuncio del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dell’intenzione di “privatizzare” l’Acea SpA va interpretato sotto due profili: uno politico e uno economico-finanziario. In primo luogo, però, occorre fare una precisazione: l’Acea Spsa è già un’azienda privata, quotata in Borsa in cui il Comune di Roma è, con Gdf Suez Sa e il Gruppo Francesco Gaetano Caltagirone, uno dei tre principali azionisti ma dove migliaia di piccoli azionisti detengono il 30 per cento circa del capitale sociale. La “privatizzazione” vorrebbe dire porre sul mercato una quota importante della partecipazione del Comune, che pur resterebbe l’azionista di riferimento con il 30 per cento dell’azionariato complessivo.

L’aspetto politico dell’operazione, che si concluderà probabilmente tra diversi mesi (ma entro la fine del 2010), sta nel fatto che Alemanno vuole essere il primo, od uno dei primi, amministratori locali ad utilizzare la nuova normativa sui servizi pubblici locali e dare così un segnale forte di modernizzazione.

L’aspetto economico non è tanto la strumentazione finanziaria allo studio - un convertibile – quanto le opportunità per il Paese, non soltanto per Roma, della normativa. Opportunità su cui poco si è riflettuto anche in quanto il suo varo definitivo è stato sotto le Feste di Natale e Fine Anno. (segue)

Dopo anni di tentativi, nelle ultime settimane del 2009 la saga della privatizzazione dei servizi pubblico locali ha avuto una vera e propria svolta non nel senso previsto della “privatizzazione silenziosa” come conseguenza di un “grimaldello” incluso in una norma del 2008 sulla contrattualistica nel settore pubblico, ma in quanto risultato di un decreto legge per porre la normativa italiana in vari settori (non unicamente quello dei servizi pubblici locali) in linea con le direttive ed i regolamenti Ue ed evitare, quindi, possibili “procedure d’infrazione”- come aveva enfatizzato già nella primavera l’allora Vice Presidente della Commissione Europea ed attuale Ministro degli Esteri, Franco Frattini. Il “decreto Ronchi salva-infrazioni”, convertito in legge alla fine di novembre (Legge di conversione 166 del 20 novembre 2009). prevede che le gare ad evidenza pubblica diventano la regola per l'affidamento dei servizi (ad eccezione della distribuzione dell'energia elettrica, del trasporto ferroviario regionale e delle farmacie comunali e compresa l'acqua che, però, rimane un “bene pubblico” sotto il profilo giuridico) da parte delle amministrazioni pubbliche. Le gestioni dovute ad un affidamento “in house” cessano alla data del 31 dicembre 2010; tuttavia, le società partecipate potranno proseguire dopo il 2010 e potranno mantenere i contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40 per cento del capitale. Per le società quotate; il termine slitta al 2013, a patto che abbiano almeno il 40 per cento di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30 per cento al 2015. Inoltre, tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato “devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.

La normativa, salita alla ribalta per quella che è stata definita “privatizzazione dell’acqua”, in effetti, riguarda “la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”. Non rappresenta neanche una liberalizzazione a vasto raggio poiché concerne unicamente un numero limitato di servizi pubblici locali: l’esclusione dalla sua sfera applicativa dell’energia, del trasporto ferroviario e della farmacia comunali ne limita i contenuti in maniera significativa. Nonostante questi limiti, anche autorevoli commentatori considerati contigui all’opposizione riconoscono che si tratta di una svolta significativa, tentata per anni da Governi di differente ispirazione politica, ma per la prima volta riuscita.

A fine dicembre, il rapporto Isae sulla finanza locale sottolineava la probabilità che il processo di liberalizzazione (e miglioramento della gestione) parta proprio dal settore idrico nel Mezzogiorno: il 76 per cento dei 1300 comuni in Basilicata, Calabria, Campania, Sicilia e Puglia affidano i servizi connessi agli acquedotti o a SpA interamente a capitale pubblico od a strutture dell’amministrazione comunale- due forme di gestione che vengono spazzate via dalla nuova normativa. Sempre secondo il documento, il fabbisogno d’investimenti nel settore idrico dimostra che il Sud è il terreno ideale per sperimentare la riforma (per quando incompleta) dei servizi pubblici locali: stime di Coviri (Comitato di Vigilanza sul settore delle acque) e della Confservizi (l’associazione delle aziende pubbliche a livello locale) quantizzano a 60 miliardi di euro (di cui 24 nel Mezzogiorno) gli investimenti necessari nei prossimi tre decenni nel settore dell’acqua.

Se ben attuata, la svolta può contribuendo ad alleggerire il fardello dell’indebitamento degli enti locali, stimato in 110 miliardi di euro a cui aggiungere 10 miliardi di euro di crediti difficilmente esigibili. È un percorso ancora tutto in salita. È stato, però, tracciato ed iniziato.

(Giuseppe Pennisi) 27 gen 2010 10:55

martedì 26 gennaio 2010

Obama e le banche. Una riflessione doverosa Ffwebnagazine 26 gennaio

Barack Obama
Cercare gli untori serve a poco: il problema vero sono gli squilibri globali
Obama e le banche.
Una riflessione doverosa
di Giuseppe Pennisi Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha proposto la convocazione di un vertice prima del G20 in programma a giugno, per valutare le proposte delineate da Barack Obama in merito al futuro del sistema finanziario Usa. Tali proposte hanno avuto l’esito immediato di far tremare le Borse, incassare un comunicato ambiguo dall’International Financial Stability Board e gettare lo scompiglio in seno all’Ecofin e ai vari G (8,14,20, ecc.). Tali proposte riguardano un prelievo sulle attività delle banche che hanno fruito di aiuti, e misure (non meglio specificate) per ridurre le dimensioni degli istituti e separarne le attività commerciali da finanziarie (specialmente di hedge fund). Sono, al momento, idee delineate in termini molto generali: l’intenzione è di lasciare al Congresso il compito di elaborarne i dettagli. In punta di diritto, secondo alcuni giuristi Usa, la loro attuazione, negli stessi Stati Uniti, potrebbe avere ostacoli addirittura costituzionali. Potrebbe, in ogni caso, rappresentare un ritorno al passato. Meritano, comunque, un’attenta riflessione.In uno degli ultimi fascicoli della rivista European Financial Management (Vol. 14 , Issue 3, pp. 564-698), Matti Keloharju, un meticoloso finlandese della Università di Helsinki, analizza i 300 saggi più citati in materia di finanza dal 2000 all’agosto 2007, utilizzando una banca dati davvero straordinaria. La conclusione è che le novità degli ultimi anni sono state davvero rare. Anche i tanto apprezzati (qualche anno fa) e tanto disprezzati (adesso) derivati sono antichissimi; Ernst Jeurg Weber documenta che i derivati nascono in Mesopotamia (in quanto “futures”) e si estendono all’Egitto Ellenistico, prima, all’Impero Bizantino poi e, successivamente, alla Spagna dove la finanza era gestita dai sefarditi. In seguito alla diaspora di questi ultimi, i “futures” diventano uno degli strumenti finanziari principali delle Libere Province dei Paesi Bassi: nel Cinquecento ad Amsterdam viene emanata una legge di regolazione e vigilanza sui derivati, il cui impiego si era nel frattempo esteso a Gran Bretagna e Francia – e nel XIX secolo in Germania.Quindi, attenzione. Non buttiamo via il bambino (di origini mesopotamiche) con l’acqua sporca, poiché i derivati e la stessa marcia verso l’abisso dei prime che diventano subprime sono unicamente una sfaccettatura della storia. E non la più importante. Il servizio studi del Fondo monetario ha appena completato un’analisi di 42 crisi bancarie in 37 paesi dal 1970 al 2007. Nel 74% dei casi, Pantalone ha iniettano liquidità nel sistema (tramite iniezioni dirette o fideiussioni), analogamente a quanto sta facendo oggi il Governo americano (e a quanto fece nel 1992 il Governo italiano di fronte alla crisi dei banchi meridionali): «Molto, troppo spesso –scrive lo studio- si è privilegiata la stabilità, quale che ne fosse il costo». In termini aggregati, il costo (su 30 anni) è stato pari al 16% del Pil mondiale. In più del 70% di queste crisi i derivati non erano parte del problema; lo erano le gestioni improvvide e le operazioni fatte per compiacere politici grandi e, soprattutto, piccoli. L’Insead di Fontainbleau ha studiato un fenomeno analogo: 348 crisi valutarie in 164 paesi (in gran misura in via di sviluppo) negli ultimi 40 anni. Il lavoro mostra ancora una volta il ruolo limitato, ove non trascurabile, della finanza derivata, sia nel determinare una crisi sia nel trovarne una via d’uscita. Individua, però, una serie di indicatori per prevedere l’avvicinarsi della tempesta e per contribuire a formulare strategie per uscirne.Ci sono alcune misure che possono essere adottate per contenere le disfunzioni della finanza derivata, senza stravolgere il sistema: un saggio di Todd Zywicki e Joseph Adamson, ambedue della George Mason University (uno dei santuari liberisti per eccellenza) analizza “law & economics of subprime lending”, ossia gli aspetti giuridici ed economici del suprime e delinea una serie di misure tecniche per migliorare la vigilanza. Arthur Wilmarth della Facoltà di Giurisprudenza della George Washington University della capitale Usa, argomenta (nel Gwu Legal Studies Research Paper n. 436) come sia utile allontanarsi dal modello della banca universale verso cui tutti hanno corso (e mettere paratie tra istituti di credito commerciale e banche d’investimento), ma soprattutto sottolinea come la prevenzione è in certa misura mancata a ragione della frammentazione delle attività di vigilanza. Indicazioni analoghe vengono da un pregevole volume curato da Peter Nobel e Marina Gets per la Università di San Gallo in Svizzera: l’innovazione finanziaria ha generato grandi benefici ma anche nuove sfide e nuova vulnerabilità, specialmente a ragione degli squilibri finanziari globali (leggasi disavanzo strutturale dei conti degli Usa con il resto del mondo, comparsa sulla scena di fondi sovrani, istituzioni economiche finanziarie internazionali – Fondo monetario, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio – in cerca d’autore).Tiriamo le somme. Non c’è proprio nulla di nuovo sul fronte occidentale? L’analisi riassunta in questa nota è che si sbaglia se si cerca l’assassino nel mondo della finanza derivata. In quel mondo (quale che sia il paese), possono essere fatti molti miglioramenti, specialmente nel separare attività di banca commerciale da quelle di hedge funds (prassi che si è diffusa prevalentemente nel mondo anglosassone e ha poco inficiato l’Europa continentale); saranno, però, efficaci unicamente se si avvia a soluzione il nodo degli squilibri globali. È uno dei compiti fondamentali dell’Amministrazione Usa. Si erra se, come nelle proposte ventilate in questi giorni, si propone di lavarsi le mani e di porre tutti il peso delle responsabilità su untori di manzoniana memoria. Obama si ricordi che il problema non è nelle nostre stelle (come diceva Cassio a Bruto nel “Giulio Cesare” di Shakespeare) ma in noi stessi.

26 gennaio 2010

lunedì 25 gennaio 2010

Genio italico e manager nordici: l'opera va in web Il Tempo 26 gennaio

Genio italico e manager nordici: l'opera va in web
Vi ricordate i film di Carmine Gallone in cui opere liriche venivano rese alla portata di tutti (con attori e voci registrate dei grandi del melodramma)? Mentre teatri storici, come il San Carlo del quale diamo conto qui sopra, trovano nuovo lustro, il genio italico e l'organizzazione nordica portano la lirica dal vivo sul web.

