lunedì 31 agosto 2009

UNA STRATEGIA GIA’ USATA AMPIAMENTE NEI PAESI EUROPEI Il Tempo 31 AGOSTO

In che modo la partecipazione dei lavoratori agli utili (e di converso alle perdite) dell’impresa può contribuire a uscire dalla crisi economica ed ad definire un più efficiente e più efficace quadro di relazioni industriali per l’Italia del “dopo-crisi”?
In varie guise e maniere, la partecipazione dei lavoratori (quale che sia il livello) ai profitti dell’impresa è in vigore in vari Paesi. E’ stata per decenni una delle caratteristiche dell’”economia sociale di mercato” tedesca, dove è stata una leva del miracolo economico negli anni 50 e 60 e lo strumento principale per risolvere i problemi di una delle maggiori industrie metal meccaniche (la Volkswagen) a cavallo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90. Si tratta , in gran misura, di Paesi dove la contrattazione nazionale è meno corposa che in Italia (principalmente per quanto riguarda i contenuti economici – salari e stipendi) e la contrattazione aziendale è, invece, di grande rilievo e collega , in vario modo, i salari e gli stipendi “totali” all’andamento della produttività ed al conto profitti e perdite della singola impresa.
In Italia, proposte in questo senso sono state formulate più volte da esponenti tanto del centro-destra quanto da centro sinistra. Fu anche una delle tesi portanti di un convegno programmatico negli Anni 60 tenuto dalla DC a San Pellegrino. Se ne è fatto poco o nulla principalmente in quanto spesso il sindacato ha temuto che si trattasse di un modo per annacquare la contrattazione collettiva nazionale , e il potere politico che essa comporta.
Adesso, il clima generale è cambiato. Principalmente se si riflette su quella che sarà l’economia del “dopo-crisi”. Occorre, però, sottolineare che nel contesto italiano un nesso tra utili aziendali e salari effettivi esiste giù nelle piccole e medie imprese, nei distretti e nelle imprese-rete; in queste imprese, in caso di perdite aziendali, i salari effettivi subiscono di fatto una contrazione (in quanto cessano gli straordinari). La proposta , quindi, riguarda principalmente le grandi imprese. Le reazioni del “grande sindacato” a riguardo non sono state molto chiare.

domenica 30 agosto 2009

Manon Lescaut at the Festival Puccini di Torre del Lago OperaToday August 30

Each year, the tiny Tuscan village Torre del Lago hosts a festival dedicated to its favorite son, Giacomo Puccini. This year’s Puccini Festival (10 July - 30 August) featured a “new” Manon Lescaut (a co-production with Opera del Nice Theater), its premiere garnering standing ovations for Marcello Giordani and Martina Serafin and accolades for Alberto Veronesi, the artistic director of the Festival.
Giacomo Puccini: Manon Lescaut
Manon Lescaut: Martina Serafin; Lescaut: Giovanni Guagliardo; Des Grieux: Marcello Giordani; Geronte di Ravoir: Alessandro Guerzoni; Edmondo: Cristiano Olivieri; Il Maestro di ballo: Stefano Consolini; Un musico: Nadia Pirazzini; L’oste: Claudio Ottino; Un lampionaio: Stefano Consolini; Sergente degli arcieri: Veio Torcigliani; Un comandante di Marina: Claudio Ottino. Direttore: Alberto Veronesi. Regia: Paul-Emile Fourny. Scene: Poppi Ranchetti. Costumi: Giovanna Fiorentini. Light designer: Jean Paul Carradori. Orchestra e Coro del Festival Puccini.
Above: Martina Serafin as Manon and Marcello Giordani as des Grieux

All photos courtesy of Festival Puccini di Torre del Lago

What set this production apart was the inclusion of a prelude to Act II that had been part of an earlier draft of the work, along with a scene of the two lovers living happily in Paris. Aside from being too similar to Massenet’s Manon (‘adieu à la petite table’), Puccini cut the scene to move directly from the lovers’ flight from Amiens to Geronte’s mansion where Manon, having abandoned the penniless des Grieux, luxuriated as Geronte’s mistress. The fully orchestrated prelude had gone unperformed until Chailly’s 1984 recording of rarely performed works (a recording that is currently difficult to find). With this production, Maestro Veronesi performed the prelude as an integral part of the entire work.
Martina Serafin as Manon

A minuet in form, the prelude, rife with melancholy, evoked the flame of the lovers’ intense, but short-lived affair. More importantly, the prelude evidenced Puccini’s mastering of 20th century musical theater that incorporated Wagner’s rich symphonic approach and anticipated Janáček’s use of repetitive fragments (“interruption motifs”) and of his orchestration, often with programmatic origins, “capable of great sweetness [yet with] a roughness caused by the unblended layers of orchestra and by the seemingly unidiomatic writing in individual parts.” [John Tyrrell, “Janáček, Leoš [Leo Eugen],” Grove Music Online]
Guided by Maestro Veronesi, the Puccini Festival Orchestra has matured significantly over the past five years. In this production of Manon Lescaut, the orchestra traversed the difficult score masterfully, both in supporting the singers (à la Verdi) and in performing program music (such as the intermezzo between Act II and Act III) with aplomb. It was difficult, however, to appreciate all of the orchestra’s subtleties in the upper rows of the 3,500-seat open air auditorium.
Passion, even carnal passion, paradoxically devoid of erotic love and desire, inspired Verdian melodrama. Manon Lescaut, on the other hand, returned erotic expression as a central element of Italian opera. The erotic aspects of Manon Lescaut are expressed with increasing intensity by the two principals, Manon and des Grieux, from the youthful aria “Donna non vidi mai” (Act I), to the duet “Tu, tu amore tu” (Act II), to the aria “No! no!, pazzo son” (Act III), to the desperate “Sola, perduta, abbandonata” (Act IV). Marcello Giordani and Martina Serafin executed these roles with perfection. Giordani’s wide register and power filled the auditorium, recalling the finest of performances by Domingo in the mid-1980s. Serafin, mostly noted for her performances of Wagner and Strauss, added a Wagnerian touch to “Sola, perduta, abbandonata” that aligned well with Veronesi’s conducting, her performance of the role being closer to that of Renata Scotto rather than that of the more lyrical Mirella Freni. Comprimario roles — Lescaut (Giovanni Guagliardo), Edmondo (Cristian Olivieri), Geronte (Alessandro Guerzoni) — were adequate, yet overwhelmed by Giordani and Serafin.
Martina Serafin as Manon and Marcello Giordani as des Grieux
Significant weaknesses of this production arose from the contributions of Paul-Emile Fourny (director) and Poppi Ranchetti (sets). Little attention was paid to the singers’ acting . And the staging included a crowd of mimes (ostensibly naked) and dancers, the relevance of which remained unclear. The set transformed from a Renaissance ninfeo by Bramante (a 15th century architect) to a villa near Rome that deteriorated in appearance from one act to another (seemingly intended to mirror the degradation of Manon and des Grieux), all having a bewildering effect.
Giuseppe Pennisi

sabato 29 agosto 2009

PSICOPATOLOGIA DELLA CRISI FINANZIARIA Il Domenicale 29 agosto

Convenzionalmente, la crisi finanziaria ed economica internazionale (da cui, pare, si stia cominciando ad uscire) viene fatta iniziare nell’agosto 2007 quando le autorità monetarie americane ed europee sono intervenute alla grande per tentare di evitare fallimenti di banche e di finanziarie. Un tentativo riuscito solo in parte: il 14 settembre, i clienti della britannica Northern Rock (“la roccia del nord”) fanno la fila agli sportelli per ritirare i loro depositi, poche settimane dopo vengono in pratica nazionalizzati i due maggiori istituti Usa per il rifinanziamento e la compravendita di mutui immobiliari e nel settembre 2008 chiude i battenti Lehman Brothers, un simbolo della finanza internazionale.
In questi due anni, una vera e propria piccola industria editoriale si è dedicata alla crisi, alle sue origini, ai suoi sviluppi, ai suoi possibili sbocchi: saggi tecnici e divulgativi, romanzi, racconti, film ed anche regie d’opere liriche scritte e composte negli Anni 20 ed ambientate (da libretto) nel periodo immediatamente successivo la guerra austro-prussiana (tempi duri anche allora, ma a metà Ottocento). La professione economica è stata messa sul banco degli accusati dalla stessa Regina della Gran Bretagna per non avere previsto lo tsunami finanziario. Con un abile operazione mediatica, Nouriel Roubini della Università di New York è stato presentato come l’unico “veggente” che aveva visto l’approssimarsi del brutto tempo. In effetti, da un lato la professione spiega fenomeni economici, non li prevede (con molti “se, ma e però” una branca dell’econometria si dedica a stime di norma, a breve termine – 24-36 mesi). Da un altro, l’avvicinarsi tempesta era stato avvertito da anni da numerosi economisti: pure dal vostro “chroniqueur” che avendone trattato in un breve saggio apparso nei primi due fascicoli di “Mondoperaio” del lontano 1989 ha preso le necessarie guarentigie con la conseguenza che dal gennaio 2008 al 13 agosto 2009 ha visto diminuire la valorizzazione del proprio portafoglio finanziario appena del 2% - livello facilmente recuperabile nei prossimi mesi.
La crisi solleva numerosi interrogativi che meritano di essere trattati su un settimanale culturale, più che su testate economiche e finanziarie. Il nodo di fondo riguarda, in effetti, per quale motivo la professione economica (specialmente in Italia, ma anche nel resto d’Europa e negli Stati Uniti) non ha tenuto in dovuto conto ad un comparto di crescente importanza rivolto all’analisi psicologica dei comportamenti dei soggetti economici – individui, famiglie, imprese, istituzioni ed amministrazioni pubbliche – ed alle ragioni per le quali si distanziano sempre più frequentemente dal modello semplice ma efficace alla base della disciplina – secondo il quale le scelte vengono effettuate massimizzando una funzione di utilità utilizzando l’informazione disponibile e trattandola in modo adeguato. Questo comparto non è una conventicola di pochi addetti ai lavori: Victor Ricciardi che lo coordina in seno al Social Science Research Network (una biblioteca telematica di oltre 4 milioni di volumi) invia ogni giorno agli iscritti al suo servizio due “newsletter” – la prima riguarda progressi nella teoria e nella metodologia (e consente di scaricare i relativi papers), la seconda (pur essa con la possibilità di scarica papers) contiene esempi ed esperimenti empirici.
Il comparto ha varie denominazioni: “behavioral economics”, “neuroeconomics”, “pyscoeconomics”. Per semplicità e mutuandone il lessico dalla recente rassegna pubblica da Stefano DellaVigna dell’Università della California a Berkeley nel fascicolo di giugno 2009 del “Journal of Economic Literature” chiamiamola, per semplicità, “psicologia dell’economia”. E’ un comparto molto vasto che abbraccia tutti i campi della disciplina – la rassegna di DellaVigna, peraltro incompleta proprio sotto il profilo della finanza analizza oltre 500 titoli –.
Chi ha saputo applicarne gli aspetti di fondo ai mercati finanziari, si è difeso dalla crisi – come si è visto - meglio degli altri. Occorre che se ne rifletta in preparazione del G20 di Pittsburgh e della assemblee annuali della Banca mondiale e del Fondo monetario in quanto le nuove “global rules” su cui tanto si pone l’accento riusciranno ad incidere sui comportamenti (e renderli virtuosi da così opportunistici da diventare viziosi) unicamente se non verranno predisposti da esperti disattenti rispetto a questa evoluzione della disciplina.
Nell’economia di questa nota, mi limito a tre aspetti connessi alla finanza: a) la dipendenza dei soggetti da punti di riferimento a cui si aggrappano (un concetto freudiano); b) la disattenzione all’informazione anche pubblica (un concetto junghiano) ; c) l’eccessiva autoreferenzialità e fiducia nelle proprie capacità (ancora una volta un concetto studiato da psicologi, e curato da psichiatri, più frequentemente che da economisti.
La dipendenza da punti di riferimento è stato studiata sin dalla metà degli Anni 80 da Premi Nobel come Edward C. Prescott, ma affinato nella seconda metà degli Anni 90 da John Campbell, John Cochrane , Shlomo Benartzi, Richard Thaler e altri proprio sulla base di dati empirici relativi al mercato finanziario Usa con serie storiche dal lontano 1871. In breve, gli operatori hanno avuto un premio circa del 9% dai loro investimenti in capitale di rischio (azioni) rispetto ai piazzamenti in obbligazioni. Tale “premio di rischio” (che nel lungo termine potrebbe sembrare molto elevato – basta pensare agli esiti in termini di interesse composto) è invece coerente se il lasso di tempo ipotizzato dagli operatori è un anno: la probabilità che in un ottica così breve le azioni rendano meno delle azioni ed una “avversione alle perdita” non troppo elevata comportano un “premio di rischio” così alto. Per lo stesso motivo, dimostra uno studio di Terence Odean, nel 1987-93 (ossia nel periodo successivo alla crisi delle Borse del 1987 e precedente quella dei cambi del 1992-93) c’è stata una tendenza a vendere titoli “vincenti” (sui quali si erano realizzate plusvalenze di rilievo) e a tenere in portafoglio quelli “perdenti” (sperando in tempi migliori). Le “global rules” saranno efficaci unicamente se sapranno vincere questa miopia temporale degli operatori
Di particolare rilievo, l’applicazione di modellistica psico-economica al mercato dell’edilizia residenziale (non dimentichiamo che è stato il detonatore dell’attuale crisi). Uno studio di David Genesove e Christopher Meier (in base ai dati relativi alle compravendita di appartamenti nell’area di Boston – dal prezzo proposto all’inizio della trattativa a quello del rogito – prova come chi mette la propria abitazione sul mercato utilizza come base per il calcolo del prezzo iniziale non tanto il mercato (ossia le compravendite nell’area) ma il proprio prezzo d’acquisto. Ciò si è verificato tanto nel boom delle valorizzazioni dell’edilizia residenziale nel 1983-87 quando nella fase di riduzione dei prezzi delle case nel 1989-92 al quale, come tutti sappiamo, ha fatto seguito l’esuberanza irrazionale a partire dalla seconda metà degli Anni 90 sino all’esplodere della crisi nel 2007. L’analisi è particolarmente eloquente: anche coloro che , rispondendo a questionari, si dicono pronti, o costretti, a vendere “in perdita”, citano prezzi di soglia notevolmente superiori a quelli che sarebbero ragionevoli prezzi di mercato (in base a rogiti recenti per unità immobiliari simili). E’ un nodo psicologico che può essere diagnosticato e curato dagli economisti unicamente in collaborazione con altre professioni.
Veniamo alla disattenzione nei confronti dell’informazione – argomento di due volumi che ho curato con il collega Giuseppe De Filippi molto prima dell’inizio dell’attuale crisi. Allora documentammo come i dipendenti pubblici italiani , dirigenti compresi, reagiscono o troppo o troppo poco alle “news”, pure a quelle che dovrebbero essere il loro pane quotidiano nell’aiutare politici a formulare “policies”. Un’analisi di Gur Huberman e Tomer Reger analizzano come ciò avvenga , e forse ancora di più, nel campo dell’informazione finanziaria. Esemplare il caso della EntreMed, un’azienda farmaceutica specializzata in medicine sia curative sia palliative relative al cancro. Il 28 novembre 1997 il periodico “Nature” e il “New York Times” (a pagina 28 del dorso A) diedero notizia di risultati preliminari ma positivi di un farmaco della casa, la cui azioni riportano uno spiegabilissimo aumento del 28%. Il 4 maggio 2008 (ossia sei mesi più tardi), il “New York Times” riprese la notizia (ormai vecchia, anzi vetusta) in prima pagina, senza, per di più aggiungere, nulla di nuovo: le quotazioni di EntreMed fecero un balzo del 330% - e quelle del settore delle biotecnologie in generale uno del 7,5%. Per i 12 mesi successivi, le quotazioni di EntreMed non sono tornate ai livelli precedenti il 4 maggio 1998. Quando maggiore è la disattenzione tanto più ritardato è l’assorbimento dell’informazione con effetti distorsivi. In uno studio recente (inverno 2008), Lauren Cohen e Andrea Fazzini analizzano come gli operatori rispondono più alla informazioni indirette (e meno rilevanti) che a quelle dirette (e più pertinenti); interessante notare che nei lavori con De Filippi di alcuni anni fa (con un campo di analisi , i funzionari ed i dirigenti della pubblica amministrazione italiana, molto distinto e molto distante dagli investitori nella Borsa Usa) giungemmo a conclusioni analoghe. Anche in questo caso, sapere distinguere il pertinente ed il meno pertinente tra le informazioni a cui rivolgere attenzione è aspetto, alla base della crisi finanziaria iniziata nell’estate 2007, la cui diagnosi e terapia richiede non solo la cassetta degli attrezzi degli economisti ma anche quella di chi sa come funzione la psiche umana.
Veniamo al terzo punto: l’eccessiva fiducia nelle proprie capacità di venire a capo di situazioni. Nell’estate 2007, molta stampa internazionale esultò ai primi interventi della Federal Riserve e della Banche centrale europea, dichiarò che la crisi era terminata e qualcuno si complimentò anche con gli istituti di credito Usa che avevano concesso mutui senza gli occhiali arcigni delle nostre banche. Chi – come il vostre “chroniqueur” scriveva che si era solo agli inizi- venne tacciato di catastrofismo, ove non di peggio. Pochi mesi dopo la Northen Rock e Lehman Brothers erano prese d’assalto. In effetti, la “psicoeconomia” studia come e perché i soggetti economici tendono ad avere eccessiva fiducia in se stessi. Nel lontano 1981, un’analisi pionieristica di Ola Svenson rivelò che l’83% degli automobilisti si dicono convinti di sapere guidare meglio delle mediana della categoria, Più di recente (due studi del 2005 e del 2008) dimostra che gli amministratori delegati si reputano, in generali, grandi risanatori , con la conseguenza di acquisire aziende a valori di norma superiori a quelli di mercato. Non solo (pur se “costretti” da prassi aziendali ad avere al proprio fianco un direttore finanziario) si considerano anche maghi della Borsa, con il risultato di esercitare le proprie stock options sino al termine del mandato e di non diversificare adeguatamente i propri portafogli personali. Ritengono, infine, di essere gli unici depositari di informazioni precise, specialmente quando si tratta di comprare e vendere in Borsa : il risultato è costi di transazione generalmente più alti (e rendimenti netti più bassi) di quanto avverrebbe con un comportamento più prudente. C’è una marcata differenza di genere: mediamente, il numero annuale di transazioni degli gli uomini in Borsa supera il 45% di quello delle donne (con la conseguenza che gli uomini hanno costi di transazioni più alti e rendimenti netti più bassi delle donne). Le “global rules” potranno affrontare e risolvere questo nodo se i barracuda-esperti delle pandette e della finanza non sono appropriatamente affiancati?
Con questa nota, si vuole unicamente gettare un sasso in uno stagno molto vasto e molto complesso. Se la crisi ha fondamenta psico-economiche, gli economisti ed i giuristi non possono da soli né risolverla né evitarne altre. Clemenceau diceva che la guerra è attività troppo importante per affidarla ai generali. Insegno economia da decenni e sono giunto alla conclusione che, per fare il proprio lavoro, l’economista necessita dello psicologico , dello psichiatra e dei loro strumenti (pure del lettino) per poter dare risposte utili ad un tema così complesso. Mi auguro che si apra un dibattito tra i lettori del “Dom”.

giovedì 27 agosto 2009

- MiTo e Sagra Malatestiana: al via il primo settembre Il Velino 27 agosto

Roma, 27 ago (Velino) - La settimana prossima, il primo settembre, iniziano due eccezionali avvenimenti musicali: uno - Il Mi.To. SettembreMusica – giovane, alla sua terza edizione; l’altro, la Sagra Malatestiana maturo, allo 60sima edizione. Tratteremo poco del primo che, dotato di larghe risorse finanziarie, ha realizzato sin dalla primavera scorsa una grande campagna mediatico-pubblicitaria. Ci soffermeremo maggiormente sulla Sagra (che ha il suo fulcro a Rimini) per l’originalità delle proposte che contiene. Quando il Mi.To ha preso il via, nel 2007, pur in base all’esperienza quasi ventennale di “Settembre Musica” a Torino, aveva tutte la caratteristica di una festa musicale organizzata con entusiasmo ma anche con improvvisazione, ingaggiando, in gran misura, artisti e complessi disponibili poiché impegnati, in quel periodo, in altre manifestazioni in Italia o Paesi vicini. Già nel 2008 aveva la connotazione di un festival, anzi dell’”ultimo festival” in quanto chiudeva l’estate festivaliera ed faceva da preludio alle “stagioni” (operistiche, concertistiche, cameristiche) dell’autunno-inverno. I suoi 230 eventi avevano tre fili conduttori importanti: la personale di Harrison Birstwhile (uno dei massimi compositori contemporanei), il barocco (nel senso etimologico di musica che non segue regole prestabilite) e nelle sue espressioni attraverso i secoli, il nesso con il visivo.

L’edizione 2009 ha ancora di più le caratteristiche di un festival che si rivolge non solo agli appassionati di musica nelle sue varie declinazioni (pop, jazz, classica di vari secoli e stili, contemporanea di differenti tendenze, anche lirica), coniugandola con il visivo e la letteratura. Il programma,consultabile al sito www.mitosettembremusica.it include oltre 300 eventi. La ricchezza e la varietà della manifestazione è tale che comporta il rischio di perdersi in un labirinto, specialmente per coloro che non hanno una preferenza spiccata per una tipologia di musica piuttosto che per un’altra (ed alle rispettive associazioni con il visivo e la letteratura).

Io sceglierò un mix di due percorsi: il “focus” sulla musica giapponese e, in alternativa, o quello sul barocco oppure quello contemporaneo. In primo luogo, l’offerta di musica giapponese in Italia è rara; è, però, un comparto importante che con il suo calligrafismo e la sua apparente libertà da canoni ha molto in comune sia con il barocco sia con alcuni aspetti della musica contemporanea. Ascoltare composizioni di Toshio Hosokawa quasi accanto a quelle di Bach, Haydn o di Händel oppure di Craig, o di Berio e di Mantovani può fare toccare con mano (o meglio con gli orecchi) il valore ed il significato di queste assonanze. Il Giappone musicale di ieri e di oggi è molto più vicino alla sensibilità dei nostri antenati e dei nostri contemporanei, nonostante ci sia stata una forte discontinuità nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Interessante a riguardo raffrontare l’opera in un atto “Hanjo” di Hosokawa che ha debuttato a Aix en Provence alcuni anni fa e si è vista in tutto il mondo e la “Agrippina” di Händel, che al MiTo verrà eseguita di Alan Curtis ed il suo complesso e poche settimane dopo, al “Malibran” di Venezia, da quello di Fabio Biondi.

La Sagra Malatestiana è in effetti iniziata in agosto con un ciclo dedicato a Bach. Il primo settembre inizia il festival sinfonico (e non solo) con uno straordinario concerto a cui prendono parte Martha Argerich al pianoforte, Charles Dutoit sul podio e la Royal Philhamornic Orchestra di Londra. Varie e ricche le proposte offerte dagli appuntamenti sinfonici: un omaggio alle grandi orchestre europee. Il vasto giro di orizzonte è caratterizzato dalla presenza della Deutsches Symphonie Orchester di Berlino che terrà a Rimini due concerti diretti da Ingo Metzmacher con l’omaggio a Mendelssohn offerto dal violinista Christian Tetzlaff e un’ampia panoramica nella musica del primo Novecento, grazie alla presenza di autori come Franz Schreker, Anton Webern e Claude Debussy. Con Yuri Temirkanov sul podio torna l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo con un programma dedicato a Sergej Prokof’ev. A esplorare le radici della modernità è anche l’appuntamento con la Swedish Radio Symphony Orchestra affidato all’affermato talento direttoriale di Daniel Harding che presenta alcuni Lieder di Richard Strauss con la voce di Lisa Milne e la Prima Sinfonia di Gustav Mahler. Ultimo appuntamento con una delle migliori compagini francesi, l’Orchestre National du Capitole de Toulouse affidata al giovane Tugan Sokhiev che, dopo aver affrontato il secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Johannes Brahms con Nelson Freire come solista, concluderà il ciclo degli appuntamenti sinfonici della Sagra Musicale Malatestiana con la visionaria Sinfonia Fantastique di Hector Berlioz.

Molto interessante, la proposta di opere-mini a ragione delle ristrettezze di bilancio. Dopo Diario di uno scomparso di Leoš Janà ek, La Bellezza ravveduta nel Tempo e Disinganno di Händel, Water Passion di Tan Dun, la nuova sfida drammaturgica lanciata dalla Sagra Musicale Malatestiana al regista Denis Krief è il ciclo dei Kafka Fragmente composto da György Kurtàg per voce di soprano e violino e proposto per la prima volta in forma scenica in uno spazio del Convento degli Agostiniani. L’opera di Franz Kafka non si lascia scalfire dalla musica: labili sono le tracce nei racconti e nei romanzi. Perciò György Kurtàg nei Kafka Fragmente sfiora Kafka, sfogliando il suo diario e qualche lettera, prelevando poche frasi e riportando tutto ad una dimensione aforistica che crea una drammaturgia che interviene sulle parole, sulle sillabe, sulle vocali e dove il consueto pianoforte è rimpiazzato da un violino. Ne paleremo più a lungo la settimana prossima.

Molto interessante, la proposta di opere-mini a ragione delle ristrettezze di bilancio. Dopo Diario di uno scomparso di Leoš Janà ek, La Bellezza ravveduta nel Tempo e Disinganno di Händel, Water Passion di Tan Dun, la nuova sfida drammaturgica lanciata dalla Sagra Musicale Malatestiana al regista Denis Krief è il ciclo dei Kafka Fragmente composto da György Kurtàg per voce di soprano e violino e proposto per la prima volta in forma scenica in uno spazio del Convento degli Agostiniani. L’opera di Franz Kafka non si lascia scalfire dalla musica: labili sono le tracce nei racconti e nei romanzi. Perciò György Kurtàg nei Kafka Fragmente sfiora Kafka, sfogliando il suo diario e qualche lettera, prelevando poche frasi e riportando tutto ad una dimensione aforistica che crea una drammaturgia che interviene sulle parole, sulle sillabe, sulle vocali e dove il consueto pianoforte è rimpiazzato da un violino. Ne paleremo più a lungo la settimana prossima.