L'esperimento inizia il 2 febbraio ad opera del Teatro di Liegi, il cui Sovrintendente e Direttore Artistico è Stefano Mazzonis ed il cui direttore d'orchestra principale è Paolo Arrivabeni; va in rete "I Capuleti ed i Montecchi" (protagoniste Patrizia Ciofi e Laura Polverelli, regia: Cristina Mazzavillani Muti). A seguire "Rigoletto" di Verdi il 23 marzo e "Rita ou le Mari Battu" e "Il Campanello di Notte" di Donizetti l'11 maggio. Gli spettacoli iniziano alle 20 (in simultanea con la rappresentazione), e restano on line per 190 ore. Il sito da cliccare è www.operalive.org : occorre registrarsi e pagare (in qualità standard euro 4 per spettacolo o euro 10 per tutti e tre; in alta definizione euro 4 per spettacolo o euro 15 per i tre). La ripresa è fatta con sette telecamere. L'apporto tecnologico è di Finale Commication&Events e Belgacom. L'idea è che gli internauti che guarderanno e ascolteranno l'opera sul web, andranno, poi, alla ricerca di posti in platee e palchi. Funzionerà? E' una scommessa, al pari delle semi-dirette cinematografiche dal Metropolitan di New York che hanno successo in tutto il mondo. L'Opera di Liegi effettua l'esperimento con opere della propria programmazione corrente. Occorre, però, chiedersi se non si sarebbero minimizzati i rischi partendo con opere appositamente pensate per la televisione (come "Il Diluvio Universale" di Stravinskij).

OBAMA ABBAIA MA NON MORDE Il Tempo 25 gennaio

OBAMA ABBAIA MA NON MORDE
Giuseppe Pennisi
Il Cancelliere tedesco Angela Merkel ha chiesto un vertice straordinario sulle proposte delineate dal Presidente Usa in merito al settore finanziario: a) un prelievo sulle attività delle banche che hanno fruito di aiuti; b) misure (non meglio specificate) per ridurre le dimensioni degli istituti e separarne le attività commerciali da finanziarie (specialmente di hedge fund). L’America profonda chiede da mesi un colpevole da impiccare per la crisi finanziaria ed economica in atto dal 2007. Barack Obama ha pensato di darglielo puntando il dito sulle banche, novelli untori dell’economia mondiale, pur se la metalmeccanica (GM e Chrysler) hanno avuto più aiuti federali del settore finanziario.
Le proposte sono state messe a punto da David Stockman (teologo proclive al misticismo, giovane Ministro del Bilancio della prima amministrazione Reagan e per lustri banchiere di successo – per anni ci siamo considerati buoni amici) e Paul Volcker , 83nne finanziere , alla guida della Federal Reserve dal 1979 al 1987, tanto bravo quanto squattrinato (diede le dimissioni per trovare un incarico meglio remunerato e pagare l’università ai suoi quattro figli).
Obama ha, scaltramente, lasciato al Congresso il compito di elaborare gli aspetti tecnici. Il prelievo mutua una misura in atto in Svezia: “l’onere per la stabilità” che le banche pagano perché il Tesoro si faccia loro garante nell’eventualità di una crisi analoga a quella del 1990 (quando quasi tutto il sistema bancario del Regno nordico venne nazionalizzato per essere, dopo pochi anni, privatizzato). E’ un premio di assicurazione: duplicherebbe (anche se ne amplierebbe la sfera) l’assicurazione obbligatoria federale sui conti correnti (sino a $ 250.000 per conto). E’ difficile pensare che il Congresso vari una misura del genere.
Ancora più nebulosa la proposta in materia di riduzione delle dimensioni degli istituti e della separazione di attività commerciali da quelle finanziarie. Non si intende certo ritornare alla normativa (abrogata nel 1999) varata nel 1932 in quanto lo scorporo effettuato ai tempi della Grande Depressione sarebbe tecnicamente difficile e renderebbe i singoli istituti di credito Usa vulnerabili e contendibili. Pur se è auspicabile escogitare una regolazione che distingua in modo netto attività commerciali da quelle puramente finanziarie, il Congresso avrebbe difficoltà a trovare un punto d’intesa ; per di più, secondo alcuni giuristi, non sarebbe nelle sue competenze ma in quelle delle Assemblee dei singoli Stati dell’Unione. Ove si superassero queste difficoltà, una misura unilaterale Usa metterebbe a repentaglio il tentativo di negoziare nuove global rules.
Per il momento, quindi, shakespearianamente tanto rumor per nulla. Pur se il chiasso potrebbe servire a riaprire il negoziato sulle global rules. Quindi, Angela Merkel ha ben fatto a suonare l’allarme.

Lirica, il “Falstaff” di Zeffirelli inaugura l’Opera di Roma Il Velino 25 gennaio

CLT - Lirica, il “Falstaff” di Zeffirelli inaugura l’Opera di Roma

Lirica, il “Falstaff” di Zeffirelli inaugura l’Opera di Roma
Roma, 25 gen (Velino) - “Falstaff” ha inaugurato sabato scorso la stagione 2010 dell’Opera di Roma (dove resta in scena sino al 31 gennaio). Arrigo Boito, autore del testo preso da due plays shakespeariani e l’ottantenne Giuseppe Verdi, chiamarono il lavoro “commedia lirica in tre atti”. Verdi sapeva di non avere l’indole per un’opera buffa, specialmente di quelle che, terminato il romanticismo, riprendevano ad apparire sui palcoscenici italiani e si riallacciavano alle opere comiche del Settecento e di inizio Ottocento. “Falsfaff” – come scrive efficacemente Lorenzo Arruga nel suo recente “Il Teatro d’Opera Italiano: una storia” (Feltrinelli) - è un’“opera seria rovesciata” dove Verdi “guarda i moti veri, le pazze passioni, le gelosie inquietanti dei suoi personaggi, con la libertà di un disincanto che prova come gioia”. Differente la lettura dell’87enne Franco Zeffirelli, autore di regia, scene e costumi dello spettacolo: è il nono della sua carriera ma sono tutti evoluzione di quello che predispose nel 1956 nella lontana Tel Aviv (con Serafin al podio) e che è stato in scena al Metroplitan per oltre 40 anni ed è stato riprodotto in due dvd. A Roma si era già visto negli anni ‘60 e ‘70. Per l’occasione dello spettacolo inaugurale sono state rifatte le magnifiche scene e i bellissimi costumi sui bozzetti originali in quanto, purtroppo, il materiale degli anni ‘60 e ‘70 è andato distrutto.

"Falstaff” viene letto da Zeffirelli come una spassosa commedia umana piena di gags trattate, però, con mano leggera. E’un’impostazione antitetica rispetto a quella che prevale da circa 30 anni (in particolare dall’edizione Giulini-Eyer coprodotta da Los Angeles, Londra e Firenze) e in cui il tema di fondo è l’ironia nostalgica con cui un anziano, consapevole dell’invecchiamento, guarda agli scherzi della vita. Divertente (forse troppo), ma privo dell’ironica melanconia con cui un ottantenne guarda alla propria giovinezza e soprattutto alle relazioni affettive (tra adolescenti, tra adulti in tradimenti reciproci, tra coppie male assortite) nello scorrere dell’esistenza. E’ una delle tante chiavi di lettura possibili. Una analoga era stata scelta alcuni anni fa al “San Carlo” sempre per un’inaugurazione di stagione. Ha un effetto immediato sul pubblico che se la spassa, ma non rende correttamente il disincanto nostalgico e ironico e il senso delle varie sfumature dell’amore che anima tutti i personaggi. Non mette in risalto, poi, quella che all’epoca fu una scrittura orchestrale piena d’innovazioni, tra cui la trascinante “fuga” finale.

Zeffirelli è ancora una forza della natura; quindi, anche il direttore d’orchestra Asher Fisch (che in altre occasioni ha concertato con una vena di melanconia) è travolto dall’allegria. Dei quattro baritoni che si alternano nel ruolo del protagonista, tre sono “d’epoca” (Renato Bruson, Juan Pons e Ruggero Raimondi) ma ancora valentemente sulla breccia; anche il quarto (Alberto Mastromarino) è un veterano del ruolo e abituato a lavorare con Zeffirelli. Per gli altri ruoli, in generale cantanti giovani (come Myrtò Papatanasiu, Serena Gamberoni) pur se Mrs. Quickly è la ancora efficace Elisabetta Fiorillo. Una sorpresa: il giovanissimo tenore americano Taylor Stayton. La sera dell’inaugurazione – teatro pieno di fiori, smoking, abiti lunghi, champagne (o prosecco?) e cioccolatini per tutti gli spettatori nel primo intervallo- il protagonista è stato Renato Bruson, classe 1936. Ha interpretato il ruolo centinaia di volte (anche nell’allestimento Giulini-Eyer citato in precedenza) e c’è chi lo ricorda in una produzione zeffirelliana romana del 1966. E’ senza alcun dubbio un grande attore che, con la sua professionalità, sa supplire ad un volume di voce che, a 74 anni, non c’è più. Necessiterebbe una direzione d’orchestra che abbassi il volume del golfo mistico nei suoi “a solo”; ciò richiede grande maestria e può creare scompensi di impasto con gli altri interpreti.

Fisch, travolto dall’allegria zeffirelliana, non lo fa o non ha il virtuosismo per farlo. Nel complesso, però, la concertazione è uno dei punti forti dello spettacolo in quanto Fisch fa avvertire, all’orecchio attento, i presagi novecenteschi, quali la “nuova polifonia” e l’utilizzo, modernizzato, di forme, quali la grande “fuga” finale, prese dal passato. Nel gruppo maschile, primeggia, oltre al giovane Stayton, ottimo anche come attore, Carlos Álvarez, un Ford di livello la cui vocalità rotonda fa avvertire ancora di più i problemi di Bruson nella scena a due del primo quadro del secondo atto. Molto buono il gruppo femminile: Myrto Papatanasiu è un’Alice sensuale e cattivella, Elisabetta Fiorillo una Quickly piena di pepe, Laura Giordano una Nannette deliziosa, Francesca Franci una Meg spumeggiante.

(Hans Sachs) 25 gen 2010 09:48

sabato 23 gennaio 2010

FAMIGLIA E SOLUZIONI FISCALI Il Tempo 23 gennaio

FAMIGLIA E SOLUZIONI FISCALI
Giuseppe Pennisi
In Italia, la riforma tributaria è forse più vicina di quel che sembri. Ha avuto un impulso dal lontano Massachussetts dove il Partito Democratico ha perso il seggio senatoriale da decenni suo appannaggio in quanto gli elettori hanno voltato le spalle ad un Barack Obama che, promessa una riduzione della pressione fiscale, ora minaccia di aumentarla.
La situazione economica interna ed internazionale non è tale da rendere fattibile un drastico ribasso sia del numero delle aliquote sia dei loro livelli. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze, tuttavia, ha annunciato modifiche , probabilmente già in cantiere ed in gran misura delineate in un suo libro di diversi anni fa (La Fiera delle Tasse) in cui tracciava la strada per passare dall’imposizione sulle persone (fisiche e giuridiche) a quella sulle “cose” come strumento per un fisco efficiente in un’economia globalizzata. Sarebbe auspicabile che il riassetto venisse almeno annunciato prima delle elezioni regionali.
Cosa potrà avvenire alla tassazione che maggiormente interessa molti italiani – quella sulla famiglia, specialmente sulle famiglie a reddito medio-basso e con figli a carico? E’ difficile prevederne i dettagli tecnici. Tuttavia, un fisco che sposta la propria enfasi dalle persone alle cose ha poco spazio per quel “quoziente familiare” di cui si è parlato per anni (e nei cui confronti sono state indicate varie contro-indicazioni). Si può trovare un percorso condiviso con misure mirate al sostegno dei nuclei, come un assegno per i figli a carico che superi , accorpandole, le attuale detrazioni e quel che ancora resta degli “assegni familiari”.

ZEFFIRELLI PORTA A ROMA UN FALSTAFF PIENO D’ALLEGRIA, Milano Finanza 23 gennaio

ZEFFIRELLI PORTA A ROMA UN FALSTAFF PIENO D’ALLEGRIA
Giuseppe Pennisi
“Falstaff” è l’opera inaugurale della stagione 2010 dell’Opera di Roma (dove resta in scena sino al 31 gennaio). E’ un allestimento “rinnovato” piuttosto che “nuovo”. Regia e scene sono di Franco Zeffirelli, al nono Falstaff della sua carriera- tutti adattamenti di quello del 1956; uno è stato in scena al Metroplitan per oltre 40 anni ed è stato riprodotto in due DvD. A Roma si era già visto negli anni 60 e 70; per l’occasione sono stati rifatti scene e costumi sui bozzetti originali. L’ultimo lavoro dell’allora ottantenne Verdi viene letto come una spassosa commedia umana piena di gags trattate, però, senza calcare troppo la mano. E’un’impostazione differente da quella che prevale da circa 30 anni (in particolare dall’edizione Giulini-Eyer coprodotta da Los Angeles, Londra e Firenze) ed in cui prevale l’ironia nostalgica con cui un anziano, consapevole dell’invecchiamento, guarda agli scherzi della vita. Zeffirelli, a 87 anni, è ancora una forza della natura; quindi, anche Asher Fisch (che in altre occasioni ha concertato con una vena di melanconia) è travolto dall’allegria. Dei quattro baritoni che si alternano nel ruolo del protagonista, tre sono “d’epoca” (Renato Bruson, Juan Pons e Ruggero Raimondi) ma ancora valentemente sulla breccia; anche il quarto (Alberto Mastromarino) è un veterano del ruolo ed abituato a lavorare con Zeffirelli. Per gli altri ruoli, in generale cantanti giovani (come Myrtò Papatanasiu, Serena Gamberoni) pur se Mrs. Quickly è la ancora efficace Elisabetta Fiorillo. Una sorpresa: il giovanissimo tenore australiano Taylor Stayton.

giovedì 21 gennaio 2010

Qualche ricetta per il dopo-crisi: puntare sulla scuola per il rilancio Ffwebmagazine 21 gennaio

[Qualche ricetta per il dopo-crisi: puntare sulla scuola per il rilancio]
E nel mondo dell'istruzione oltre ai soldi serve competizione
Qualche ricetta per il dopo-crisi:
puntare sulla scuola per il rilancio
di Giuseppe Pennisi “La migliore istruzione che il denaro non può comprare” è da 150 anni il motto di un piccolo, sperduto, College nel Kentucky, il Berea College. Ricordiamocelo, nella fase in cui si stanno mettendo a punto i programmi del dopo crisi. È il punto centrale, tra l’altro, del saggio di Jacques Attali La crisi, E poi?, appena apparso in italiano per i tipi di Fazio Editore. Il miglioramento della funzione di produzione dell’istruzione e della formazione , a tutti i livelli, è essenziale per aumentare il tasso multifattoriale di produttività che in Italia viaggia da troppi anni raso terra. È un elemento molto più importante delle “nuove regole” per la finanza su cui tanti barracuda-esperti stanno discettando (spesso con modesta cognizione di causa).

Nel frattempo, invece, l’incidenza della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica totale si è ridotta. Nel 1990 era pari al 10,3%; nel 2009 al 9% circa. Il calo è stato particolarmente marcato negli ultimi due anni (nonostante le spese aggiuntive per la regolarizzazione di precari) in quanto nel 2005 era ancora al 9,5% della spesa pubblica totale. Un’analisi elaborata dal periodico Tuttoscuola mostra che è rimasta praticamente invariata in valore assoluto a fronte di un incremento della spesa pubblica totale. Quindi, la legislatura in cui il sempre traballante governo Prodi aveva il sedile del conducente ha predicato bene; ma non ha seguito quanto prometteva che avrebbe fatto. Sempre secondo lo studio, se la spesa per la scuola fosse cresciuta dal 1990 al tasso della media della spesa pubblica totale, oggi ci sarebbero 10,8 miliardi di euro di risorse aggiuntive per l’istruzione ogni anno.

Senza dubbio, le dinamiche demografiche hanno influito sul fenomeno. Tuttavia, la riduzione della spesa per la scuola (e la destinazione delle risorse quasi interamente al monte salari di insegnati e personale) è, a sua volta, una delle determinanti dei risultati della recente indagine Ocse-Pisa, secondo cui nelle graduatorie scolastiche le competenze dei quindicenni italiani risultano essere le più scarse tra quelle dei coetanei dei paesi industriali a economia di mercato. Non solo: mentre nel Nord solo un giovane su venti riporta difficoltà considerevoli a risolvere problemi di matematica, al Sud la media scende a uno su cinque. Ciò frena non solo la produttività ma anche la mobilità sociale.

Un’analisi della Commissione europea dell’Ue a 25 (ossia senza tenere conto di Bulgaria e Romania), sottolinea come l’andamento della produttività complessiva dei fattori di produzione (lavoro e capitale) sia correlata non solo alla struttura per età ma anche ai livelli d’istruzione e alla loro qualità: l’analisi contiene proiezioni sino al 2050 e indica come siamo destinati a perdere ulteriormente terreno se non raddrizziamo presto la nostra dotazione in risorse umane. A conclusioni analoghe arriva un lavoro congiunto della Università Cattolica di Lovanio e del Center for European of Policy Studies (Core Discussion Paper N. 2007/43).

In termini di mobilità sociale, due studi recenti evidenziano quanto segue: il primo, che le differenze di livello di istruzione e di qualità scolastica nel periodo 1840-2000 hanno inciso, e incidono ancora negativamente sulla produttività degli afro-americani (e sul loro progresso sociale); il secondo (World Bank Policy Research Paper N. 4427), che la spesa pubblica per l’istruzione è elemento necessario ma non sufficiente per favorire l’istruzione di qualità (e la mobilità) delle fasce sociali a basso reddito.

Per migliorarne la qualità, da decenni uno dei più noti economisti dell’istruzione, George Psacharopoulos ha dimostrato, dati quantitativi alla mano, che il rimedio più “potente” è la competizione. Anche solamente all’interno del settore pubblico. Meglio se tra tutti gli istituti, sia pubblici che privati.

In base alla mia esperienza in Banca Mondiale (dove per dieci anni ho lavorato sui problemi della scuola, della formazione e delle università e sono stato amico e collega di Psacharopoulos) e grazie alla successiva collaborazione al “Rapporto mondiale sulla scuola” dell’Unesco (sino a quando una dozzina d’anni fa, venne dismesso), ho la presunzione di potere dare qualche piccolo suggerimento su un tema così vasto da interessare non solo tutte le famiglie ma anche le imprese.

Lo ricorda uno studio internazionale (Nber Working Paper No. W14108) appena pubblicato negli Usa e disponibile on line: esaminando la contabilità dettagliata di un campione d’imprese italiane, l’analisi conclude che gli “intangibili” (di cui in primo luogo il capitale umano) sono importanti almeno quando il capitale fisico come determinanti di produttività e competitività. In parallelo, uno studio della Banca d’Italia diramato in questi giorni (l’Occasional Paper n. 14) scava nelle differenze d’apprendimento tra le regioni – c’è stato un ampio dibattito poco più di un anno fa in base alle risultanze del progetto internazionale Pisa; spiegano in gran misura le differenze di produttività e di competitività – quindi, il differenziale di sviluppo.Torniamo al motto del Berea College (tanto più importante poiché siamo in un periodo di restrizioni finanziarie molto severe ed è probabile che ci resteremo per il resto della legislatura). Il College è stato creato per dare istruzione d’alta qualità (ai livelli di quelli dell’Ivy League – le più prestigiose università private Usa) a “schiavi liberati” e “poveri bianchi delle montagne” (così dice ancora il suo statuto). In pratica, accetta studenti unicamente da famiglie a basso reddito ma con buoni risultati alle scuole secondarie e con tanta voglia di imparare. Offre un’istruzione rigorosa ma “no frills” (senza i lussi che caratterizzano altre università): non c’è un campo di calcio di dimensioni regolamentari (e ovviamente nessuno si è sognato di costruire una piscina), i dormitori sono separati per genere (maschi in un caseggiato; ragazze in un’altra), nei bagni e nelle docce c’è solo acqua fredda. Inoltre gli studenti devono dedicare dieci ore la settimana nei laboratori (si costruiscono mobili) e nell’azienda agricola del College. Un regime troppo severo? Il blasonato Amherst College nel Massachussetts pensa di imitarlo. Pure dalla lontana Australia, un saggio apparso sul numero del marzo scorso dell’Austrialian Economic Review sostiene la medesima ipotesi. In Italia alcune università d’ispirazione cattolica (tra cui l’Università europea di Roma) richiedono già ore obbligatorie di volontariato come pre-requisito per essere ammessi agli esami di materie accademiche o professionali. Ci potrebbero essere proteste da parte di famiglie e di giovani? Certo che no, se la proposta fosse preceduta da una campagna di comunicazione per spiegare come in questo modo di differenzierebbero nettamente i “bamboccioni” (di memoria padoa-scoppiana) e gli altri.La campagna dovrebbe essere diretta in particolare alle Università del Mezzogiorno: il “work&study” (nel quadro di un rigoroso programma formativo) è anche uno strumento per creare occupazione autonoma ed imprenditorialità (come suggeriscono gli esiti di alcune attività di ItaliaLavoro s.p.a.), nonché per attirare partecipazione di medie imprese nelle proposte fondazioni universitarie. Se medie imprese di Regioni relativamente di piccole dimensioni come le Marche, l’Abruzzo, nonché della Sicilia e delle Puglie, sono entrate (a volte come soci) nelle fondazioni liriche locali non si vede perché non possano entrare in fondazioni universitarie. Specialmente se offrono un’istruzione sia di alta qualità sia collegata alle esigenze del territorio.L’altra proposta riguarda la gestione del corpo insegnante. Il “Quaderno sulla Scuola” presentato nel settembre 2007 contiene numerose idee interessanti allo scopo di motivarli meglio, eliminare quelli che, brunettianamente parlando, vengono definiti “fannulloni”, inserire, con l’apporto attivo dei docenti, ad appositi “patti territoriali” con un alto grado di sperimentazione e innovazione. Sono tutte proposte molto importanti. Il loro fulcro è in che modo i presidi dei singoli istituti interpretano la loro funzione e danno a essa corpo. Pure questa è istruzione d’alta qualità che “il denaro non può comprare”. A riguardo è interessante notare che negli Anni Novanta e all’inizio di questo decennio, la Scuola superiore della pubblica amministrazione ha organizzato, nelle sue sedi d’Acireale, Caserta e Reggio Calabria corsi di management (gestione dei docenti, individuazione dei meritevoli e di quelli da accantonare, contabilità, acquisti, animazioni di comitati dei genitori, definizione di patti territoriali, rudimenti di analisi costi benefici). Non so se l’esperienza sia mai stata soggetta a valutazione. E se valga la pena di rilanciarla. In caso di risposte negative, occorre trovare altre soluzioni. Ma non si può eludere il problema.