(Hans Sachs) 27 ago 2009 17:10

mercoledì 26 agosto 2009

SMETTIAMO DI FARCI PAURA Il Tempo 24 agosto

Su un punto concordano uno dei più resistenti, marxisti del secolo scorso, Noam Chomski battagliero ultra ottantenne del M.I.T., e Gérard Mulliez, on più di 80 primavere sulle spalle, fondatore del gruppo Aucham che ha portato in Europa la grande distribuzione: “lo sola strategia per affrettare i tempi ed i modi dell’uscita dalla crisi consiste nello smettere di farci paura”. Il pericolo di scivolare di nuovo nello scoraggiamento è forte, nonostante i segnali di ripresa captati dall’Ocse , dal Fondo monetario, dalle autorità di politica economica di molti Paesi (nonché dai 20 maggiori privati centri di ricerca econometrica, “il gruppo del consensus”). Basta prendere troppo alla lettera le parole di Nouriel Roubini (autoproclamatosi “profeta della crisi”) il quale parla di “fantasma della ripresa”. Per Roubini, il ciclo si presenta a W , in parole povere, toccato il fondo, c’è una ripresa, seguita, però, da un altro tonfo prima che, sistemati alcuni nodi fondamentali (il tasso di risparmio negli Usa, i malanni del sistema bancario, investimenti privati anemici), si possa ripartire pr davvero.
Ho esaminato in dettaglio le stime diramate dal “consesus” la notte tra il 21 ed il 22 agosto (dopo la chiusura di Wall Street). In effetti, tutte indicano – chi più chi meno – alcuni mesi contrazione nel 2010, dopo una certa baldanza tra la fine dell’anno in corso e l’inizio del prossimo. La ripresa vera e propria si manifesterebbe dal 2011. La “caduta” della primavera-estate 2010 è la fase più delicata per chi fa politica economica sotto il profilo della sostanza, della tempistica e della comunicazione. Occorrerà una manovra molto ben temperata e modulata ed ancor meglio spiegata a individui, famiglie ed imprese che, dopo i segnali di miglioramento di queste settimane (destinati a rafforzarsi nei prossimi mesi), temeranno che si sia scivolati in una recessione peggiore di quella da cui si è pensato di essere appena usciti.
All’interno dell’unione monetaria,il modo di affrontarla varierà da Paese a Paese perché differenti sono i vincoli di ciascuno in termini di politica di bilancio e di politica dei prezzi e dei redditi. La Banca centrale europea non ha fatto mancare liquidità al sistema e non lo farà nell’eventualità (probabile) di una caduta primaverile.
Per evitare di farci paura (alla flessione successiva ai primi segni di ripresa), la politica di bilancio deve essere lineare e comprensibile: ciò vuol dire una bella pulizia delle numerose “contabilità speciali” che rendono difficile capire cosa è investimento vero e cosa mero artificio creativo e che, in parallelo, danno vita ad un Himalaya di residui (con implicazioni gravi in termini di fabbisogno di ricorso al mercato). In tal modo, il Ministero dell’Economia e delle Finanze avrà gli strumenti per meglio qualificare la spesa e tenerla nell’alveo del patto di crescita e di stabilità. Per quanto attiene la politica dei prezzi dei redditi, occorre attuare quanto proposto nel recente documento sul welfare. In settembre, un programma dettagliato di misure potrebbe fare molto nel prevenire nuovi scoraggiamenti.

LT - Fine stagione lirica estiva: escort e muse bizzarre e altere

Roma, 26 ago (Velino) - Patrizia D’Addario, poco più di un nome nell’elenco del telefono di Bari e dintorni sino a qualche mese fa ed ora una celebrità interna ed internazionale, esce di scena. Non perché sia terminata la serie infinita di registrazioni e fotografie (vere o presunte) per comprovare la sua attività di “escort” (presunta e vera), pure se unicamente per una o due notti, con il presidente del Consiglio. Ma perché, al termine di questa stagione lirica estiva, ha trovato un lavoro “vero” e di lunga durata, non solamente una porticina di un “reality”. Meno precario di quello della “escort” (in tutte le declinazioni, pure religiose e rituali, avute nei secoli passati), o di quello (piuttosto noiosetto e, dalla legislatura appena iniziata, neanche troppo pagato) di parlamentare europeo oppure una candidatura iper-blindata alle prossime Regionali (i maligni dicono che Lona Staller, detta Cicciolina, le avrebbe suggerito di stare lontana dai suoi caduchi intrighi della politica) od ancora l’attività traballante, d’imprenditrice nell’edilizia. È diventata – ma pochi lo sanno – consulente speciale della “musa bizzarra e altera”, termine appropriatissimo con cui il musicologo tedesco Herbert Lindenberger ha definito l’opera lirica in un testo di un paio di lustri ma pur sempre fondamentale per chi si avvicina alla disciplina.

Bizzarra e altera, Patrizia D’Addario lo è. Ed è lieta di esserlo e d’avere le doti di base per accostarsi alla lirica ed iniziarvi un percorso internazionale. Non limitata a Bari e Via del Plebiscito (luogo dove c’è il più alto tasso d’inquinamento atmosferico di Roma e su cui s’affaccia Palazzo Grazioli). I bene informati affermano che, pur non comparendo nei titoli di testa, avrebbe già iniziato la nuova attività nella cattolicissima Macerata, a pochi passi dal Santuario di Loreto, dove dal 23 luglio al 9 agosto è stato in scena “L’inganno”, tema di base del Festival dello Sferisterio (una delle rare manifestazioni artistiche italiane che chiude da tre anni con un leggero attivo finanziario ed ha una forte partecipazione di sponsor locali e internazionali). Con la D’Addario potrebbe fare faville ancora maggiori. “L’inganno” include nuovi allestimenti di tre opere molto note (“Don Giovanni” di Mozart, “Madama Bufferfly” di Puccini e “Traviata” di Verdi) e la prima mondiale di “Le Malentendu” di Matteo D’Amico, nonché un omaggio a Händel, “Il Trionfo del Tempo sul Disinganno” ed uno ad Antonio Di Pietro, una “lettura” di “Corruzione al Palazzo di Giustizia” di Ugo Betti, dramma quasi non più rappresentato in Italia ma molto presente all’estero poiché inganni nei corridoi e nelle aule dei tribunali sono di grande attualità in tutto il mondo.

Non solamente i maligni affermano che di inganni la D’Addario è vera esperta ma il “Don Giovanni” che ha inaugurato il Festival richiede protagonisti giovani, di bello aspetto e buon talento perché si svolge quasi interamente a letto e vi vengono mostrate tutte le arti in cui le geishe giapponesi, le kiseang coreane ed ora le “escort” italiane hanno delicata e consumata esperienza. In un delizioso teatro del Settecento per appena 400 spettatori, fondali pareti e soffitti a specchio rimandano l’immagine dei personaggi in varie prospettive, fanno diventare i palchi del teatro elemento della scena e soprattutto mostrano a tutti (da molteplici punti di vista) cosa avviene sotto e sopra le bianche lenzuola dell’unico elemento di attrezzeria: un enorme letto bianco, dove si consumano inganni ed illusioni dei sette personaggi. Dato che in Europa c’è carenza di geishe e kisaeng, cosa meglio che rivolgersi ad “escort” note per la loro serietà e professionalità?

Scritture starebbero venendo anche dalla calvinista Ginevra dove Chrispopher Py (direttore de l’“Odéon”) di Parigi ha messo in scena una versione de “La Damnation de Faust” di Berlioz in cui l’elemento portante sono i riflettori puntati sui genitali maschili (ovviamente nudi e ben proporzionati), dalla Komische di Berlino (dove in alcuni allestimenti di repertorio, ad esempio quello del mozartiano “Ratto dal Serraglio”, i costumi sono dalla cintola in su - non dalla cintola in giù), ed anche da Francoforte dove Christoph Loy renderebbe trasgressivo pure “I Dialoghi delle Carmelitane” di Poulenc. Essenziale il suo apporto al Teatro Massimo di Palermo dove la primavera prossima sarà in scena la prima italiana “I Predestinati” di Frank Schreker, opera peccaminosissima degli Anni 20 (considerata “degenerata” dal regime tedesco dell’epoca): si svolge in una Genova secentesca dove l’attività principale pare essere coniugare orge con inganni. Od anche a Torre del Lago, dove si confeziona un Puccini per famiglie, ma quest’anno il duetto di “Manon Lescaut” viene accompagnato da una piccola orgia di mimi semi-nudi; si avvertiva la mancanza di consulente esperta, oltre che bizzarra e altera.

(Hans Sachs) 26 ago 2009 12:23

PERCHE' OBAMA HA RINNOVATO BERNANKE ALLE GUIDA DELLA POLITICA MONETARIA AMERICANA , L'Occidentale 26 agosto

Nuovo giro in Fed
Perché Obama ha rinnovato Bernanke alla guida della politica monetaria Usa



Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha rinnovato il mandato del Presidene della Federal Reserve, Ben Bernanke, che resterà, quindi, alla guida della politica monetaria americana sino al 2014. L’”advice and consent” (ossia il voto) positivo del Senato è dato per scontato. Wall Street ha salutato il rinnovo con un rialzo dei titoli. Esponenti di rilievo dell’opposizione repubblicana in Congresso hanno manifestato la loro soddisfazione. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce), l’In. Jean-Claude Trichet si è dichiarato lieto di poter continuare a lavorare con il suo “vecchio amico Ben”. Quindi, tutti contenti.

Cerchiamo, però, di comprendere il significato del rinnovo dell’incarico. Ho vissuto a lungo negli Stati Uniti e sono ancora in stretto contatto con colleghi ed amici americani. A mio avviso, le motivazioni di Obama poco o nulla hanno a che fare con la situazione economica internazionale e la perspicacia (o meno) che Bernanke ha dato prova nel saperla (fino ad ora) gestirla. Le ragioni del rinnovo sono essenzialmente tre:

a) La prassi secondo cui un Presidente Usa sceglie o mantiene in incarichi importati personalità che hanno militato o militano in campo avversario. Per questa ragione, ad esempio, John F. Kennedy invitò Robert S. McNamara (sempre iscritto al Partito Repubblicano) ad essere (a sua scelta) o Segretario al Tesoro o Segretario alla Difesa.

b) La difficoltà di trovare un candidato alternativo a Bernanke nell’attuale situazione finanziaria ed economica internazionale. E’ un incarico estremamente difficile che chiunque avesse accettato avrebbe preso quando ormai il treno è in corsa, e, per soprappiù, una corsa dove non si sa chiaramente dove si va a parare. Inoltre, la paga è relativamente modesta (non dimentichiamoci che Paul Volcker lo lasciò perché, nonostante avesse una moglie banchiera (e di successo), non riusciva a mantenere quattro figli all’università.

c) L’obiettivo prioritario di Obama è far approvare la riforma sanitaria anche in una forma semplificata rispetto alle idee iniziali della Casa Bianca. Pur di raggiungere questo scopo non muove una virgola nel tracciato aperto da George W. Bush in altri settori delle politiche pubbliche (dalla politica estera – Afghanistan, Irak- alla politica economica.

Detto questo cerchiamo di fare un bilancio del primo mandato di Bernanke nel palazzone in stile tardo-fascista in Constitution Ave, N.W. dove ha sede la Fed. Senza dubbio dato che gran parte dei suoi lavori accademici (i manuali per la didattica sono stati scritti a scopo commerciale) riguardano la Grande Depressione, Bernanke ha la preparazione per affrontare una situazione economica in cui la recessione minaccia di scivolare in qualcosa di molto peggio. Ha, però, serie difficoltà di comunicazioni con i media (con i quali utilizza spesso un linguaggio criptico rendendo effettivamente arduo fare comprendere quali sono le sue idee – ed anche se ne ha). E, in comune con molti economisti aspiranti al Premio Nobel, ha un’eccessiva considerazione per il proprio punto di vista. Lo si è visto a tutto tondo quando nell’agosto 2007 , lanciati i primi interventi a sostegno del settore finanziario, ha dichiarato (probabilmente in buona fede) che la crisi dei mutui subprime (e di tutto il resto) era ormai dietro l’angolo. Vi hanno creduto anche quei giornalisti e commentatori italiani, che avendo probabilmente fatto da ragazzi i chierichetti, amano accodarsi a qualsiasi coro e coretto, meglio se a cappella. Sono bastate poche settimane per mostrare che il brutto non era ancora arrivato. Il resto è storia nota. Meno noto è che tra salvataggi ed aumento del credito totale interno, il debito complessivo Usa supera il 300 per cento del pil, un’Himalaya che Bernanke, noto per essere un bravo sassofonista ma non un alpinista, non sembra sappia né come scalare né come abbattere.

Se ne rende conto pure il suo “vecchio amico” Ing. Trichet, il quale mentre le voci sul rinnovo si facevano sempre più forti, riempiva di lingotti d’oro le casseforti delle banche centrali europee. Di “vecchi amici” di tal fatta, occorre fidarsi. Ma con cautela.