21 gennaio 2010

mercoledì 20 gennaio 2010

CHI E’ FELICE PRODUCE DI PIU’ Il Tempo 20 gennaio

CHI E’ FELICE PRODUCE DI PIU’
Giuseppe Pennisi
Secondo la Costituzione americana, gli Usa sono un’Unione di Stati fondata non sul lavoro ma sul “perseguimento della felicità” (come sanno tutti coloro che anni orsono hanno visto un film di Gabriele Muccino che ebbe molto successo sulle due sponde del’Atlantico). Perseguendo la felicità, gli americani raggiungono un’elevata produttività. Nell’immediato dopo-guerra, il Premio Nobel Vassilly Leontieff (l’inventore delle tavole input-output) spiegò così il proprio “paradosso”, secondo cui gli Usa esportavano, allora, prodotti ad alta intensità di lavoro nonostante fossero un’Unione caratterizzata da un’alta intensità di capitali. Per Leontioeff, i lavoratori americani, perseguendo la felicità, raggiungevano livelli di produttività maggiori di quelli del resto del mondo. Attorno all’inizio del decennio appena trascorso, il Premio Nobel Edward C. Prescott calcolò che, sempre perseguendo la felicità, gli americani lavorano in media il 50% in più degli europei (in termini di numero ore per anno).
Ora che anche in Europa ed in Italia, l’”economia della felicità” è diventata non solamente materia di studio ma anche argomento di dibattito politico, il “paradosso” di Leontieff ed i calcoli di Prescott vengono corroborati da altre analisi.
In primo luogo, non in tutti i Paesi europei si è egualmente vicini alla “felicità” considerata come senso di benessere soggettivo ed individuale. L’Istituto Tedesco di Analisi del Lavoro (IZA) ha appena pubblicato un’analisi quantitativa (il documento per la discussione N. 4538) redatta da esperti di economia del lavoro delle Università di Arthus e della Danimarca del Sud; utilizzando inchieste periodiche dell’Unione Europea, i Paesi in cui ci si considera di essere i meno felici sono proprio quelli irradiati dal sole e in cui, nell’immaginario, dominano i mandolini, le tarantelle ed il flamenco: il “Club Med” (Grecia, Spagna, Portogollo ed Italia). Insomma, il melanconico fado rappresenta meglio di altri ritmi lo stato d’animo dei lavoratori e la loro produttività che si trascina lentamente come Amalia Rodriguez. Lo conferma, del tutto indipendentemente, l’indicatore europeo dei sentimenti a cui sono al lavoro professori dell’Università Cattolica di Lovanio e dell’Università Libera di Bruxelles – come testimonia un saggio in uscita in febbraio nell’Oxford Bullettino of Economics and Statistics. Ove ciò non bastasse, alla Università di Warwick, hanno misurato la produttività dei lavoratori “felici” e di quelli “tristi”in industria; i primi hanno una produttività oraria che supera del 12% quella dei secondi.
Sarebbe banale invitare a lavorare “con gioia”, come fanno alcuni socio-economisti nostrani . Dall’iper-paludata Università di Yale giunge un saggio, pubblicato nel n.1, 2010 del “Yale Journal on Regulation”. Non è possibile farlo – è la conclusione di tre “casi di studio” – se leggi e regole (grandi e piccole) lo impediscono perché non elaborate “con gioia”.Allora? Che il Parlamento si diverta! Per consentire di lavorare con più gioia ed essere più produttivi.

VE LO DICO IO: I CIELI DIFFICILI DI ALITALIA Il Velino 20 gennaio

VE LO DICO IO: I CIELI DIFFICILI DI ALITALIA
Giuseppe Pennisi


Nel 2009 gli scali italiani hanno subito una vera e propria frenata : il traffico passeggeri è diminuito del 2,7% , il numero dei voli del 6%. La Lufthansa ha gettato la spugna ed annunciato che chiuderà i voli giornalieri Malpensa- Roma.
Cosa avviene in questo contesto alla nuova Alitalia, nata dopo una lenta, confusa e tardiva privatizzazione di Alitalia, una “delayed privatization” secondo la brillante definizione di un documento della Banca d’Italia . Nei dieci anni precedenti la denazionalizzazione, tenere in vita il vettore “di bandiera” con varie alchimie finanziarie e forti sostegni pubblici è costato ai contribuenti 4 miliardi di euro; a questa cifra occorre aggiungere i 2,3 miliardi di euro per lo scorporo delle attività poste in liquidazione dal Commissario Straordinario da quelle cedute ai nuovi azionisti. Pochi mesi dopo, l’avvio della nuova azienda, un economista particolarmente attento al settore, Andrea Giuricin, preconizzava che prima o poi la “privatizzazione infinita” di Alitalia si sarebbe conclusa con una nuova nazionalizzazione, nel senso la compagnia sarebbe diventata una filiale di AirFrance-Klm, che è, di fatto, controllata dall’azionista pubblico. Dal nostro punto di vista , è indifferente se l’azionista di riferimento sia italiano o straniero – quel che conta è l’efficienza, l’efficacia, la competitività e la qualità del servizio. Non è, però, indifferente se esso sia emanazione di uno Stato (italiano o straniero) e considerazioni non economiche (e non inerenti a efficienza, efficacia, competitività e qualità del servizio) incidano nelle strategie aziendali e nella gestione dell’intrapresa.
La prima “relazione semestrale” del management al Consiglio d’Amministrazione della nuova Alitalia ha fatto pensare che i pronostici di Giuricin fossero corretti ed ha lasciato tutti insoddisfatti. Per l’analisi finanziaria, si rimanda a quella puntuale e dettagliata pubblicata su www.chicago-blog.it ; nessuna voce si è levata a mettere in discussione le cifre ed i calcoli ivi presentati . Occorre, sottolineare che la prima “semestrale” riguardava la fase di avvio: non si può chiedere ad un giovane che comincia a solcare un palcoscenico di essere ingaggiato dall’Old Vic per essere il protagonista dello shakespeariano “Amleto”. Inoltre , la “semestrale” si riferiva al periodo sino al 30 giugno non includeva i mesi tradizionalmente “pingui” : quelli estivi. L’aspetto più preoccupante risultante dal documento è che gli obiettivi posti dallo stesso management per la fase d’avvio non sono stati neanche sfiorati: rispetto agli obiettivi, i ricavi sono stati pari a poco più di un terzo, il prezzo medio effettivo del biglietto a meno del 15%, il “load factor” a meno del 20%. Differenze tra obiettivi e risultati di queste dimensioni e la probabilità di un peggioramento dell’Ebit (margine al lordo di tasse ed interessi) di 240 milioni di euro entro fine 2009 non possono non innervosire alcuni soci dell’impresa e suscitare perplessità sulla capacità del management di portarla all’approdo auspicato.
La svolta si sarebbe dovuta verificare in estate (con l’aumento stagionale del traffico passeggeri). E’ stata un’estate dura per tutte le compagnie aeree, tranne alcune low cost: lo documentano le analisi dell’Aita . Per Alitalia, però, l’estate è stata più dura che per altre aziende di trasporto aereo a ragione dei ritardi dei voli e del pasticciaccio brutto dei bagagli smarriti od inviati verso destinazioni differenti da quelle dei passeggeri; in luglio e soprattutto agosto, questi disservizi hanno riempito le pagine di giornali italiani e stranieri, dando l’impressione che tutte le responsabilità fossero di Alitalia (e non anche delle strutture aeroportuali). Come se ciò non bastasse, ci sono state nuove ondate di scioperi, proprio nei mesi estivi in cui il servizio sarebbe dovuto essere di più alta qualità. In autunno, sondaggi d’opinione stimavano un aumento della disaffezione della clientela (sia passeggeri sia cargo) nei confronti della compagnia.
Sempre in autunno , la stampa riportava il rischio di tensioni, anche gravi, tra i soci. Uno dei quali (AirFrance-Klm) avrebbe fatto sapere “off-the-record” essere in attesa di un miglioramento della congiuntura internazionale (e quindi dei propri conti) per acquistare l’intera azienda e di farla diventare una sua sussidiaria. Dal punto di vista del processo di liberalizzazione della società italiana, tale prospettiva è preoccupante unicamente perché equivarrebbe ad una nuova, almeno parziale, statalizzazione d’Alitalia. Potrebbe, però, portare ad una razionalizzazione del sistema aereo europeo (riducendo e rafforzando i gruppi in grado di affrontare le rotte intercontinentali), accentuando la concorrenza (se le regole del gioco sono stabilite, e monitorate, da un ‘autorità indipendente europea) e rendendo, di fatto, Alitalia il partner per le rotte mediterranee ed orientali di una grande multinazionale dell’aviazione civile.
Come avrebbe dovuto rispondere il management della compagnia alle cifre della prima “relazione semestrale” ed alle voci su tensioni all’interno della compagine azionarie ? Con un nuovo programma che avesse obiettivi tecnici e finanziari realistici e che fosse rivolto ai nodi strutturali: a) l’eterogeneità degli aerei (una delle cause primarie dei ritardi), b) l’integrazione con AirOne (e la situazione effettiva ereditata da AirOne); c) i tempi ed i modi per affermarsi come efficiente ed efficace compagnia nell’aerea europea e mediterranea, prima, ed avviare una rete intercontinentale, poi).
A fine 2009, risposte esaurienti a questi interrogativi non erano ancora giunte. Una serie di barlumi positivi, tuttavia, apparivano ad autunno inoltrato: in settembre, il 78% dei voli è arrivato in orario, grazie, soprattutto, però agli sforzi effettuati per aumentare la puntualità su due tratte specifiche: Roma –Milano e Palermo-Milano; il management stimava che la seconda semestrale 2009 avrebbe segnato un pareggio; il servizio relazioni esterne della compagnia sottolineava la riduzione della conflittualità. Altro segno positivo in dicembre: una serie di accordi code-sharing con Aeroflot ; da tempo, questa sembrava un’alleanza naturale poiché, dopo una drastica riorganizzazione, Aeroflot cercava un partner di qualità per una clientela di qualità (business e prima classe) nelle rotte internazionali . Secondo le ultime dichiarazioni del management, il pareggio è ora previsto per il 2011.
Come valutare questi barlumi? Possono essere i segnali di una svolta e di un miglioramento complessivo unicamente se inseriti in una strategia diretta a rendere la compagnia effettivamente competitiva ed acquisire, quindi, una sempre maggiore quota del mercato internazionale (ora Alitalia ha una quota stimata tra il 4% ed il 2% del mercato mondiale- quindi, un’inezia in un’economia globalizzata). Ciò comporta – è vero –modifiche di contesto (ad esempio, la liberalizzazione dei voli intercontinentali) - che non rientrano nelle competenze dell’azienda, e che il Governo italiano può solo effettuare tramite accordi bilaterali. Altre modifiche di contesto (la privatizzazione degli aeroporti e l’attivazione di un mercato per gli slot) sono nell’ambito dell’azione d’indirizzo politico del Governo e di quella legislativa del Parlamento. Lo è, soprattutto, la semplificazione della regolamentazione e degli enti, autorità e commissioni (tra 8 a 10, a seconda del modo di calcolarli) che vigilano sul settore, spesso in modo contradditorio.
In questo campo, la nuova Alitalia è parsa fruire di privilegi più o meno indiretti, specialmente nelle interpretazioni normative dirette ad aumentare i costi e limitare l’attività delle low cost; alcune misure prese a fine 2009 hanno provocato una reazione molto vivace da parte dei social network come Facebook) e sembrano non essere in linea con la necessità di rafforzare la sicurezza aerea. Tali misure sono fortunatamente rientrate nella prima decade di gennaio 2010.
Quindi, il futuro della compagnia non dipende unicamente da strategie e da gestione aziendale ma anche da politiche pubbliche in cui si tenga conto che nel medio e lungo periodo protezionismi indeboliscono, invece di rafforzare. In armonia con il tema di questo capitolo, un’exist strategy (ossia una strategia per uscire dalla crisi finanziaria ed economica) richiede un miglioramento della competitività e deve scansare protezionismi diretti od indiretti quali quelli adombrati a fine 2009 .

lunedì 18 gennaio 2010

Teatro / “Le pulle” di Emma Dante tra squallore e poesia, Il Velino 18 gennaio

CLT - Teatro / “Le pulle” di Emma Dante tra squallore e poesia


Roma, 18 gen (Velino) - Con “Le pulle”, Emma Dante - la discussa regista della “Carmen” scaligera sulla scena da una quindicina d’anni e da una dozzina alla guida di una sua compagnia, la “Sud Occidentale” - ha ottenuto una vera e propria consacrazione anche all’estero. Coprodotto con il Théâtre du Rond Point di Parigi e il Théâtre National di Bruxelles, oltre che con vari teatri italiani (tra cui il Mercadante di Napoli, il Valle di Roma, e il Dell’Arte di Roma), lo spettacolo è uno dei primi concepito per un pubblico internazionale. E che la vocazione del lavoro non sia di rivolgersi a un pubblico esclusivamente italiano, lo dimostra il ruolo relativamente ridotto del dialogo e dei monologhi, pronunciati in un palermitano così peculiare che gli stessi siciliani hanno difficoltà a comprendere: più delle parole, ha significato il senso generale dei suoni emessi dagli attori. Questi ultimi, a loro volta, più che recitare giocano con i loro corpi, più o meno vestiti: corpi che vengono esibiti, scomposti, ricomposti, trasformati con sovradimensionati simboli fallici. I movimenti mimici e gli accenni di danza sono accompagnati da musica classica registrata su nastro (i momenti più languidi, e più ambigui, del “Lago dei Cigni” di Tchaikovsky) e da canzoni, sia in dialetto sia in italiano, su musiche di Gianluca Porcu (in arte Lu). L’ambizione è di creare “teatro totale” che ricorda più quello di Pina Bausch che quello di Bertold Brecht. Curiosamente, infatti, nonostante la sicilianità che intende avere, lo spettacolo è molto simile a quello che si vede in certi teatri di Berlino (la Neue Oper o lo stesso Magazine della Staatsoper unter Den Linden) dove si vuole attirare pubblico nuovo, e giovane, a spettacoli musicali differenti da quelli di stile anglosassone.

Ma chi sono “Le Pulle” del titolo? In palermitano, il termine è uno di quelli utilizzati per indicare le prostitute, anche se meno frequente, del più usato “buttane”. Emma Dante non sarebbe se stessa se il lavoro trattasse delle donnine che la sera si incontrano nei viali semi-periferici della città e mette in scena protagonisti “masculi” vogliosi di diventare donne. Travestiti, transessuali e viados che in un bordello dalle tende di damasco narrano e rappresentano lo squallore del loro quotidiano, raccontando come vennero sodomizzati appena adolescenti e sognando una vita “normale”, al femminile, con pure matrimoni (con uomini belli e borghesi) in grande stile. Con l’aiuto di tre protettrici - la fata danzate, la fata cantante e la fata parlante (sotto la guida della fata delle fate, Mad, interpretata dalla Dante in persona), i protagonisti vedono, nel sogno, realizzate le loro aspettative e la loro trasformazione al femminile. Brevi monologhi si alternano a canzoni e a momenti di danza e di movimenti mimico-acrobatici puri. La musica, la mimica e il ballo sono più importanti dei monologhi e delle battute (in cui il suono ritmico ha più rilievo del significato puntuale delle parole). Uno spettacolo che non vuole essere, nella classificazione di George Bernard Shaw, teatro in musica “gradevole”. Anzi è apertamente “sgradevole”, pur se con momenti intrisi di poesia, che mostrano come la Dante sia più adatta a questo genere di teatro, dove ormai ha un pubblico molto fidelizzato, che alle sperimentazioni messe in scena con la “Carmen”.

(Hans Sachs) 18 gen 2010 11:23

mercoledì 13 gennaio 2010

A Double Farewell Henze and Mahler in Rome, Music & Vision 14 gennaio

A Double Farewell
Henze and Mahler in Rome,
reported by GIUSEPPE PENNISI


On 10 January 2010, in its huge 2,832 seat main auditorium in Rome, the Accademia Nazionale di Santa Cecilia offered an exceptional evening: Hans Werner Henze's latest work and one of the last works by Gustav Mahler. Despite a hundred years separating the two compositions, the connection is quite strong. Henze is eighty three; we wish him many more years of productive life. In 2010 and 2011, the one hundred and fifty years since Mahler's birth and the one hundred years since his death will be celebrated: the Accademia Nazionale di Santa Cecilia plans to present all his orchestral works and has started from the last. At the end of the concert, the audience erupted in real accolades. The triumph was repeated on 11 and 12 January 2010. Antonio Pappano conducted the symphonic orchestra of the Accademia. The principal singers were Ian Bostridge and Sir John Tomlinson for Henze's concert opera; Anna Larsson and Simon O'Neill for Mahler's Lied.



Hans Werner Henze. Photo © 2009 Riccardo Musacchio



Between Henze's Opfergang (Immolazione in the official Italian translation, but Sacrifice would be more correct), his latest concert opera and Mahler's Das Lied von Der Erde, the first performance of which took place several months after the composer's death, the link is manifold. They are both a reflection of life and death. Henze was very ill in 2004-2005: a five month coma and the general belief that he was about to pass away. Mahler knew he had a serious heart disease when he started to compose Das Lied von Der Erde, after a book of Chinese poems.



Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia with conductor Antonio Pappano. Photo © 2010 Riccardo Musacchio



Opfergang is a dramatic vision about existence, after an expressionist poem by Franz Werfel, a close friend of Franz Kafka and -- coincidentally -- the last of Alma Mahler's three husbands. Das Lied von Der Erde is a serene Zen vision of life by a man who was going through various severe personal and professional problems when he was composing it. Both Opfergang and Das Lied von Der Erde combine the human voice with a large orchestral ensemble -- an oversized chamber orchestra for the former and a huge symphonic orchestra for the latter. Rightly, Henze's disquieting fifty minute music drama preceded Mahler's serene farewell (Das Abschied is the last song of Das Lied von Der Erde). Pappano (also the pianist for Opfergang) conducted Henze's concert opera with emphasis on the drama, but provided a terse baton for Das Lied von Der Erde.



Antonio Pappano conducting the Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Photo © 2005 Riccardo Musacchio



Henze's works are very widely performed in the English speaking world. Thus our readers are likely to be especially interested in Opfergang. Like in El Cimarron, Pheadra and Das Floss der Medusa, as a concert opera, the composition maintains Henze's very strong flair for dramatic action, but it is conceived for a concert hall: a few solo singers and a chamber orchestra with no need for elaborate stage sets or costumes.



Hans Werner Henze. Photo © 2009 Riccardo Musacchio



The plot is simple. In the suburbs of a large European town, a man is on the run; in a monologue, he tells us about his life, but never reveals what he is running away from. A small white and well-cared-for dog befriends him; also the dog is on the run, from the upper class villa where he was the pet of a young girl. The man is violent, the dog kind. Their attempt to communicate fails when the police are getting at the man. In a moment of insane rage, man kills dog. The man is Violence; the dog Innocence. There is a clear link to Benjamin Britten's Billy Budd, even though in Opfergang the man is not the sadistic Glaggart but has the traits of the protagonist of Albert Camus' L'Etranger: a foreigner, a stranger. Also, as in Camus, the end is full of unresolved questions about the meaning of life itself.



Ian Bostridge



The twelve-tone scale is used both horizontally and vertically as a frame to an eclectic score with melodies and melismas. After an agitato introduction, the score is dominated by ethereal string measures, a long melody played on the heckelphone (a baritone oboe), a piano solo to accompany the recitatives, a vague accordion dance movement and a Wagnerian leitmotiv in F sharp major and C major. Declamation by the protagonists slides into ariosos as well as two duets, with the counterpoint of the quartet. Ian Bostridge is a Schubertian lieder singer at his best, and John Tomlinson is a Wagnerian baritone, perfect as the suffering stranger.



From left to right: Anna Larsson, Antonio Pappano and Simon O'Neill, with members of the Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Rome. Photo © 2010 Riccardo Musacchio



Das Lied von Der Erde is too well known to require an introduction. Thus, this review focuses on the execution. Pappano reads the score like Pierre Boulez and, before him, Bruno Walter did: very transparent but unemotional conducting. As a result, the sense of suffering and the serene Zen acceptance of Das Abschied are more acute.



Anna Larsson and Simon O'Neill. Photos © 2010 Riccardo Musacchio



Anna Larsson previously sang Das Lied von Der Erde in Rome in 1994 with Myung-Whun Chung. In 2010 she provided renewed evidence of being one of the best altos in the business. The same is true of Simon O'Neill as heldentenor.


Copyright © 14 January 2010 Giuseppe Pennisi,
Rome, Italy




HANS WERNER HENZE

GUSTAV MAHLER

IAN BOSTRIDGE

JOHN TOMLINSON

ROME

ITALY

GERMANY

Le grandi “ondate” tra privatizzazioni e nazionalizzazioni, Il Velino 11 gennaio

ECO - Le grandi “ondate” tra privatizzazioni e nazionalizzazioni

Roma, 13 gen (Velino) - La letteratura sulla teoria economica delle privatizzazioni è molto vasta. In generale, si fonda sull’ipotesi che gli imprenditori privati riescono a cogliere i segnali del mercato meglio e più speditamente dell’operatore pubblico ed analizza l’efficienza finanziaria, economica, sociale e politica dell’assetto proprietario (se privato o se con una più o meno vasta partecipazione dello Stato e delle sue diramazioni). Anche le teorie “positive” elaborate negli ultimi anni, pur spiegando e modellizzando le varie modalità di privatizzazioni, non forniscono una spiegazione rigorosa delle ragioni economiche per cui a “ondate” di nazionalizzazioni seguono “ondate” di privatizzazioni. In Europa, ed anche in Nord America, ci sono state “ondate” vaste e durature di nazionalizzazioni negli Anni Trenta e nel periodo immediatamente successivo la fine della seconda guerra mondiale. Ad esse ha fatto seguito un’“ondata” di privatizzazioni iniziata in generale negli Anni Ottanta, ma cominciata in Italia con una decina d’anni di ritardo rispetto al resto del continente. Dal 2007, è in atto una nuova “ondata” di nazionalizzazione in quasi tutti i maggiori Paesi Ocse. L’Italia è stata un’eccezione; l’”ondata” ha frenato il processo in atto nel nostro Paese ma ha lasciato spiragli per una nuova fase come parte integrante della exit strategy dalla crisi economica e finanziaria che ha caratterizzato la seconda metà della prima decade di questo secolo.

Sarebbe banale spiegare queste “ondate” unicamente rispetto all’andamento dei cicli economici in quanto le fasi “nazionalizzazioni” hanno spesso coinciso o con profonde e lunghe recessioni; tra l’altro la fase successiva alla seconda guerra mondiale richiedeva, sì, lo smaltimento del forte debito pubblico accumulato durante il conflitto ma si è verificata in gran misura in parallelo con i “miracoli economici”, in cui l’esperienza dell’economia di guerra aveva diffuso la convinzione che la programmazione economica da parte dello stato fosse la leva necessaria per meglio indirizzare energie dell’intera economia. Un approccio interessante viene presentato in un lavoro ancora inedito di due political economists francesi, Jean-Jacques Rosa e Edouard Perard della parigina Sciences Po in cui si presenta un modello esplicativo dei cambiamenti di perimetri tra pubblico e privato e della loro scansione temporale. Il modello comporta la costruzione di un processo di asta competitiva per i diritti di proprietà su imprese; i contendenti sono gli investitori privati e lo Stato. Nel modello, gli investitori privati attribuiscono valore ai rendimenti per gli azionisti, lo Stato alla sopravvivenza politica ottenuta tramite il trasferimento di cash flow a vari clientes politici. Le fasi di nazionalizzazioni e di privatizzazioni dipendono da quale tipo di investitore (i privati o lo Stato) hanno il costo opportunità relativamente più basso nel partecipare all’asta vincendola. Una verifica econometrica dell’ipotesi, su un arco di 15 anni (1988-2002) su otto Stati europei (Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Svezia) convalida il modello e le sue ipotesi.