GIALLO ROSSINI Il Foglio 26 agosto

L’eco è giunto pure a Santa Croce a Firenze. Dove riposa Gioacchino Rossini dal 1887 quando i suoi resti mortali vennero lì traslati dal cimitero di Père Lachaise. Il trentennale del Festival monografico a lui intitolato (Rof per gli amici) è stato celebrato non con un fuochi d’artificio ma da una bordata di fischi all’opera inaugurale, “Zelmira”. Due giorni prima, nella Sala Grande di Salisburgo, contestazioni fragorose hanno accolto il suo “Moïse et Pharaon”, pur diretto da Riccardo Muti.
Chi – come Romano Prodi –pratica con solerzia la parapsicologia ed ha avuto modo di scambiare idee con l’inquilino di Santa Croce se che il nostro, pensando a come sono state composte le due opere, se la sorride. Il nodo è collegato ad una vicenda di pensioni di anzianità che il sindacalista-melomane Sergio Cofferati, pur essendone al corrente, si è ben guardato dal fare sapere in giro. In breve, quando nel 1825, il 33nne Gioacchino sbarcò a Parigi, coperto di fama internazionale (ma già diventato, brunettianamente parlando, un po’ fannullone), concluse un contratto di favola con l’Académie Royale de Musique, il teatro di Stato: a) l’Académie avrebbe avuto l’esclusiva a vita dei lavori del pesarese per il teatro in musica; b) Rossini avrebbe prodotto per l’Académie almeno un’opera originale l’anno; c) in compenso avrebbe avuto uno stipendio da sogno con clausola oro (ossia agganciato sia a costo della vita sia a incremento generale della produttività) che si sarebbe tramutato in pensione ove fosse venuta meno la vena artistica.
Allora non esisteva Internet, la stampa era qualche Foglio autorevole ma con limitata circolazione, Brunetta non era in mente Dei. Per i primi tre anni, Rossini rifilò ai francesi tre adattamenti (al gusto parigini) di lavori poco eseguiti : “Le Siège de Corinthe” (rifacimento di “Maometto II”), “Moïse et Pharaon” (versione dell’oratorio “Mosé in Egitto”) e “Le Conte Ory” (basato su una cantata scenica , “Il viaggio a Reims”, d’occasione). Dei tre gli fu caro sono “Le Conte”, ultima opera erotica d’autore italiano, il quale, pur se bigotto, amava le belle donne e considerava il sacramento della confessione una trovata geniale. Ci fu, poi, lo sforzo eroico per dimostrare che era in grado di gareggiare con le nuove mode (“Guillaume Tell”). Subito dopo una valanga di certificati all’Académie ed altre autorità per fare scattare la clausola previdenziale. Era cambiato il clima politico: il Governo di Luigi Filippo non voleva riconoscere il contratto firmato dall’Esecutivo precedente. In materia di diritto della previdenza, i giudici francesi hanno sempre avuto un occhio di riguardo ai dipendenti: la causa iniziata nel 1830 (Rossini aveva 38 anni) venne definita dalla Corte di Cassazione transalpina nel 1836 con effetto retroattivo all’autunno 1829. Dall’età di 37 anni al 13 novembre 1868 (data della morte), il nostro godette di una pensione tale da fare sì che il salone della sua villa a Passy fosse uno i cui inviti erano tra i più ambiti. Con una pensione di questa portata in vista , chi avrebbe avuto per la testa una minestra riscaldata come “Moïse et Pharaon”, riciclaggio di “Mosé in Egitto” di otto anni prima.
E”Zelmira”? Nasce come opera d’occasione (ingraziarsi i Borboni che tornavano a Napoli ed altre teste coronate che rientravano sui troni dopo il ciclone napoleonico) ed in un momento personale complicato. Il 29nne Gioacchino aveva sofferto per il fiasco al San Carlo del suo capolavoro rivolto all’avvenire “Maometto Secondo” e stava per convolare a nozze con la 36nne Isabella Colbran, il cui letto aveva condiviso per anni con l’Impresario Barbaja , datore di lavoro di ambedue (il ménages à troi sarebbe continuato dopo gli sposali). Stendhal la considerò uno dei lavori peggiori del pesarese. Riccardo Bacchelli la giudicava stanca e raffazzonata.
In quel di Santa Croce a chi, con l’aiuto di una medium, dialoga con lui, Rossini ricorda che a lui i fischi non hanno mai fatto un fiasco, neanche quelli alla “prima” del “Barbiere di Siviglia” al Teatro Argentina di Roma, ma si chiede se nel mazzo non si poteva scegliere meglio e se una volta determinati a mettere in scena “Zelmira”era proprio il caso di aggiungere 26 minuti di musica da lui stessi scartati – si intendeva far gareggiare quanto buttato giù per Metternich e la Santa Alleanza con il wagneriano “Crepuscolo degli Dei”? Misteri dolorosi del primo scorcio del 21simo secolo!

lunedì 24 agosto 2009

Opera, a Torre del Lago la super “Tosca” firmata Lucio Dalla Il Velino 24 agosto

CLT -

Opera, a Torre del Lago la super “Tosca” firmata Lucio Dalla
Roma, 24 ago (Velino) - L’esperimento in corso al Festival Puccini di Torre del Lago (Lucca) merita attenzione in quanto è un tentativo serio di portare nuovo pubblico a un teatro in musica che sia nel contempo spettacolare e di livello dal punto di vista artistico. Un po’ ciò che avvenne in Francia intorno il 1830 quando, esauritasi la fase dell’opéra lyrique, nella “grande boutique” (così veniva chiamato il teatro parigino dell’opera, dotato di attrezzature, per l’epoca, modernissime) subentrò il grand-opéra” di Meyerbeer, Halévy, Auber. Oppure quanto si tentò in Italia mentre il melodramma verdiano volgeva al tramonto e Ponchielli, Lauro Rossi e altri tentarono una forma di grand-opéra padano. A Torre del Lago, si mettono a confronto un nuovo allestimento di “Tosca” (con regia firmata da Beppe De Tomasi) e una revisione integrale riscritta e composta da Lucio Dalla in cui dell’opera pucciniana resta unicamente la trama, anch’essa rivisitata con l’aggiunta di una veggente che predice alla protagonista il proprio futuro. La “Tosca” firmata da De Tomasi (con Fabrizio Maria Carminati alla guida dell’orchestra) ha un impianto tradizionale e ha riscosso notevole successo, particolarmente grazie alla protagonista Amarilli Nizza. Quella di Lucio Dalla ha avuto un anteprima a Ferragosto, debutta giovedì 27 agosto e ha in programma una lunga tournée (Verona a settembre, Bologna a ottobre, Milano a novembre, Roma il prossimo febbraio) con trasferte già previste in Corea e in Giappone e probabilmente in vari paesi europei. Il produttore è David Zard, lo stesso di “Notre Dame de Paris”. Nel golfo mistico, però, ci sarà l’Orchestra del Festival Puccini. Ci si affida a cantanti-attori che sappiano anche ballare ed effettuare prove acrobatiche.

Rispetto alla versione vista a Roma alcuni anni fa, lo spettacolo allestito in anteprima (solamente di alcune scene) a piazza Mazzini a Viareggio a Ferragosto, si presenta rinnovato negli effetti scenografici: un’opera colossale con impianti di riproduzione sonora ultramoderna e proiezioni multimediali spettacolari. Le molteplici cifre musicali e visive che inverano la “Tosca” di Lucio Dalla disorientano inizialmente il pubblico. All’insegna di una ricercata ridondanza di effetti sensoriali, scorrono e inondano come uno straripante torrente mediatico offrendo scene montate e patinate in guisa di sofisticato videoclip. Al sogno premonitore di Tosca (Rosalia Misseri), dove la preveggente Sidonia (Iskra Menarini) esprime l’oracolo sinistro (“Amore disperato”, leitmotiv dell’opera), segue subito la lotta, sostenuta con estrema dinamicità tra il pubblico, in cui si scontrano coreograficamente giacobini e papalini e si salva un disorientato Angelotti (Antonio Carluccio); all’apparizione di Cavaradossi (Graziano Galatone) intento a dipingere nella stilizzata chiesa di Sant’Andrea della Valle, si oppone l’entrata in stile “Matrix” del perfido Scarpia (Vittorio Matteucci).

Mentre la “Tosca” di Puccini si basa su una drammaturgia molto semplificata, e molto efficace (Illica e Giocosa ridussero da cinque a tre anni la pièce di Sardou eliminando personaggi minori e intrecci secondari), quella di Dalla è articolata in un quasi ossessivo mutare di situazioni e atmosfere. Alla melodia struggente rispondono i ritmi concitati inneggianti la libertà, ai duetti d’amore (“Luce dei miei occhi”) la satira clericale al ritmo del can can (“Dio, Dio, Dio”), ai brani pop tipicamente dalliani i passaggi da colonna sonora cinematografica e da romanza. La lotta manichea tra bene e male, tra indipendenza e ossessione, tra amore e morte sembra non esaurirsi mai, corroborata da un corredo insistito di video proiezioni e monitor a creare immagini caleidoscopiche e suoni in riproduzione dolby surround.

Avrà successo? È un lavoro che finanziariamente deve reggersi sulle proprie gambe. Quindi, nel caso non attirasse abbastanza pubblico, non ammortizzasse le spese d’investimento nella lunga tournée e non portasse un utile netto agli investitori, sarà un’esperienza di breve durata. Sarà il mercato, insomma, a giudicare. Ci sono già stati esperimenti analoghi, anche italiani. Ad esempio, la mastodontica “Divina Commerdia, l’opera” di Marco Frisina non ha entusiasmato i critici musicali ma ha reso bene al botteghino, mentre “Notre Dame de Paris” di Riccardo Cocciante si annovera fra i fenomeni internazionali e ha pure permesso all’autore di conseguire il titolo di grande ufficiale della Repubblica italiana.

(Hans Sachs) 24 ago 2009 12:06

venerdì 21 agosto 2009

DE TOMASI E DALLA RIVISITANO LA TOSCA Milano Finanza 22 agosto

A Torre del Lago, si mettono a confronto un nuovo allestimento di “Tosca” (con regia firmata da Beppe De Tomasi) ed una revisione integrale riscritta e composta da Lucio Dalla in cui dell’opera pucciniana resta unicamente la trama (anch’essa rivisitata con l’aggiunta di una veggente, che predice alla protagonista il proprio futuro). La “Tosca” firmata da De Tomasi (con Tullio Carminati alla guida dell’orchestra) ha un impianto tradizionale e notevole successo (particolarmente grazie alla protagonista Amarilli Nizza). Quella di Lucio Dalla ha avuto un anteprima il 15 agosto, debutta il 27 agosto e ha in programma una lunga tournée (Verona in settembre, Bologna in Ottobre, Milano in Novembre, Roma il prossimo febbraio) con trasferte in Corea ed in Giappone. E’ una vera e propria “grand opéra” moderna, un kolossal con effetti speciali da film di fantascienza, impianti audio e luci di ultima generazione, un mix di linguaggi che scivolano dal teatro lirico al balletto moderno, dalla commedia al musical allo show televisivo fino al circo acrobatico. Non per nulla il produttore è David Zard, lo stesso di “Notre Dame de Paris”. Nel golfo mistico ci sarà l’Orchestra del Festival Puccini . Ci si affida a cantanti-attori che sappiano anche ballare ed effettuare prove acrobatiche.
La guerra delle Tosche risponde anche a domande di politica culturale. Operazioni di questa natura riescono ad attirare nuovi spettatori più giovani e contenere i costi unitari tramite tournée internazionali? L’esperienza di “Notre Dame de Paris” è stata, sotto questo profilo, positiva. La grand opéra di Dalla è attesa al varco

giovedì 20 agosto 2009

GUIDA ALL'ASCOLTO DI MI.TO Milano Finanza 21 agosto

Cultura Tutte le novità della terza edizione della festa musicale che prenderà il via a settembre

I 230 eventi si snodano tra vari generi musicali, coniugati con la letteratura

Mi.To. SettembreMusica, alla sua terza edizione, ha vinto una scommessa. Quando ha preso il via nel 2007, pur in base all'esperienza quasi ventennale di Settembre Musica a Torino, aveva tutte le caratteristiche di una festa musicale organizzata con entusiasmo ma anche improvvisazione, ingaggiando in gran misura artisti e complessi disponibili poiché impegnati, in quel periodo, in altre manifestazioni in Italia o Paesi vicini. Già nel 2008 aveva la connotazione di un festival, anzi dell'ultimo festival in quanto chiudeva l'estate e faceva da preludio alle stagioni (operistiche, concertistiche, cameristiche) dell'autunno-inverno. I suoi 230 eventi avevano tre fili conduttori importanti: la personale di Harrison Birtwhile (uno dei massimi compositori contemporanei), il barocco (nel senso etimologico di musica che non segue regole prestabilite) e il nesso con il visivo. L'edizione 2009 ha ancora di più le caratteristiche di un festival che non si rivolge solo agli appassionati di musica nelle sue varie declinazioni (pop, jazz, classica di vari secoli e stili, contemporanea di differenti tendenze, anche lirica), coniugandola con il visivo e la letteratura.

Nonostante il periodo di crisi che ha costretto al ridurre i programmi di molti festival e a commissariare quasi un terzo delle fondazioni lirico-sinfoniche italiane, il Mi.To 2009 si estende e si espande. Il programma, consultabile al sito www.mitosettembremusica.it, include oltre 300 eventi. Si estende geograficamente in quanto include spettacoli a Brescia e a Genova, e apre a nuove iniziative dirette alla formazione musicale, all'ambiente, a sorprese (come Music on the Air e MiToCaffé) e a eventi non ancora programmati, che verranno indicati sul sito. La ricchezza e la varietà della manifestazione è tale che comporta il rischio di perdersi in un labirinto, specialmente per coloro che non hanno una preferenza spiccata per una tipologia di musica piuttosto che per un'altra (e per le rispettive associazioni con il visivo e la letteratura).