Quali le implicazioni per l’Italia, dove le privatizzazioni sono in fase di stallo da quattro anni? Nel breve termine, ci sono opportunità (se non di privatizzazioni, almeno di liberalizzazioni) nei comparti del trasporto aereo e marittimo e dei servizi pubblici locali (soprattutto quelli idrici). Ci potrebbero essere ulteriori privatizzazioni di Eni, Enel, Rai, Poste e Finmeccanica se (anche a ragione della forte iniezione di liquidità effettuata, nei Paesi Ocse) nel 2008 e nel 2009 e dell’alto tasso d’indebitamento delle pubbliche amministrazione, una volta stabilizzati i mercati finanziari, ci siano le condizioni perché l’asta delle privatizzazioni riprenda nei termini delineati da Rosa e Perard.

(Giuseppe Pennisi) 13 gen 2010 11:34

n tempi di crisi economica gli sherpa pullulano ma le soluzioni mancano L'Occidentale 13 gennaio

Tutti giocano a definire le regole
In tempi di crisi economica gli sherpa pullulano ma le soluzioni mancano di
Giuseppe Pennisi
13 Gennaio 2010

Venerdì 8 gennaio, nella fredda e non necessariamente allegra Basilea, la consueta riunione mensile dei Governatori delle Banche centrali di quelli che erano il G10 (ossia i dieci Paesi più importanti della comunità internazionale) presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri) è stata ampliata ai Presidenti/Direttori delle autorità di vigilanza allo scopo di contribuire a formulare una proposta di riordino del sistema finanziario mondiale.
La Bri può sostenere a ragione di avere più di un titolo in materia: nata nel maggio 1930, quindi di diritto primogenita (pur se ora poco nota) tra le istituzioni finanziarie internazionali, i suoi rapporti annunciavano sin dal 2006 che si era stati troppo trasgressivi e che sarebbe presto venuto il giorno del giudizio. Per venerdì 22 gennaio, nella Sala d’Ercole di Palazzo Farnese, viene il documento "La relance de la croissance dans le contexte d'une nouvelle gouvernance de l'économie mondiale : une contribution franco-italienne", da Rainer Masera, Paolo Scaroni e Gilles Briatta, tutte persone di rango e non prive di esperienza ma, pur se la riunione si tiene nella salone più prestigioso dell’Ambasciata di Francia a Roma, a quel che si sappia, nessuno con veste ufficiale di rappresentante del Governo della Repubblica o della Banca centrale.

In effetti, da quando circa un anno e mezzo fa, l’Italia, ha proposto un vasto negoziato internazionale per la definizione di global rules che facilitino l’uscita delle crisi in essere ed evitino (nei limiti del possibile) la ricaduta in una ad essa analoga, c’è una vera proliferazione di gruppi e comitati impegnati a stendere proposte in concorrenza l’una con l’altra (nella speranza di ottenere se non un Nobel almeno qualche medaglietta). A livello intergovernativo, pullulano i G: G20, G14, G8 ed il rinato (dopo un lungo letargo) G77 creato nel lontano 1964 da quelli allora considerati Paesi a basso reddito ed in via di sviluppo. A livello delle istituzioni internazionali, si agitano il Fondo monetario (che alla vigilia della crisi sembrava prossimo a ricevere all’estrema unzione ma che, come sempre, grazie ai guai altrui, ha trovato nuova vita) ed il neonato Financial Stability Board , che vuol fare scambiare i suoi vagiti da “do di petto” dei tenori del tempo in cui con una nota si facevano tremare i lampadari dei teatri Pullulano inoltre gruppi privati grandi e piccoli: la stessa italiana Assonime ha inviato ai “Grandi” del mondo una propria proposta redatta con il supporto del think-tank di Bruxelles Center for European Policy Studies.

Un proverbio inglese dice che quando troppi cuochi mestolano lo stesso probo c’è il pericolo che la minestra venga male. In effetti, non crediamo che ci sia tale pericolo; infatti, sino ad ora, tanta agitazione pare abbia prodotto, shakesperianamente parlando, “tanto rumor per nulla”, Politici, sherpa, barracuda-esperti, autoproclamatesi demiurghi delle monete e della finanza corrono di qua e di là ma di nuove global rules non si vede traccia; nel contempo, pare si stia uscendo dalla crisi principalmente grazie ai motori di una Cina il cui pil, secondo il veterano Angus Maddison, è ormai pari all’80% di quello Usa. E’ in agguato, però, una nuova bolla degli assetts ( a ragione della liquidità iniettata nei Paesi Ocse nel 2007-2009) e non siamo attrezzati a contrastarla meglio di quanto fossimo nel luglio di due anni e mezzo fa.

Che indicazioni fornire ai lettori di questo “orientamento quotidiano”? Il nuovo sistema monetario internazionale multipolare – si veda il bel saggio di Mansoor Dailami e Paul Masson nel World Bank Policy Research Paper n. 5147 – è molto più complicato di quanto non fosse il sistema frammentato dell’immediato dopo-guerra su cui negli anni 40 e 50 si è costruito quello di Bretton Woods. Definire le global rules è, quindi, compito quanto mai arduo. E specialistico. Il Fondo monetario sarebbe potuto essere la sede appropriata ma la sua struttura decisionale è fortemente squilibrata a favore dei Paesi vincitori della seconda guerra mondiale – caratteristica non accettata dal resto della comunità internazionale. La Bri pare avere le caratteristiche di organo tecnico atto a fare la proposta da portare alla considerazione dei Governi.
Un proverbio italiano dice che gallina vecchia fa buon brodo. Sempre che il caos non impedisca alla cucina di avere il minimo grado di efficienza funzionale.

martedì 12 gennaio 2010

E’ IL MOMENTO DELLE SCELTE Il Tempo 13 gennaio

E’ IL MOMENTO DELLE SCELTE
Giuseppe Pennisi
Se per studiare un bosco occorre analizzarne gli alberi più rappresentativi, di converso è difficile comprendere il futuro di un albero se non si ha contezza del bosco di cui fa parte. In altre parole, è errato guardare all’avvenire degli impianti Fiat a Termini Imerese senza tenere conto delle notizie relative al mercato mondiale in generale ed a quello dell’auto in particolare.
In parallelo con le difficoltà oggettive della formazione di una nuova cordata che rilevi gli impianti in Sicilia occidentale e li faccia , se non volare, almeno reggersi sulle proprie gambe, sono arrivate notizie relative all’inattesa dinamica dell’export cinese. Secondo un’analisi in uscita su “The Economist” del 14 gennaio (ma già diffusa agli esperti abbonati alle “previews” , o anteprime, dei servizi del settimanale), la Cina punterà molto sulla metalmeccanica: unicamente la Geely (la “piccola”, per così dire, compagnia cinese presente al salone di Detroit) progetta di esportare, entro due anni, 1.3 milioni di veicoli, tra cui cilindrate leggere al prezzo f.o.b. (free on board, ossia all’imbarco dai porti dell’Estremo Oriente) di meno di $ 10.000 ed un modello sportivo (il Beauty Leopard) al prezzo f.o.b. di $ 15.125.
In sintesi, non solamente gli impianti di Termini Imerese, caratterizzati da bassa produttività ed alti costi di trasporto, difficilmente potranno fare fronte alla concorrenza che viene da lontano ma molti altri impianti europei (non solo italiani e non unicamente Fiat) avranno seri grattacapi.
I sulfamidici, i ricostituenti ed i cerotti non assicurano lunga vita. I siciliani (il mio cognome indica chiaramente le mie origini isolane) devono cominciare a pensare a quella che sarà la struttura di produzione e di mercato nel “dopo-crisi”. Il multicolore Jacques Attali (il solo ingegnere minerario che sappia essere anche consigliere di tutti i Principi, banchiere, filosofo, narratore, regista cinematografico e poeta) ha appena sfornato un bel libretto La crise, et après? (prontamente tradotto in italiano). Il mondo del dopo crisi sarà caratterizzato da “centinaia di milioni di creatori, innovatori, imprenditori” che devono essere messi in grado “di assumersi rischi in tutta libertà con il solo vincolo di non mettere in pericolo quella degli altri”. Termini Imerese è ad un bivio: o ritorna a puntare sul terziario come il turismo (quale era ai tempi in cui Michelangelo Antonioni vi girò L’Avvenura) oppure punta su creatività ed innovazione. Nel primo caso, deve darsi servizi turistici di altissimo livello qualitativo. Nel secondo, stringere rapporti stretti con i dipartimenti tecnologici delle Università di Catania e di Palermo. La metalmeccanica sembra essere parte più del suo recente passato che del suo futuro.

LA DISINFLAZIONE E L’EURO A DUE PIAZZE, Il Tempo 12 gennaio

LA DISINFLAZIONE E L’EURO A DUE PIAZZE
Giuseppe Pennisi
L’inflazione ha raggiunto i minimi negli ultimi 50 anni. Il dato era atteso dagli economisti in quanto la forte contrazione del Pil nel 2009 (circa – 5% secondo i preconsuntivi) non poteva non comportare un allentamento significativo del tasso di aumento dei prezzi al consumo (un debole 0,8% nel 2009).
In un’unione monetaria , le implicazioni di inflazione e crescita di un singolo Paese devono essere valutate nell’ambito dell’intera area. Alcuni osservatori internazionali (quali l’Economist Intelligence Unit, Eiu) paventano che il 2010 sarà l’anno dell’euro a due piazze- un letto scomodo se c’è un dislivello tra l’uno e l’altro dei due materassi. L’argomento è che l’uscita dalla crisi del 2007-2008 si presenta asimmetrica con un nucleo di Paesi attorno a Francia e Germania caratterizzati da crescita sostenuta e da ripresa dell’inflazione (tassi di aumento del Pil sul 2% l’anno e dei prezzi al consumo tendente anch’esse al 2% l’anno). A questo punto, la Banca centrale europea (Bce) modificherebbe la linea che tiene dall’estate 2007 ed aumenterebbe i tassi di riferimento, aggravando i problemi di Paesi a basso sviluppo e bassa inflazione quali quelli ironicamente chiamati del “club Med” (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo). Lo shock asimmetrico metterebbe a dura prova la tenuta della moneta unica. Della cui avventura alcuni catastrofisti vedono già la fine.
In primo luogo, tra Natale e l’inizio dell’anno il direttore dell’ufficio legale della Bce, Phoebus Athanassiou, ha scritto una dotta memoria (riservata per quanto possa esserlo un documento che circola nei piani alti di Miniesteri economici e Banche centrali): mentre i trattati Ue prevedono procedure di uscita volontaria ed anche di espulsione, quando si entra nell’euro si accetta una condizione di “perpetuità” (come quando si entra in un ordine religioso). Naturalmente se si è espulsi dell’Ue, non esistono più le condizioni per restare nell’euro. E, di converso, se si rompe il patto di “perpetuità”, si è automaticamente fuori pure dall’Ue con tutte le conseguenze che ne derivano. In soldoni, che l’euro a due piazze non porta necessariamente ad una rottura (neanche nei confronti di discoli come la Grecia). Anzi ha alcuni aspetti positivi: le tensioni all’interno della moneta unica possono indebolirne il valore internazionale e ridurre il sovrapprezzamento rispetto al dollaro (con gioia per i produttori di merci d’esportazione).
Quali le implicazioni specifiche per l’Italia? Il documento Bce n.1128, diramato il 4 gennaio, raffronta, con un’analisi econometrica, l’andamento dell’economia italiana con quella del resto dell’area dell’euro dal 1976 al 2009 (incluso) e conclude che la moneta unica ha ridotte le differenze tra noi e gli altri, non le ha aggravate. Le più recenti stime dei maggiori 20 istituti internazionali di analisi econometrica stimano per l’Italia del 0,9% , inferiore alla media dell’area dell’euro (1,2%), ma nettamente superiore a quelli di Spagna (- 1%) e Grecia ( 0, 2%). Tenendo dritta la barra della politica economica, siamo usciti dal “Club Med”.

lunedì 11 gennaio 2010

A World Premiere in Rome: Pappano Conducts Henze's Latest "Konzertoper" , La Scena Musicale 11 gennaio

Monday, January 11, 2010
A World Premiere in Rome: Pappano Conducts Henze's Latest "Konzertoper"
By Giuseppe Pennisi

Much awaited in the international music world, Hans Werner Henze’s Opfergang had its debut on January 10th at the main 2832-seat Santa Cecilia auditorium of the Parco della Musica in Roma. There were about 80 music critics from ten countries at this world premiere.