Quale può essere il filo di Arianna? Un metodo efficace consiste nello scegliere un mix di due percorsi: il focus sulla musica giapponese e, in alternativa, quello sul barocco oppure sul contemporaneo. In primo luogo, l'offerta di musica giapponese in Italia è rara. È però un comparto importante che, con il suo calligrafismo e la sua apparente libertà da canoni, ha molto in comune con il barocco come con alcuni aspetti della musica contemporanea. Ascoltare composizioni di Toshio Hosokawa accanto a quelle di Bach, Haydn o di Händel oppure di Craig, Berio o di Mantovani può fare toccare con mano (o meglio con le orecchie) il valore e il significato di queste assonanze. Il Giappone musicale di ieri e di oggi è vicino alla sensibilità comune, nonostante ci sia stata una forte discontinuità nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento. Interessante a riguardo confrontare l'opera in un atto Hanjo di Hosokawa, che ha debuttato a Aix en Provence alcuni anni fa, e la Agrippina di Händel, che al Mi.To verrà eseguita di Alan Curtis e il suo complesso e, poche settimane dopo, al Malibran di Venezia con Fabio Biondi.

Interessante anche la serie di concerti di musica russa (Prokofiev, Shostakovich, Stravinskij) , altro comparto che, nonostante la diffusione negli ultimi anni, in Italia è relativamente poco conosciuto. Un suggerimento, infine, per uno dei prossimi Mi.To: portare a Milano e a Torino la vasta, e meravigliosa, produzione jazz di Shostakovich, (riproduzione riservata)

Rossini Opera Festival, qualche suggerimento per l’edizione 2010, Il Velino 20 agosto

Rossini Opera Festival, qualche suggerimento per l’edizione 2010
Roma, 20 ago (Velino) - Seguendo la prassi dei principali festival europei (Aix, Salisburgo, Glyndebourne nel resto del continente, mentre in Italia la praticano unicamente lo Sferisterio e l’Arena di Verona), al termine della prima tornata del Rossini Opera Festival (Rof) 2009 di Pesaro, il management della manifestazione ha annunciato quali saranno le tre principali opere in cartellone la prossima estate. Al Rof 2010 vedremo quindi: “Sigismondo” (mai rappresentata in termini moderni e inizialmente prevista per l’edizione di quest’anno), “Demetrio e Polibio” (rappresentata una quindicina di anni fa al Festival di Valle d’Itria a Martina Franca e di cui è stata realizzata un’edizione in disco) e “La Cenerentola” (nell’allestimento ormai più che decennale di Luca Ronconi che si è visto in molti altri teatri). Il programma, è stato precisato, subirà modifiche se diminuiranno ulteriormente i finanziamenti.

Il programma rispecchia l’intenzione di mettere in scena tutte le opere di Rossini in edizioni critiche oppure in versioni il più prossime possibili a quella che sarebbe un’edizione critica. Quindi, l’interrogativo se tutti e tre gli spettacoli valgano la pena di essere realizzati diventa, a fronte di un’operazione filologica, secondaria. Occorre, però, chiedersi come verranno messi in scena, specie a ragione del teatro di regia, da anni caratteristica esplicita del Rof, e delle critiche giustificatissime raccolte poche settimane fa da una “Zelmira” allestita in maniera verosimilmente costosissima e zeppa di tutti i peggiori cliché degli anni Settanta: una regia non solo sonoramente fischiata, ma anche definita “di una Ruth Berghaus in sedicesimo”. Tutti conosciamo “La Cenerentola”. Alcuni hanno ascoltato “Demetrio e Polibio” e ancora meno sono coloro che si sono recati in pellegrinaggio a Martina Franca per vederlo in scena. “Sigismondo” è un oggetto sconosciuto a chi non è un musicologo specializzato in Rossini.

Fortunatamente proprio nei giorni del Rof 2009, è arrivato in libreria “Rossini, L’uomo, la musica” (Edizioni Bompiani) di Giovanni Carli Ballola, testo atteso da tempo perché non è né una nuova biografia rossiniana (da Stendhal a Riccardo Bacchelli passando per Vittorio Emiliani è un campo in cui si sono cimentati in po’ tutti) né un testo per addetti ai lavori. Carli Ballola è un musicologo rigoroso che ha inteso scrivere un libro per tutti coloro che, definiti un tempo “persone colte”, abbiano voglia di leggerlo tutto d’un fiato. La prima parte del volume riguarda la vita del compositore, la seconda la musica (con accento ovviamente su quella per il teatro), la terza parte i rapporti anche di pentagramma, ma non solo, con il sacro e l’ultima i “peccati della vecchiaia”. È sulla scorta del lavoro di Carli Ballola che occorre esaminare il programma del Rof 2010, cominciando con la “prima mondiale” di “Sigismondo”, dramma in musica in due atti il cui debutto, nel 1815, fu un colossale fiasco e che non è mai stato più ripreso dal 1827. Il libretto è di pessima fattura: un clima cupo e tenebroso in cui si svolge il dramma di un’innocente ingiustamente accusata di adulterio. Tema “protoromantico” ma abbastanza distante dalla sensibilità di Rossini in quella fase della carriera. Ben altra cosa ne avrebbe fatto Schumann con la Genoveva di cui si è vista un’encomiabile produzione a Palermo circa tre anni fa. “Non tutto – avverte Carli Ballola- è tenebra e delirio”.

Il libro indica con cura le parti di “Sigismondo” su cui puntare, i presagi e le sfumature da sottolineare, dove uscire da una “tinta” monocorde. Se non si sceglie con cura la regia e la direzione musicale, si rischia un esito come quello di “Zelmira”, se non peggiore. Probabilmente occorrerà evitare una regia falsamente innovativa e puntare su una produzione che sappia fare comprendere, anche con l’uso di sovra titoli, la complicata vicenda. “Demetrio e Polibio” viene definito da Carli Ballola “una tesi di laurea” e “assemblaggio metastasiano rabberciato”, per di più musicato dal giovanissimo Rossini “un pezzo alla volta”. All’epoca ebbe successo in quanto in linea con tutte le convenzioni del tempo, ma anche perché “nell’acerba aggressività” si giunge “ad un’opera di assai notevole livello complessivo”. Tale livello non si ravvisa nell’unica edizione in disco disponibile. Per il Rof 2010 è occasione ghiotta su cui puntare, se possibile in una sala piccola e con una compagnia giovane. “La Cenerentola” è un allestimento elaborato che ebbe un buon riscontro di pubblico e di stampa, nonostante la fiabesca produzione ronconiana non abbia colto quella “verità drammatica”, sottolineata da Carli Ballola, e fortemente presente nelle edizioni di Ponelle, Hall e De Simone per la Scala, Glyndebourne e Bologna.

(Hans Sachs) 20 ago 2009 13:29

GLI AGNELLI,I BUDDENBROOK ALL’ITALIANA, Il Tempo 20 agosto

Se la Giustizia appurasse che gli Agnelli hanno detenuto all’estero tra uno e due miliardi di euro il caso sarebbe gravissimo. Pure i “biografi di corte” hanno dovuto ammettere che la FIAT, di cui la Famiglia Agnelli è il principale azionista, ha beneficiato (al valore attuale) di contributi diretti di circa 40 miliardi di euro .
In una vicenda come quella lanciata in televisione, occorre essere quanto mai garantisti. Non tanto perché si tratta della Famiglia Agnelli ma perché questo principio, garantito dall’etica ancor più che dalla Costituzione, . Al momento , non c’è stata alcuna comunicazione giudiziaria, anche se – come doveroso – le autorità tributaria hanno aperto un’indagine. Se tuttavia le illazioni di questi giorni avessero un fondamento e la Giustizia appurasse che gli Agnelli hanno detenuto illegalmente all’estero tra uno e due miliardi di euro , il caso sarebbe gravissimo non unicamente dal punto di vista tributario ma da quello della politica e dell’etica . La Famiglia Agnelli ha avuto decine di biografi più o meno autorizzati . Pure i “biografi di corte” hanno dovuto ammettere che la FIAT, di cui la Famiglia Agnelli è la principale azionista ha beneficiato di contributi, diretti ed indiretti, di circa 40 miliardi (al valore attuale) oltre che di un supporto indiretto rilevantissimo (da una politica dei trasportu a favore delle strade e delle autostrade fino ad una politica commerciala protezionista sino alla fine degli Anni ’60 ed una miriade di sostegni puntiformi quale il nuovo palcoscenico della Scala, utilizzato a pieno unicamente da Franco Zeffirelli per la sua grandiosa Aida). La metalmeccanica è stata, ed è, una delle maggiori glorie dell’industria manifatturiera italiana. Se , però, venisse provato che i fondatori, proprietari ed ora maggiori azionisti avessero operato non solamente al riparto di aiuti dei contribuenti ma anche di maxi-evasioni tributarie, le biografie, anche le più impertinenti e meno autorizzate, andrebbero riscritte. Gli Agnelli apparirebbero dei Bunderbook all’italiana; esauriscono la loro carica vitale ed il senso della responsabilità pubblica nel giro di quattro generazioni (come nel romanzo di Thomas Mann, in cui i “vecchi” avevano operato non per gli utili della ditta ma per bene dell’intera Lubecca), ma perché la loro “caduta” (titolo iniziale del libro di Mann) avviene per il reato più odioso (l’evasione tributaria) da parte di chi tanto ha avuto dai contribuenti.
Il danno in termini di reputazione alla famiglia ed all’Italia sarebbe gravissimo: alcuni anni fa, alle prese con le vicende Enron e WorldCom, econometrici americani lo hanno stimato pari a 16 volte il valore del risarcimento finanziario richiesto dalla Giustizia. Il 13 agosto, l’Università di Innsbruck ha pubblicato un lavoro analitico empirico che conferma indirettamente stime di questa portata. Le azioni FIAT oggi detenute dagli Agnelli passerebbe all’Erario (quindi una maxi-nazionalizzazione). E alla Famigli converrebbe sparire dall’Italia e dai Paesi Ocse in generale. Uno scenario da non auspicare. Ma nemmeno da ignorare.

martedì 18 agosto 2009

Best of the web Se per colpa della crisi il giornalismo piange, Tv e web di certo non ridono, L' Occidentale 18 agosto

18 Agosto 2009

Il tempo non è sempre galantuomo. Soprattutto non lo è per chi soffre di miopia e non sa guardare al di là delle stanghette dei propri occhiali . Esattamente dieci anni fa , in un’isoletta non lontana da Manhattan veniva celebrata, con una festa super-esclusiva (solo 1000 invitati, molti direttori di quotidiani e di periodici italiani fecero carte false per ottenere un biglietto d’invito) la nascita di quello che sarebbe dovuto essere il periodico del secolo, “The Talk”, frutto dell’iniziativa congiunta di due giganti dei media , la Hearst Corp. e Miramax. Lo avrebbe diretto Tina Brown , reduce di veri e propri trionfi di tiratura e di pubblicità con “The New Yorker” e “Vanity Fair”. Fu un “party” memorabile – affermano coloro che vi sono stati presenti. Madison Avenue esultava. Un po’ come le ultime feste a Versailles, che tanto più erano lussuose quanto più nelle strade di Parigi erano già in corso i moti rivoluzionari.

E' proprio il caso di dire che la festa è finita. Tutti sanno che la stampa scritta è in serio pericolo, specialmente negli Usa ed in Europa. Negli ultimi cinque anni, il margine operativo lordo di The Washington Post ha segnato una flessione del 25% e quello del New York Times del 50%. Il Chicago Tribune, il Los Angeles Times ed altre sei testate un tempo importanti hanno dichiarato fallimento. La chiusura di giornali, anche piccoli, scalfisce ed incrina uno dei beni pubblici per eccellenza: la democrazia. Lo diceva Thomas Jefferson oltre 200 anni fa e lo dimostra oggi un’analisi empirica recente della Università di Princeton : la morte per inedia, a fine 2007, del piccolo Cincinnati Post (una circolazione di appena 27.000 copie) ha comportato una riduzione della partecipazione alle elezioni nei quartieri dove il quotidiano era più letto, nonché la sconfitta sistematica dei canditati a incarichi municipali residenti nei quartieri medesimi. Quasi in parallelo, uno studio comparato della University of Virginia, mostra che, in 115 Paesi (sull’arco di venti anni), c’è un forte nesso tra investimenti diretti dall’estero, progresso tecnologico e libertà di stampa.

Pochi scrivono, però, che è a rischio pure l’informazione televisiva e quella su web. In primo luogo, non è più considerata un veicolo utile per la pubblicità. Basta guardare gli ultimi dati resi noti da Nielsen Media Research, relativi al periodo gennaio-maggio 2009, per averne conferma: flessione del 16,5% rispetto al 2008 per un giro d'affari complessivo di poco meno di 3,8 miliardi di euro. Il conteggio comprende vecchi e nuovi media (Tv, carta stampata, radio, cinema, affissioni, Internet e pure Transit, la pubblicità su metropolitane, aeroporti, autobus e tram) e ribadisce una tendenza in atto già dal secondo semestre dell'anno scorso.

Le aziende stanno spendendo meno in campagne pubblicitarie – il discorso vale anche per la maggior parte dei cosiddetti "big spender", con in testa Wind, Unilever, Vodafone, Ferrero e Volkswagen – e il solo mezzo che dimostra di essere in attivo è il Web, che segna un incremento nei primi cinque mesi del 7,8%. Per Tv e stampa il bilancio è in profondo rosso: -14,8% di entrate per il piccolo schermo (il dato comprende sia i canali generalisti che quelli a pagamento) e -25,1% per quotidiani e periodici.