Maestro Henze is the most frequently performed living contemporary musician. He has lived in Italy since the early 1950s, more specifically since the beginning of the 1960s in a magnificent villa near Rome. Yet Opfergang is the first musical composition commissioned by an Italian institution (the Accademia Nazionale di Santa Cecilia). Maestro Henze is 83 years old. His fans and the musical world in general thought that his last major work would have been “Upupa,” premiered at the 2003 Summer Salzburg Festival and, since them, performed in many countries (but not yet in Italy) as well as considered the first major opera of the 21st Century. Thereafter, for a long period, Maestro Henze was seriously ill. He was in a coma for five months and seemed to be about to die. After his recovery, he had to cope with the death of his life-long partner. Surprisingly, in the last few years a new Spring appears to have begun for him. A flow of new major compositions: Sebastiam in Traum in 2005, Gogo no eiko (from a text by Japanese writer Mishima) in 2006, Pheadra in 2007, Elegium Musicum Amatissimi Amici Nunc Remoti in 2008 and now Opfergang (Immolazione, or Holocaust in the Italian translation in the program, but more accurately Sacrificium, Sacrifice).

Opfergang is classified a Konzertopera by Maestro Henze himself. Like many other works of his (e.g. El Cimarron, Pheadra, Das Floss of Medusa) the composition maintains Maestro Henze’s very strong flair for dramatic action; most of his works are for the operatic stage or for movies. But it is conceived for a concert hall: a few solo singers and a chamber orchestra with no need for elaborate stage sets or costumes. Opfergang requires an oversized chamber orchestra with quite a few peculiar instruments, two main soloists (a Wagnerian baritone and a Schubertian tenor), a second baritone in a minor role and a chorus-like quarter of baritones and tenors. There is limited acting, but in this production, lighting is critical in providing the dramatic context and pulse.


The text is a dramatic poem of Franz Werfel, an expressionist writer and poet from Prague. He was a very close friend of Franz Kafka and the last of Alma Mahler’s three husbands. The plot is simple but disquieting. In the suburbs of a large European town, a man is on the run; in a monologue he tells us about his life and problems but never reveals the specifics of what he is escaping from. He is befriended by a small white and well-tendered dog, who has left the upper class villa where he was the pet-toy of a young girl. The man is violent, brutal. The dog is kind, gentle. They attempt to communicate, but when the police is getting at the man, in a moment of insane rage, he kills the dog. The man runs away but is left in abysmal desperation while the soul of the dog sings his affection for him. There is, of course, quite a bit of symbolism – a movement contemporary to expressionism. The man is Violence; the dog Innocence. With the Violence-Innocence contrast and an all-male cast, there is an immediate reference to Benjamin Britten’s Billy Budd - of which Britten himself adapted the grand opéra version to a chamber music edition (with two pianos in lieu of the large orchestra). However, the man on-the-run is not the sadistic Glaggart of Billy Budd; rather he seems to be like the protagonist of Albert Camus’s L’Etranger; in the German text, he is a Fremd, a stranger. We feel almost empathy for him in spite of his troubled soul, for his escaping from something we do not know, and even of his gratuitous killing of the sweet little white dog. In short, the text leaves the audience with many questions about the meaning of life and of existence in an absurd world – another reference to Camus’s novel.

Musically, the overall framework is dodecaphonic. The 12-tone scale is utilized both horizontally and vertically to build an eclectic score with melodies and melismas. In this manner, once more Maestro Hence brings the 12-tone scale to a large audience, as he did nearly 55 years ago with his first operatic masterpiece Boulevard Solitude. After an agitato introduction (a man is on the run), the score is dominated by ethereal string measures, a large melody of the Heckelphon (a baritone oboe), the “a solo” of the piano to accompany the recitatives, a vague dance movement of the accordion and a Wagnerian leitmotiv in F sharp major and C major. The vocal score is a declamation sliding into ariosos and even includes two tender duets, with the counterpoint of the quartet. Ian Bostridge is a lied singer at this best, Sir John Tomlinson is a powerful, yet suffering Fremd; he reminds the audience of the many Wotan he sang in Bayreuth. Maestro Antonio Pappano conducts the Santa Cecilia orchestra and plays the piano in an exquisite manner.




The audience erupted in real accolades at the end of the performance, even if the 2,832-seat auditorium was perhaps too vast for such an intimate Konzertopera.


The Playbill
Antonio Pappano, Conductor and pianist

Ian Bostridge The white dog
Sir John Tomlinson The man-on-the-run
Roberto Valentini, The police inspector
Gian Paolo Fiocchi ,Maurizio Trementini, Anselmo Fabiani
Antonio Mameli – The Chorus, The Policemen
Labels: Hans Werner Henze, opera, Rome
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Ecco perché riformare la scuola è necessario per il decollo del Sud Ffwebmagazine 11 gennaio

Lamentarsi non serve, c'è bisogno di idee e di proposte
Ecco perché riformare la scuola
è necessario per il decollo del Sud
di Giuseppe Pennisi
La riforma della scuola (e dell’Università) sono tra le priorità della strategia del governo per l’anno che si è appena aperto. È tema fondante: sarà anche l’argomento principe del Congresso scientifico annuale dell’Associazione italiana di valutazione (Aiv) in marzo. È anche lo strumento più importante per lo sviluppo del Mezzogiorno.Per un semplice economista non è appropriato entrare in terreni in cui i sociologi e i pedagogisti dispongono di una cassetta degli attrezzi più consona a comprendere perché ci sono tali e tante differenze d’apprendimento in diverse parti dell’Italia. I dati essenziali sono stati pubblicati ampiamente sui giornali: studi quantitativi, peraltro non recentissimi, dell’Ocse e della Banca d’Italia evidenziano come al Sud la dispersione scolastica (ossia i ragazzi che non completano il ciclo) è molto più elevata che al Centro-Nord, e che i quindicenni del Sud “sanno” molto meno di quelli del Centro-Nord in matematica e scienze (le sole materie per cui è possibile un confronto internazionale). Inoltre, i ragazzi dei ceti ad alto reddito del Sud hanno un livello d’apprendimento minore di quelli a basso reddito del Centro-Nord - dato che suggerisce come il fenomeno sia destinato ad acuirsi. Il problema – inoltre – non si cura necessariamente aumentando le risorse finanziarie: un’analisi di Maria Flavia Ambrosiano e Massimo Bordigon (due economisti certamente non collaterali al centro-destra) dimostra che la spesa pubblica pro-capite per istruzione in Calabria è doppia rispetto al livello effettivo in Lombardia. Il “Quaderno Bianco sulla Scuola” – presentato, con una certa fanfara, da Romano Prodi nel settembre 2007, ma presto accantonato – aveva il divario tra Sud e Centro-Nord come tema fondante.Cosa fare? Ci si può strappare i capelli e rotolarsi per terra, lamentando che non c’è modo di uscire da questo circolo vizioso. È un po’ ciò che fanno (econometricamente parlando) Luigi Guiso, Paola Sapienza e Luigi Zingales (non certo collaterali al governo in carica neanche loro) nel loro ultimo lavoro (Cepr Discussion Paper No. DP6657) in cui si riallacciano ad un beniamino del centro-sinistra, Robert Putman dell’Università di Harvard (il quale ha studiato a lungo le Regioni italiane) e in base a una strumentazione econometrica comparata, concludono che il Sud ha ormai trovato un equilibrio (a un livello basso) e ci vorranno almeno 500 anni per colmare il differenziale, specialmente di conoscenze e di apprendimento.Si possono proporre miglioramenti graduali e progressivi, come fa il ministro imperniandoli sulla formazione degli insegnanti e sulla sperimentazione. Si possono suggerire alternative che possono sembrare radicali, come quella lanciata da Franco Debenetti (sulla base dell’esperienza svedese) della competizione tra scuole tramite un sistema di voucher. È interessante notare come nell’ultimo numero di Economic Affairs Greg Forster pubblichi un saggio comparato (non limitato alla Svezia ma sull’esperienza dei voucher negli Stati degli Usa) in cui conclude come i voucher abbiano migliorato la qualità delle scuole e gli esiti scolastici degli studenti – lo avevo già detto, negli Anni 70, mâitre-à-penser della sinistra (come Jenks, Illich e Delors), che probabilmente a Capalbio e Sabaudia non vengono letti, ma sui cui libri Di Vittorio avrebbe passato nottate.In Italia l’argomento principale contro gli “school voucher” è quello che potrebbero favorire le scuole private (anche e soprattutto nel Sud), la cui qualità sarebbe inferiore a quella delle scuole pubbliche, aggravando il problema e aumentando i costi complessivi (poiché il pubblico ha obblighi specifici). Un’analisi di Giuseppe Bertola, Daniele Checchi e Veruska Oppendisano (per ora pubblicata dall’Istituto federale tedesco d’analisi dei problemi del lavoro – Iza Working Paper No 3222- è da augurarsi che venga diffusa anche in Italia) conferma, in base a tre rassegne empiriche, che gli esiti in istruzione superiore e nel mercato del lavoro sono migliori per coloro che hanno frequentato le scuole pubbliche, rispetto a coloro che hanno frequentato quelle private. È, tuttavia, un’analisi statica: le scuole private verrebbero incoraggiate a migliorare da un meccanismo di voucher (altrimenti perderebbero allievi). Uno studio delle Università di Berkeley e della McMaster University (Nber Working Paper No. W14176) prova che in un’ottica dinamica è ciò che è successo dove in Nord America si sono introdotti i voucher: un miglioramento della qualità (in termini d’apprendimento) del 6-8%. Non abbastanza a colmare il gap tra Sud e Centro-Nord, ma in grado di ridurlo in misura significativa.