Per molti commentatori , il problema è soprattutto di "media mix", ossia della diversa distribuzione della spesa in pubblicità sui vari canali di comunicazione. Fra le domande che ricorrono da tempo fra gli operatori del settore ve sono almeno un paio che riguardano la decantata convergenza fra Tv e Internet: il Web sta assorbendo parte dei budget destinati agli spot televisivi o si aggiunge a questi come voce strategica della pianificazione pubblicitaria? È una vetrina che si presta a "replicare" gli spot trasmessi sul piccolo schermo o richiede il confezionamento di campagne mirate? Difficile dare risposte precise per un semplice motivo: l'advertising on line è ancora un mercato giovane, in fortissima evoluzione e in cerca di un suo spazio strutturato all'interno del sistema pubblicitario italiano, dove la Tv fa sempre la parte del leone anche in tempi di crisi (i grandi investitori destinano mediamente il 90% del loro budget a questo media) e dove le concessionarie di pubblicità hanno di fatto in mano il pallino delle operazioni nel gestire gli investimenti delle aziende.

A riguardo , occorre ricordare che il nodo è molto più profondo: il crollo della pubblicità (anche e soprattutto di quella televisiva). Nel libro collettaneo (Bezzi e altri “Valutazione in azione”, Franco Angeli, collana Aiv, 2005) si descrive in dettaglio come nel 2002-2003 un gruppo di economisti incaricati dal Ministro delle Comunicazioni dell’epoca, Maurizio Gasparri, di effettuare un’analisi economica della transizione da televisione analogica e digitale terrestre propose la misura impolitica (ma accettata dal responsabile politico) di posporre dal 2006 al 2012 il passaggio al nuovo sistema perché si vedeva ormai imminente (dopo anni di crescita) la flessione oppure il tracollo della pubblicità come principale fonte di finanziamento per la televisione.

Molte delle proposte formulate in queste settimane non si fondano su una teoria economica solida del giornalismo. In politica economica, e nelle politiche pubbliche settoriali, le carte vincenti sono sempre basate su una teoria rigorosa. Un appello in tal senso viene dalla Vecchia Europa e dal Paese (la Repubblica Federale Tedesca), il cui maggiore editore di stampa scritta (Axel Springer) ha appena chiuso il consuntivo 2008 con il più utile netto segnato nei 61 anni in cui è in operatività . La lanciano, in uno degli ultimi numeri della rivista scientifica tedesca “Kyklos”, Susanne Fenger e Stephan Russ-Mohl . L’idea è di costruire una teoria economica del giornalismo, analoga alla teoria economica della democrazia, della politica, delle religioni, dell’arte e via discorrendo: mettendo gli strumenti più recenti della disciplina economica a servizio della professione, si possono curare una serie di malanni (quali l’influenza delle relazioni pubbliche sui media, la vera o presunta leggerezza - oppure l’eccesso - nel trattamento delle informazioni, il giornalismo “da rincorsa”, il giornalismo da “consigliere del principe”) che non hanno giovato al settore e sono causa di perdita di lettori e di pubblicità.

Sussanne Fenger e Stephan Russ-Mohl tratteggiano le basi di una teoria economica del giornalismo da cui scaturirebbero quelle prassi d’effettiva indipendenza, ed autorevolezza che , da un lato, farebbero riacquistare prestigio alla professione e, dall’altro, renderebbero finanziariamente, politicamente e socialmente fattibili soluzioni innovative.

Merita interesse la proposta formulata da David Swensen, direttore della finanza alla Università di Yale, e Michael Schmidt, docente di finanza aziendale presso lo stesso ateneo: dato che la carta stampata è essenziale alla democrazia trasformiamo la natura economica dell’editoria in un comparto come le fondazioni non-profit (analogo alle università private) il cui stock di capitale sia una dotazione, fornita da filantropi (agevolati da esenzioni tributarie) e le cui finalità siano quelle di fornire informazioni ed analisi (se si vuole pure di tendenza) ma svincolate dalle esigenze di breve periodo di rispondere a questa o a quella lobby, o a questo o a quel partito politico, per pubblicità, per acquisti d’abbonamenti all’ingrosso e per altre facilitazioni. Si tratterebbe di fondazioni svincolate solo in parte dal mercato: così come le università fanno pagare rette (direttamente proporzionali alla loro qualità e reputazione), i giornali andrebbero in edicola e farebbero a gara per il mercato pubblicitario.

Potrebbero avere sovvenzioni pubbliche dirette a combattere “il morbo di Baumol” dal nome dell’economista che formulò teoremi secondo cui perdono continuamente competitività (e muoiono per progressivo appassimento) i settori dove l’innovazione tecnologica è bassa e sono molto importanti certe categorie di lavoro professionale. In giornali di proprietà di fondazioni non profit , i giornalisti guadagnerebbero in autonomia ed autorevolezza; come per le università, la pubblicità, i lettori e le sovvenzioni correrebbero verso chi è più autorevole.

Occorre, infine, tenere sempre presente che, mentre nei Paesi poveri ad economia prevalentemente rurale, i soggetti economici hanno una visione circolare del tempo (agganciato alle stagioni agricole), nei Paesi ad alto reddito la visione è lineare: il tempo è finito ed è sempre troppo poco in relazione alle esigenze relative a ciò che si deve fare (o per impegno professionale o per obbligo sociale). Nelle nostre società, il tempo è risorsa scarsissima, da utilizzare con parsimonia e perspicacia. In una teoria economica del giornalismo, sarà importante individuare quale strumento d’informazione saprà contribuire a farlo impiegare meglio.

La nuova Tosca di Dalla contro la classica di De Tomasi Il Tempo 18 agosto

A Torre del Lago, nel nuovo Gran Teatro intitolato – comme il faut - a Giacomo Puccini, è in corso un esperimento: si mettono a confronto due versioni di «Tosca» - un nuovo allestimento (con la regia firmata da Beppe De Tomasi, le scene da Antonio Mastromattei e i costumi da Pierluigi Cavallotti), e una revisione integrale ricomposta da Lucio Dalla in cui del lavoro pucciniano resta la trama (rivisitata con l'aggiunta di un personaggio chiave, la veggente).


La «Tosca» firmata da De Tomasi (con Tullio Carminati alla guida dell'orchestra) sarà in scena sino al 20 agosto e verrà probabilmente ripresa l'anno prossimo. Quella di Lucio Dalla debutta il 27 agosto a Torre del Lago, dove viene replicata per quattro sere consecutive prima di iniziare una lunga tournée (toccherà anche Roma) e andare poi in Corea e in Giappone. Dalla precisa che non si tratta di «Tosca, un amore disperato» che andò in scena nella capitale alcuni anni fa ma di un lavoro interamente ripensato: una vera e propria opera moderna, un «kolossal del palcoscenico, con effetti speciali da film di fantascienza, impianti audio e luci di ultima generazione un mix di linguaggi che scivolano dal teatro dell'opera tradizionale, dal balletto moderno alla commedia, dal musical allo show televisivo fino al circo acrobatico». Quindi, uno spettacolo prossimo a «Notre Dame de Paris» di Cocciante; non per nulla il produttore è David Zard. C'è una novità importante, oltre all'accostamento con la «Tosca» De Tomasi-Carminati: viene utilizzato un ensemble, l'Orchestra del Festival Puccini che, curata per anni da Alberto Veronesi, è diventata di primo livello, come dimostrato, ad esempio, dalla risposta entusiasta della critica all'approccio «sinfonico» dato, quest'anno, a una nuova produzione di «Manon Lescaut» che in settembre-ottobre sarà all'Opéra di Nizza e probabilmente nei mesi successivi in altri teatri francesi. Quindi il match è almeno doppio: come un allestimento nuovo di zecca ma tradizionale della «Tosca» quale la pensò e compose Puccini si confronta con la riscrittura di Lucio Dalla e come la stessa orchestra si confronta con due partiture così differenti. Naturalmente, nella «Tosca» De Tomasi-Carminati i cantanti sono star: nella prima tornata di repliche ha primeggiato Amarilli Nizza (affiancata da Ambrogio Maestri e Antonello Palombi). In quella in corso in questi giorni i protagonisti sono Olga Romanko, Enrique Ferrer e Silvio Zanon. Affrontano senza amplificazione l'impervia acustica del grande teatro in riva al lago. Nella «Tosca» alla Lucio Dalla ci si affida a cantanti-attori che sappiano anche ballare. L'amplificazione diventa un'esigenza. Il confronto tra le due versioni di «Tosca» non è una mera curiosità. Il pubblico della «musa bizzarra e altera» invecchia, occorre attirare nuovi spettatori più giovani e contenere i costi unitari tramite tournée se possibile internazionali. La «Tosca» contro «Tosca» può fornire indicazioni importanti. Anni fa a New York erano in corso tre versioni di «Bohème»: al Metropolitan l'allestimento storico (risale al 1963) di Franco Zeffirelli, alla City Opera uno più semplice ma scrupolosamente fedele a libretto e partitura ed un terzo a Broadway in cui la vicenda veniva attualizzata, la musica modificata, l'orchestra ridotta all'essenziale, e si alternavano tre cast di ragazzi e ragazzi. Parte del pubblico giovane ha assistito allo spettacolo di Broadway per approdare, poi, al Met.

lunedì 17 agosto 2009

BANCA DEL SUD , NON E’ TUTTA DA REINVENTARE, Il Tempo 17 agosto

Giuseppe Pennisi

Alla ripresa autunnale, la Banca per il Mezzogiorno sarà uno degli argomenti centrali del dibattito politico. E’ tema di politica nazionale che riguarda non solamente il Sud e Roma –sino a qualche lustro fa l’azione della Cassa per il Mezzogiorno arrivava a sfiorare la provincia di Latina- ma anche aree della Penisola, come l’Abruzzo, il Molise e la Sardegna, che per non più incluse nella nomenclatura europea come Regioni “obiettivo 1” (ossia in ritardo di sviluppo) hanno una struttura economica fragile. La nuova Banca, soprattutto, se verrà istituita, non dovrà guardare principalmente al futuro prossimo venturo ma al post-2013, quando verosimilmente l’apporto dei fondi strutturali europei non riguarderà l’Italia che in misura molto modesta.
Ad una Banca per il Mezzogiorno, si lavorò, con alla guida l’allora Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giuliano Amato, alla fine degli Anni 80 quando, in seguito ad un incidente parlamentare, la Cassa chiuse i battenti. Da allora, molto è cambiato. Tuttavia, può essere utile riprendere in mano parte delle analisi fatte all’epoca.
Ci sono due aspetti in particolare che, anche alla luce della fine dei “banchi” meridionali – quello di Napoli e quello di Sicilia – e dell’evoluzione (pure tecnico-metodologica) dell’ultimo quarto di secolo meritano di essere esaminati con cura: a) il merito ed il rischio di credito dei soggetti e b) la valutazione dei progetti.
Senza dubbio le casse di risparmio e le banche popolari di credito cooperativo che , con la loro vasta rete, sarebbero elemento centrale del nuovo istituto, hanno esperienza di analisi di merito e di rischio. Portano un bagaglio ricco di culture differenti, più spesso in materia di analisi di merito ma meno profondo in campo di rischio. Sarebbe utile, ove non essenziale, mettere in atto un programma organico di seminari e di corsi di formazione sia per trarre il meglio dal ricco bagaglio sia per definire parametri di valutazione dei potenziali creditori e criteri di scelta uniformi sia per irrobustire le analisi di rischio.
E’ auspicabile che dal merito e dal rischio del soggetto si vada alla valutazione dell’oggetto – il progetto. In questa materia, ha avuto per anni esperienza la Cassa Depositi e Prestiti che, pur entrando in funzione molto minoritaria nel nuovo istituto, alla metà degli Anni 80 aveva creato nel proprio seno un gruppo di valutazione che utilizzava metodi e procedure semplificate ma rigorose per esaminare proposte d’investimento dei Comuni. Il gruppo ha operato,con alterne vicende, sino a qualche anno fa quando si è sfarinato per vari motivi (pensionamenti, poco interesse da parte del management). Occorre ripristinarlo. Oppure creare una struttura del genere in Città Italia (il centro studi Anci) o alla Svimez oppure altrove. Non si può eludere il problema. E tornare a progetti fasulli o inesistenti o a basso rendimento economico e sociale. Ne andrebbe della reputazione della Banca e dello sviluppo del Sud e delle Isole.

Rof, con “Le Comte Ory” l’erotismo di Rossini sbarca a Pesaro; Il Velino 17 agosto

Rof, con “Le Comte Ory” l’erotismo di Rossini sbarca a Pesaro
Roma, 17 ago (Velino) - Nel suo ultimo bel libro su Gioacchino Rossini, Giovanni Carli Balolla parla di esprit de finesse, per riferirsi a “Le Comte Ory”, ultima delle tre opere in programma a Pesaro all’edizione 2009 del Rossini Opera Festival. In modo più greve, il compianto musicologo americano, Paul Hume, definì il lavoro “un’erezione che dura circa due ore un quarto”. Hanno ragione entrambi: “Le Comte Ory” è l’ultima opera sfacciatamente erotica composta da un italiano prima del lungo silenzio dei sensi del melodramma verdiano, conclusosi con la pucciniana “Manon Lescaut” al tramontare dell’Ottocento. Nel 1828, il trentasettenne ma già bigotto Rossini aveva testosterone da vendere e, pur se politicamente reazionario, ne faceva buon uso in quella Parigi dove avrebbe vissuto gran parte della propria avventura umana. Rossini utilizzò un libretto ispirato a una boccaccesca novella medievaleggiante. Ai tempi delle crociate, il conte Ory le prova tutte per portare sotto le lenzuola la casta Adele, che attira anche l’adolescente paggio Isolier. A tal fine, si traveste prima da eremita, poi da monaca allo scopo di potere entrare in un castello le cui porte gli sono state serrate a tripla mandata anche a ragione della cattiva fama che si è fatto. Proprio quando crede di essere giunto al dunque, finisce, nel buio della notte, in un letto in cui Adele è già con il paggio Isolier. Nella confusione amoreggia con il giovanotto, che non gradisce, proprio mentre tornano a castello mariti e fidanzati delle donne che l’erotomane Ory e i suoi scudieri avrebbero voluto possedere.

Il Rossini Opera Festival ha riproposto un allestimento del 2003, co-prodotto con il Teatro Comunale di Bologna. Il regista Luiss Pasqual trasporta la vicenda a inizio Novecento, in un party dove ragazzi e ragazze in smoking e abito da sera rappresentano l’opera. Se sei anni fa la scelta venne trovata discutibile, oggi sembra più funzionale al profumo di eros che si avverte dalla prima all’ultima nota. Resta però ancora impresso nella memoria, l’allestimento firmato Pier Luigi Pizzi per il Rossini Opera Festival 1984, visto anche al Teatro dell’Opera di Roma, in cui il Medioevo bigotto ma peccaminoso veniva evocato con grande economia di mezzi. Rossini, ormai prossimo a quella pensione d’anzianità con clausola oro che, dopo una lunga vertenza giudiziaria, ottenne a 38 anni, guarda con ironia al mondo e, quindi, anche all’eros che sprizza gioioso da ogni accordo. Il conte Ory è tanto parigino quanto marchigiano: uno di quei ragazzi con maglietta firmata, acquistata in una boutique elegante della “Pesaro che può”, che va in spiaggia con l’unico scopo di rimorchiare. Pasqual dispone di un gruppo eccellente di cantanti attori e di un maestro concertatore di grande classe, il veterano Paolo Carignani. L’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna e il sempreverde Coro di Praga fanno faville.

Il vero trionfatore della serata nel ruolo di Ory, che sei anni fa contribuì a lanciare Juan Diego Flórez, è un tenore di agilità cinese giovanissimo e mingherlino: Yijie Shi. Nonostante per gran parte del secondo atto sfoggi mutande di lino, non sapremo mai se ha la robustezza muscolare evocata da Paul Hume. Shi ammalia con vocalizzi virtuosistici, “do” di petto e “sì” naturali, ha una dizione francese splendida ma è ancora una promessa, un po’ nasale e con un torace ancora troppo piccolo. Nei prossimi anni vedremo come maturerà. Adele è una Maria José Moreno spigliatissima sia nella recitazione sia nella vocalità. Utilizza il registro molto ampio e la coloratura per essere tutta ammiccamenti, ma la sua dizione francese è scarsamente comprensibile e pare che per omaggio a Shi canti in cinese. Il paggio Isolier è Laura Polverelli, perfetta nel travestimento da adolescente e agilissima soprattutto a correre verso le note gravi. Roberto De Candia, vecchia volpe del Rossini Opera Festival, è il precettore Raimbaud che in modo sornione ha fatto del conte un esperto erotomane. Molte risate e molti meritati applausi. Ce ne sarebbero stati di più se lo spettacolo fosse stato sovratitolato e si fossero compresi i dialoghi e i giochi di parole.

venerdì 14 agosto 2009

FERRAGOSTO RITORNA ROSSINI Milano Finanza 14 agosto

Dove andare nelle serate attorno alle festività di Ferragosto se si vuole andare a vedere ed ascoltare teatro in musica? Nel nostro Paese, questa estate l’offerta non è cero manca. Nel solo campo di chi si definisce,a ragione o a torto, “festival” se ne contano 33 in Italia, rispetto a 21 in Germania, 15 in Austria, 16 negli Usa , 13 nel Regno Unito ed 11 in Francia. Si svolgono in gran parte in luglio e nella prima metà di agosto – per ragioni climatiche (quelli all’aperto, a metà di questo mese temono i primi temporali). Tuttavia, nel periodo tra il 14 ed il 20 agosto, c’è ancora una buona scelta.
Il principale è ovviamente il Rossini Opera Festival (Rof ) giunto alla 30sima edizione: due nuovi allestimenti, due riprese e numerosi concerti.
Tra le nuove produzioni, “Zelmira” (la cui regia, scene e costumi sono stati fischiati alla prima) richiede stamina: quattro ore di una vicenda truculenta (pur se a lieto fine) in uno spazio scenico poco comodo e con scene e costumi che davvero danno il voluto effetto d’oppressioni. Buona la parte musicale, ma si può anche aspettare il cd (da sconsigliare un eventuale DvD). Molto divertente, invece, l’altra nuova produzione. “La Scala di Seta”, spettacolo spigliato di un enfant prodige della regia (Damiano Michieletto) ed una splendida équipe di cantanti – attori, tra cui spicca Carlo Lepore. Interessante la ripresa de “Le Conte Ory”, ultima opera erotica composta da un Italiano (nel 1828) prima del pudico melodramma verdiano: il giovane protagonista, un tenore di agilità cinese Yijie Shi, promette di diventare una star internazionale in ruoli rossiniani, belliniani e donizzettiani – pare che alcuni teatri tedeschi stiano per offrirgli contratti in esclusiva di lunga durata. E’ in ogni caso uno spettacolo piccante (e tutto da ridere) da non perdere per chi non lo ha ancora visto. Ultima cicca del Rof: l’inossidabile “Viaggio a Reims” messo in scena (a prezzi stracciati) dai giovani dell’Accademia Rossiniana: da 15 anni non cambia la divertente regia di Emilio Sagi, ma cambiano i cantanti – attori, la biancheria intima del primo atto e gli smoking (per i giovanotti) e i lunghi bianchi (per le ragazze). Grande attesa per l’integrale dei “péchés de vieillesses” (peccati di vecchiaia) raramente eseguiti.
Ancora ricca l’offerta in Toscana: a Cianciano si può vedere una delle ultime repliche di un “Nabucco” che questa estate ha girato in una mezza dozzina di città; con pochi mezzi , cantanti giovani, si riesce a fare abbastanza bene ed a prezzi contenuti. A Firenze, ai Boboli per tre serate ferragostane i “Carmina Burana” di Orff in un ambiente suggestivo. A Torre del Lago, si può cogliere un allestimento ormai storico di “Bohème” (Scaparro-Folon) che ha affascinato tutto il mondo e la nuova produzione di “Tosca” (De Tomasi-Carminati), spettacolo molto applaudito. Non manca all’appello l’Isola D’Elba dove va in scena uno spigliato “Barbiere di Siviglia”. “Tosca” è pure lo spettacolo ferragostano all’Arena di Verona, dove lo si può accoppiare con una versione rodata di “Aida” o con l’ultima revisione d’autore di “Carmen” con la regia di Franco Zeffirelli. A Toarmina, si possono ammirare Etna, golfo marino e rovine romane, assistendo a “Cavelleria Rusticana” e “I Paglianni” al Teatro Greco-Romano.
I più avventurosi (e più danarosi) possono tentare una puntata a Bayreuth, Salisburgo e Glyndebourne: necessario rivolgersi ad agenzie specializzate per essere certi di avere biglietti e prenotazione alberghiera.

LE BORSE FESTEGGIANO E RIVEDONO I MASSIMI, Il Tempo 14 agosto

Le Borse europee hanno salutato con un forte balzo in avanti i dati presentati nel bollettino della Banca centrale europea (Bce) e le revisioni delle stime di crescita in Francia e Germania. La “svolta” – suggerisce l’insieme di queste cifre – è a portata di mano; se ne avranno segni concreti già in autunno – il 9 settembre verranno commentati ad un seminario indetto dalla Confindustria a cui parteciperà il Ministro per lo Sviluppo Economico Claudio Scajola.
In effetti, i dati Bce e le revisioni delle stime della contabilità economica nazionale di Francia e Germania erano stati anticipati la notte tra l’8 ed il 9 agosto dalla diramazione delle stime del “consensus” (20 istituti econometrici, di grande reputazione internazionale, tutti privati, nessuno italiano). Ma, si sa, pochi giornalisti e pochi operatori di Borsa guardano lo schermo la notte tra un sabato ed una domenica di agosto. Chi lo ha fatto, oggi si stropiccia le mani alla lettura dei listini in quanto ha realizzato un incremento delle valorizzazioni.
Esaminiamo i dati del “consensus” prima di quelli, più noti, di Bce, Francia e Germania. L’aspetto più interessante è che per l’eurozona il “consensus” prevedeva già alcuni giorni fa una svolta significativa: da un andamento negativo del pil (- 4%) nel 2009 ed uno positivo (+ 0,6%) l’anno prossimo. La Francia e Germania sarebbero le locomotive che una crescita del pil (nel 2010) almeno dell’8%: Significativo il ribaltone dell’Italia da circa – 5,5% nel 2009 al + 4% l’anno prossimo: non possiamo fare di più in quanto le palle di piombo dello stock di debito pubblico e di alto indebitamento (nonché, avvertono alcuni istituti, di mancate liberalizzazioni) ci frenano in materia di politica di bilancio (la leva principale utilizzata Oltralpe ed Oltrereno).
Andiamo ora al Bollettino mensile di agosto della Bce: secondo Francoforte,la recessione globale è «vicina al punto di svolta», se ne vedono «crescenti segnali» anche se secondo la Bce, ed il “consensus” , nell’eurozona l’attività economica resterà debole nella restante parte dell'anno. Nel 2010 «a una fase di stabilizzazione seguirebbe una graduale ripresa con tassi di crescita trimestrali di segno positivo». La previsione che tiene conto di «effetti avversi ritardati» che si concretizzeranno nei prossimi mesi, come «l'ulteriore deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro», ossia un incremento della disoccupazione. Ancora una volta è il miglioramento delle stime dell’andamento economico di Francia e Germania a determinare il quadro per l’intera unione monetaria.
Cosa fare per mettere più forza nel motore del sistema Italia e fare sì che la nostra crescita non sia trainata da Francia e Germania? Occorre chiederselo non unicamente per orgoglio nazionale ma anche perché un nuovo decennio al rimorchio ci provocherebbe perdite relative importanti in termini di benessere. Abbiamo le mani della politica di bilancio legate, per le ragioni che abbiamo indicato. La strada da seguire è essenzialmente quella delle liberalizzazioni che- ci ripete l’Ocse- ci potrebbero dare due punti e mezzo di crescita aggiuntiva nell’arco di tre anni.

giovedì 13 agosto 2009

LA VITTORIA DELLE DONNE NEL LAVORO Il Tempo 5 agosto

L’estate 2009 verrà ricordata come quella della preparazione dell’organizzazione della prima internazionale dei lavoratori maschi perché vengano previste azioni positive per la loro formazione e progressione di carriera. I preparativi concettuali stanno avvenendo in saloni le cui mura sono coperte da eleganti boiseries in Château de la Muette , sede dell’Ocse.
Come si collocano questi preparativi (un po’ carbonari) con il fiume di articoli sulla stampa italiana suscitata da una ricerca di Claudia Olivetti, ricercatrice a Boston, secondo cui, invece, il gap occupazionale e salariale delle donne è aumentato, specialmente in Italia, e minaccia di crescere ancora? Il vostro “choniqueur” non è un maschilista: in Banca Mondiale ha guidato– e si era negli Anni 70!- una divisione in cui, su sua indicazione, gran parte dei dirigenti erano donne. Ha anche collaborato ad uno dei primi periodici femministi (“Libera”).
Due elementi, messi in rilievo da fonti al di sopra di ogni sospetto, indicano che il primato degli uomini (ove mai esistito) sta per terminare e sta iniziando (nei Paesi Ocse) di supremazia delle donne (il matriarcato è relegato a pochi Paesi asiatici). Il primo viene indicato dal socio-economista del Bangladesh Rehim Salam. E’ un “conservative”: vede, con una punta di malinconia che la recessione in corso “spazzerà via l’aggressività e la propensione al rischio che hanno permesso agli uomini di consolidare il proprio potere”. La Russia è il primo esempio dove gli uomini sono stati messi sul tappeto, hanno una drastica riduzione dell’aspettativa di vita ed i lavori più interessanti vengono sempre più occupati da donne. La politica – afferma- sarà il prossimo passo.
L’altro elemento è l’analisi su demografia ed alta formazione (da adesso al 2030) condotta dall’Ocse- 300 pagine a grande formato e stampa fitta, dense di dati e di statistiche: Il capitolo finale è proprio intitolato come sia necessaria un’azione “positiva” (a favore degli uomini) per frenare”un’ineguaglianza all’incontrario” (a beneficio delle donne) di cui nelle università si percepiscono già i primi segnali: una proporzione più lata di matricole e lauree di genere femminile nelle discipline più promettenti in termini di carriera. L’Ocse analizza tanto le determinanti quanto le prospettive. Per importanti che siano gli elementi sociologici, fondamentali sono quelli economici: l’istruzione universitaria, e post-universitaria, rende di più alle donne che agli uomini in termini di occupazione e differenziali retributive , le studentesse hanno migliori risultati degli studenti nelle matematiche e nelle scienze sin dalle scuole secondarie, le aspettative delle donne giovani (e la determinazione nel realizzarle) sono maggiori dei loro coetanei maschi.
Salam e l’Ocse lanciano un grido di dolore. Personalmente, sono sempre stato favorevole al matriarcato ed ho sempre auspicato che mia moglie guadagnasse più di me. Quindi, non credo ch sarò tra i partecipanti all’internazionale.