11 gennaio 2010

Opera / Opfergang, lo struggente “addio alla vita” di Henze, Il Velino 11 gennaio

CLT - Opera / Opfergang, lo struggente “addio alla vita” di Henze


Roma, 11 gen (Velino) - L’Accademia nazionale di Santa Cecilia ha iniziato il 2010 con un concerto che verrà ricordato: l’ultima, per ora, opera di teatro in musica di Hans Werner Henze, “Opfergang”, accostata a “Das Lied von der Erde” di Gustav Mahler (nella seconda parte del concerto), ovvero l’addio alla vita del grande compositore di cui stanno per essere celebrati i 150 anni dalla nascita ed i 50 dalla morte (per l’occasione l’Accademia di Santa Cecilia ne eseguirà l’integrale). Henze vive in Italia da oltre 50 anni (nei pressi di Roma da oltre 40), è il compositore contemporaneo più eseguito e più rappresentato. Di fede marxista (amico di Castro) ma di modi principeschi (ed adorato dalla Thatcher), è la prima volta che un’istituzione italiana gli commissiona un lavoro. Si pensava che avesse dato il suo “addio” nel 2003, a 78 anni, con “L’Upupa” presentata al Festival di Salisburgo, anche perché stato successivamente molto malato e, una volta guarito, ha perso il proprio compagno di vita. Al contrario, dopo essersi ripreso, sta vivendo una nuova giovinezza: “Sebastiam in Traum” nel 2005, “Gogo no eiko” (su testo di Mishima) nel 2006, “Pheadra” nel 2007, “Elegium musicum amatissimi amici nunc remoti” nel 2008 e ora, a 83 anni, “Opfergang” (“Immolazione” nella traduzione italiana nel programma di sala, anche se sarebbe più appropriato intitolare il lavoro “Sacrificio”). A Henze si deve anche “Boulevard solitude” che nell’Italia degli anni ‘50 fece scandalo e provocò al Teatro dell’Opera una vera e propria “battaglia”, tanto da finire alle mani.

In “Opfergang”, in una periferia di una grande città, si incontrano un cane bianco smarrito, ma ben curato, e un fuggiasco. In un monologo, l’uomo racconta il suo inquietante passato (senza però che il pubblico afferri cosa lo turba: un’infanzia difficile? complicati rapporti personali? reati? Braccato dalla polizia e in preda al panico, uccide il cane, che pure - dopo avere lasciato la propria elegante padroncina e la bella dimora - lo aveva seguito mostrandogli affetto, e cade negli abissi dell’alienazione. Il cagnolino bianco gli resta affezionato dopo morto e dopo che il proprio corpo viene utilizzato per sfuggire alla polizia. Tema fondante, il contrasto tra Bene e Male, tra Violenza e Purezza. Immediato il riferimento a “Billy Budd” di Benjamin Britten (anche perché le voci sono esclusivamente maschili e del grand opéra lo stesso Britten compose una versione cameristica). C’è , però, una differenza profonda: in Britten, il Male è Claggart, sadico omosessuale, che porta Billy, il Bene, alla morte perché il ragazzo si oppone a fargli godere il proprio corpo. Mentre Claggart è personaggio spregevole, “il fuggiasco” di Henze ricorda “L’Etranger” di Albert Camus : uccide il cagnolino perché l’esistenza è assurda, come lo è stata la sua stessa vita ed ora la sua fuga. Nei suoi confronti proviamo quasi simpatia.

Al pari di “Phaedra” e di altri lavori di Henze (ad esempio, El Cimarron) “Opfergang” è una “Konzertoper” . Il testo è un poema drammatico dell’inizio del Novecento di Franz Werfel, scrittore espressionista e grande amico di Kafka, nonché ultimo marito di Alma Mahler. Sotto il profilo musicale, Henze mantiene una cornice dodecafonica che viene utilizzata, orizzontalmente e verticalmente per la costruzione di melodie, melismi e accordi, quasi un breve trattato di armonia redatto specialmente per questa composizione. Henze porta ancora una volta la dodecafonia al grande pubblico (come ha fatto per 60 anni) inserendo i temi, a lui consueti, della pietà e dell’accusa sociale in un “visivo musicale” eclettico. Dopo un agitato interludio dominano le battute eteree degli archi, una larga melodia dell’oboe baritono, l’angoscia della tuba wagneriana, gli “a solo” del pianoforte (magnifico Pappano al piano) per accompagnare i recitativi, i vaghi movimenti di danza dell’organetto e un leit-motiv di Fa diesis maggiore e Do maggiore. La concertazione di Antonio Pappano svela, con tenerezza e amore, le meraviglie della partitura. L’orchestra potrebbe essere definita un complesso da camera molto ampliato con il maestro concertatore, come si è detto, anche al pianoforte. Sette voci (il tenore schubertiano Ian Bostridge è il cagnolino, il baritono wagneriano John Tomlinson il fuggiasco, gli altri vengono dal coro di Santa Cecilia) che dal declamato scivolano nell’arioso e anche in duetti. In breve, una “prima mondiale” d’eccezione, pur se ci si deve chiedere se la vasta sala Santa Cecilia con i suoi 2.832 posti sia la più adatta ad un lavoro così intimo.

“Das Lied von der Erde” di Mahler è uno struggente commiato dal mondo in chiave di ritrovata serenità Zen, opera di cui poco prima di morire il grande direttore d’orchestra Jascha Horenstein disse “una delle cose più tristi di lasciare il mondo è il non potere più ascoltare”. Nell’ultimo lustro, a Roma, lo si è ascoltato quasi ogni anno in esecuzioni dell’Accademia di Santa Cecilia, dell’Orchestra di Roma e del Lazio, e dell’Orchestra sinfonica di Roma. In quanto addio alla vita ha un nesso molto forte con “Opfergang”. Nella precedente esecuzione nei concerti dell’Accademia, nel 1994, aveva concertato Myung-Wehun Chung e i solisti erano stati Anna Larsson e Thomas Moser. A differenza della concertazione passionale di Chung (densa di richiami, ad esempio, a Sawallisch e a Maazel), la bacchetta di Pappano è tersa (come quelle di Boulez e Walter , di cui esistono ottime edizioni discografiche); l’”addio” ( Der Abschied è il lungo finale) è più straziante, meno improntato a serenità Zen. Di grandissimo livello sia Anna Larsson (di nuovo nel ruolo di protagonista) sia Simon O‘ Neill.

(Hans Sachs) 11 gen 2010 11:43

giovedì 7 gennaio 2010

FINANZE UE SENTIERI DIVERGENTI gennaio

FINANZE UE SENTIERI DIVERGENTI
Giuseppe Pennisi
Per L’Ue e soprattutto per l’unione monetaria europea, il 2009 è un anno cruciale. Il primo gennaio è entrata in funzione una nuova squadra (Presidente del Consiglio Europeo, Alto Rappresentante per la Politica Estera, Commissione Europa) che deve affrontare sfide difficili, specialmente per quanto attiene all’unione monetaria. Da un lato, i maggiori centri di previsioni econometriche stimano una ripresa graduale dalla crisi finanziaria ed economica (un tasso di crescita dell’1,2% per l’intera zona e dello 0,8% per l’Italia). Da un altro, incombe la minaccia che le tensioni all’interno dell’Eurogruppo mettano a repentaglio la moneta unica . Un dato è eloquente: rispetto ai parametri del “patto di stabilità” (un indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non superiore al 3% del Pil ed uno stock di debito tendente a non superare il 60% del Pil), l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazione sfiora il 15% in Irlanda, il 12% in Grecia, il 10% in Spagna, l’8% in Francia , il Portogallo al 7% e Italia e Germania attorno al 5% ed il rapporto tra stock di debito e pil è in Grecia 135%, in Italia 118%, il Irlanda 96%, in Portogallo 91%, Francia 88%, in Germania 80% ed in Spagna 74%. In gran misura a ragione degli interventi di salvataggio a favore del settore finanziario (ed in certi casi pure dal manifatturiero), la media ponderata dello stock di debito pubblico dei Paesi dell’area dell’euro in rapporto al pil è l’88% , ossia sfiora il 90%.
Un altro dato dice ancora di più: l’aumento dello crescente spread dei tassi d’interesse a lungo termine e dei credit default swaps tra Paesi dell’area dell’euro più o meno virtuosi. Un’analisi molto raffinata del Levy Economic Institute del Bard College (i Public Policy Brief n. 106 uscito in dicembre a firma di Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray) . Tale aumento sta provocando tensioni che rischiano di lacerare il tessuto stesso dell’unione monetaria. Lo conferma un lavoro interno dei servizi della Commissione Europea: tre economisti - Servaas De Roose, Werner Ra-Ger, Sven Lmnagedjik – della Direzione Generale Affari Economici e Finanziari mettono in rilievo come siano in atto shock asimmetrici non solamente sotto il profilo finanziario e monetario (al centro dell’analisi di Stephanie A. Kelton e L. Randall Wray) ma anche sotto quello dell’economia reale a ragione di come prezzi e salari dei differenti Paesi stanno rispondendo alla crisi. Molto esplicitamente, Georges Cavalier, dell’Università di Lione, in un lavoro in corso di pubblicazione, documenta come i piani anti-crisi dei singoli Paesi siano elusivamente nazionali in obiettivi e strumenti: analizza in particolare quello della Francia.
Interessante vedere come ciò riguarda non solo i Paesi dell’area dell’euro in senso stretto ma anche quelli del cosidetto SME II, ossia i Paesi dell’Ue, in gran misura i neocomunitari, che non fanno parte del gruppo della moneta unica ma che intendono, prima o poi, appartenervi. Un’analisi di Lucjant Orlowski , un noto economista polacco che insegna anche negli Usa ed in Germania, sottolinea come Repubblica Ceca, Polonia ed Ungheria siano su sentieri divergenti per quanto attiene ad uno degli aspetti cruciali del percorso: l’allineamento dei tassi d’inflazione alla media (più un punto e mezzo per cento) dei tre Paesi più virtuosi.
Le citazioni potrebbe continuare. In breve, ne risulta un chiaro-scuro a cui alla soddisfazione per i segnali sempre più consistenti di ripresa della produzione (quelli dell’occupazione non si vedranno prima del 2011) si accompagnato preoccupazioni per la tenuta dell’euro di fronte a strategie a volte apertamente divergenti degli Stati dell’unione monetaria. Era noto sin da quando si lavorò al percorso verso la moneta unica che non si sarebbe operato in quella che il Premio Nobel Robert Mundell definiva “un’area valutaria ottimale” (con piena circolazione dei fattori e dei prodotti ed assenza di asimmetrie informative e posizionale). Ma non ci si aspettava che la crisi sarebbe arrivata così presto.
Stepahnie A. Kelton e L. Randall Wray propongoo una ricetta tanto europeista che non la si aspetterebbe dagli Usa : non ci si deve affidare unicamente o principalmente alla disciplina posta dai mercati internazionali (ossia allo spread) ma allo politica con la “P” maiuscola creando un vero e proprio bilancio federale (con risorse molto maggiori di quelle di cui dispongono la Commissione Europea e la Banca centrale europea) ed una “nuova istituzione finanziaria” con lo scopo di aiutare i Paesi dell’area dell’euro in difficoltà un’ampia serie di obiettivi di politica economica durante le fasi di contrazione. Molto più cauti gli economisti della Commissione: insistono su liberalizzazione dei mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi per andare verso un’area valutaria ottimale. Troppo ardimentosa la prima. Troppo timida la seconda. Le nuove istituzioni europee dovranno trovare una soluzione tra queste due.
Per saperne di più
Cavalier G: "French Interventions in the Financial Crisis" (in corso di pubblicazione)
Kelton K, Randall Wray “Can Euro Survive” The Levy Economics Institute of Bard College, Policy Paper n. 106 2009
DeRoose, S., Ra-Ger W, Landijk S. "Reviewing Adjustment Dynamics in EMU: From Overheating to Overcooling" , European Economy Economic Paper No. 198
Orlowski L. "Monetary Policy Rules for Convergence to the Euro" CASE Network Studies and Analyses No. 358