“La scala di seta” fa salire il festival ai piani alti Il Velino 13 agosto

Roma, 13 ago (Velino) - “La scala di seta”, secondo spettacolo del Rossini Opera Festival (Rof) che si sta tenendo a Pesaro, risolleva la manifestazione dalla caduta rappresentata dall’allestimento di “Zelmira”. “La scala di seta” è una delle farse e operine in un atto composte da Rossini, più o meno ventenne, in due anni di lavoro per teatri veneziani di piccole dimensioni. Nel suo ultimo libro “Rossini. L’uomo, la musica” (Bompiani 2009), Giovanni Carli Ballola scrive correttamente che in queste “farse veneziane, Rossini ha trovato prontamente una formula sua e la cavalca allegramente come un giovane stallone focoso”. Carli Ballola parla di “demone” e di “furia creativa” che nel giro di pochi mesi avrebbero consentito all’artista pesarese di comporre sei opere (quattro farse in un atto, un’opera buffa e un opera oratorio) e di diventare da compositore di provincia autore di rilevanza nazionale conteso dalla Scala, dalla Fenice e dal San Carlo. Le farse – scrive un altro musicologo, Bruno Cagli – passarono di moda presto perché era cambiato il gusto del tempo (incalzava il melodramma romantico). In effetti, sparirono dai cartelloni dei teatri principali ma restarono, anche nell’Ottocento e nel Novecento, nei teatri secondari delle grandi città e in quelli di provincia: richiedono allestimenti semplici (oggi si direbbe low cost), sono adatte a voci giovani, hanno e trasmettono brio.

Al Rof, “ La scala di seta” è stata messa in scena in un allestimento esemplare dal giovane enfant prodige del teatro di regia italiano Damiano Michieletto (scene e costumi di Paolo Fantin), destinato a essere ripreso, anche in quanto low cost, da molti teatri, innanzitutto da circuiti come quelli emiliano, lombardo e toscano-romagnolo e anche da grandi templi della lirica. Anche qui uno specchio domina l’impianto scenico, ma è essenziale per mostrare, dall’alto, i vari locali in cui si svolge la vicenda basata su intrighi tra due coppie e un burbero tutore con lieto fine per tutti. E’ una regia imperniata su un concetto forte, con una recitazione accurata, una scena unica che dà l’impressione di muoversi tra almeno cinque locali differenti. L’andamento è veloce e spigliato, interrotto unicamente da un breve intervallo. Ci si diverte dall’inizio alla fine e si esce dal teatro contenti e lieti di concludere la serata con un piatto di strozzapreti in una delle osterie dei paraggi.

Se regia, scene e costumi sono di un’équipe giovane ma preparata ed astuta e l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento è anch’essa composta da giovani elementi, la bacchetta è nelle dita di Claudio Scimone, uno dei direttori più esperti in questo tipo di repertorio. Assente dal Rof per lustri, è un’ottima notizia che sia stato di nuovo invitato e si spera possa essere visto più spesso al festival pesarese. Il cast è tutto di ottimo livello. Spicca Carlo Lepore, un Blansac atletico (pur se il basso non è proprio snello) nell’azione scenica e nell’agilità vocale. Di qualità e con un’ottima dizione italiana Olga Peretyatko (Giulia), la protagonista e José Manuel Zapata (Dorvil). Ineccepibili le caratterizzazioni di Daniele Zanfardino (Dormont), Anna Malavasi (Lucilla) e Paolo Bordogna (Germano).

(Hans Sachs)

mercoledì 12 agosto 2009

ORO SCATENATO, Il Foglio 12 agosto

ORO SCATENATO

Giuseppe Pennisi

La tassazione delle plusvalenze sulle riserve auree di Bankitalia ha due aspetti. Da un lato, vale una chiacchierata da spiaggia. La norma stipula che l’imposta scatterà unicamente “con il consenso della Banca centrale europea” (Bce), il cui Presidente, l‘Ing. Jean-Claude Trichet ha già pronunciato un “no”, chiaro e secco, senza neanche porre la questione all’ordine del giorno del Consiglio dell’istituto. Ove gli organi deliberanti della Bce avessero dato il “consenso”, il gettito non avrebbe superato i 300 milioni di euro. Le plusvalenze sono tassate ovunque quando appaiono in bilancio ma ciò non comporta la vendita di parte del cespite su cui è esatta l’imposta; non si vende la propria casa (o parte di essa) ogni volta ne viene modificata la rendita catastale (a fini di Ici o simili). I 300 milioni d’imposta non verrebbe necessariamente finanziati dal contribuente (Bankitalia nel caso specifico) non vendendo oro (per pagare il fisco), ma verosimilmente utilizzando altre risorse – liquidità, riserve valutarie e via discorrendo- di cui Via Nazionale dispone.
Da un altro lato, c’è un aspetto più sottile. La misura inclusa tra i provvedimenti anti-crisi è un grimaldello a cui guardano con interesse (e simpatia) molti Governi dell’area dell’euro. Di converso, vi guardano con inquietudine, più di un istituto del Sistema europeo di banche centrali (Sebc), che ha il proprio perno nella Bce. E’ un grimaldello politico per ricordare a tutti che le responsabilità di uscire dalla crisi (e di non entrarne in un’altra) è in primo luogo dei Governi, eletti dal corpo elettorale, e non di banchieri centrali, nominati o dagli Esecutivi oppure con il gradimento di questi ultimi. Il “no” di Trichet era atteso in quanto , nell’unione monetaria, l’oro “detenuto” dall’insieme del Sebc è una risorsa comune. Quindi, con un “sì” la Bce indebolirebbe sé stessa non Bankitalia. “Detenuto”, però, non vuole dire averne titolo di proprietà. Al contrario, le regole europee sulla contabilità economiche nazionale specificano che “le riserve non sono di proprietà delle Banche centrali ma delle Nazioni”. Sul termine e sulla maiuscola, insistette molto, all’epoca, la delegazione francese. Sono “detenute” in nome e per conto delle Nazioni di cui, in democrazia rappresentativa, i Governi sono espressione.
E’ saggio che, da un canto, i Governi si indebitino sino al collo e, dall’altro, nei caveau del Sebc si tesaurizzino lingotto per circa 350 miliardi d’euro? Tale ammontare d’oro non serve a sorreggere un valore internazionale dell’euro, da molti giudicato sin troppo alto. Non è affatto essenziale a frenare un’inflazione giunta a livelli impercettibili. E’ un’arma luccicante che potrebbe essere utilizzata meglio ad altri fini.
E questo quesito che il codicillo, tanto voluto da Giulio Tremonti nel decreto legge pone sul tavolo non del Sebc (che un interesse di parte, pur se legittimo) ma dei Ministri economici e finanziari dell’Eurogruppo. Con parole differenti, ma con contenuti analoghi, il Presidente della Francia, Nicolas Sarkozy pone la stessa domanda dal giorno in cui è entrato all’Eliseo. Indicazioni dello stesso tenore vengono dalla Cancelleria di Berlino nei confronti dell’accoppiata Bunesbank-Bce sulla sponda del Meno.
Quando ne parleranno i Ministri dell’Eurogruppo? Forse già in settembre, prima dell’assemblea annuale di Banca mondiale e Fondo monetario e del G20 di Pittsburgh.

lunedì 10 agosto 2009

Rossini Opera Festival, a Pesaro fischi per la costosa “Zelmira” Il Velino 10 agosto

Rossini Opera Festival, a Pesaro fischi per la costosa “Zelmira”


Roma, 10 ago (Velino) - La trentesima edizione a Pesaro del Rossini Opera Festival (Rof) è stata inaugurata ieri sera da “Zelmira”. L’allestimento, le scene, i costumi e la regia sono stati fischiati da gran parte del pubblico dopo circa quattro ore di spettacolo nell’“Adriatic Arena”, lo stadio di pallavolo trasformato in teatro in attesa che il fatiscente Palafestival venga nuovamente reso agibile. Una reazione quella del pubblico che deve invitare la gestione del Rof a una riflessione. “Zelmira” è un’opera che al giorno d’oggi viene eseguita raramente. E’ stata rilanciata circa 20 anni fa con un’elegante ma scorciata produzione al Teatro dell’Opera di Roma e messa in scena in un differente allestimento a Pesaro nel 1995. Anche se raccolse grande successo nel 1822-26, pare che oltre alle due edizioni citate non ve ne siano state altre in tempi moderni. Ultimo lavoro di Gioacchino Rossini per il San Carlo di Napoli, l’opera venne concepita guardando a Vienna, dove tutta la compagnia del teatro napoletano la portò in una lunga trasferta durante la quale venne acclamata e replicata per circa un mese. Si disse che venne apprezzata soprattutto dal potentissimo Metternich che ne patrocinò addirittura un’esecuzione a Verona per il congresso della Santa Alleanza. Venne rappresentata a Venezia, a Roma in parallelo in due teatri (Argentina e Valle) e quasi contemporaneamente all’Accademia Filarmonica. Andò, ovviamente, alla Scala e in altri importanti teatri italiani. A Londra venne scelta per inaugurare la stagione rossiniana al King’s Theatre e a Parigi venne ampliata e leggermente modificata nel finale, all’inizio delle attività del Théatre Italien. Poco dopo il silenzio sino al 1995, o giù di lì, e anche da allora pochissime riprese.

Per una curiosa coincidenza, il debutto napoletano di “Zelmira” il 16 febbraio 1822 avvenne pochi giorni prima che Rossini compisse trent’anni. Molto liberale sotto le lenzuola, – non si faceva scrupolo che il proprio impresario Domenico Barbaja fosse l’amante della sua stessa donna, Isabella Colbran la quale, dopo pochi giorni dal lancio dell’opera di cui era la protagonista, sarebbe diventata sua moglie -, il compositore pesarese era già intimamente conservatore dal punto di vista politico. Rossini era un “legittimista”, ossia favorevole al ritorno dei “legittimi” sovrani sui troni delle rispettive dinastie dopo il tormentone rivoluzionario e napoleonico. Pur se l’arzigogolato libretto di Andrea Leone Tottola (basato su un drammone di tal Pierre-Laurent Burette che firmava con lo pseudonimo di Dormont de Belloy), si svolge ai tempi omerici, in “Zelmira” intrighi, tradimenti, parricidi veri e presunti hanno come fulcro centrale la legittimità dinastica in quanto elemento essenziale per quell’ordine che a Rossini era già tanto caro. Il musicologo Bruno Cagli considera un pregio del libretto quello di essere “un centone di situazioni melodrammatiche di forte connotazione” e afferma che l’opera è “un lavoro di supremo magistero in cui ogni dettaglio sembra sottoposto ad un vaglio spietato ed ogni elemento (del lessico rossiniano, n.d.r.) riproposto o ripensato ex-novo”. Una specialista rossiniana come Kathleen Kuzmick Hansell mette in risalto l’estremo virtuosismo delle parti vocali, l’orchestrazione piena di colore e fantasia, le soluzioni avanzate. Altri ancora, come Emilio Sala, vedono “Zelmira” come un ponte verso il melodramma belliniano (“Bianca e Fernando”, “Il Pirata”).

Forse sarebbe il caso di considerare “Zelmira” come figlia d’occasione del proprio tempo, sia drammaturgicamente che musicalmente. Rossini aveva dato il meglio di sé pochi mesi di cominciare a comporla, con quel “Maometto II” così innovativo che nessuno comprese e che fu un fiasco tale da essere coperto da una fitta coltre di oblio sino alla fine del Novecento (da allora viene riproposto continuamente in Italia ed all’estero). “Zelmira” rappresenta non solo un passo indietro, ma l’inizio di una parabola discendente pur se interrotta da capolavori assoluti come “Semiramide”, “Le Comte Ory” e “Guillaume Tell”. Ha una struttura sghemba con un secondo atto che dura meno della metà del primo, un lunghissimo finale di circa mezz’ora, vere e proprie gare di vocalità tra i due tenori protagonisti, una scrittura vocale per l’eroina eponima a pennello unicamente per la Colbran, nessuno sviluppo psicologico dei personaggi. Ciò spiega, probabilmente, anche il modesto successo riscosso dopo i valorosi tentativi di rilancio negli ultimi tre lustri. Da un lato, il problema chiave del dramma in musica – la legittimità dinastica – non interessa a nessuno più o meno dal 1830. Dall’altro, l’elegante tavolozza orchestrale e i virtuosismi vocali guardano più al passato che all’avvenire in un’Europa dove andava in scena il “Freischütz” di Weber. Riccardo Bacchelli fu forse troppo severo nell’includerla tra le opere di Rossini “o stanche, o vuote, o stentate, o raffazzonate”. Stendhal utilizzò un linguaggio ancora più pesante. Forse, tutti i torti non li aveva. La rarità delle messe in scene è indicazione indiretta di come non si tratti di un lavoro tra i migliori del pesarese.

Un astuto teatro di regia risolverebbe in parte questi problemi ponendo al centro di “Zelmira” il nodo della legittimità democratica, più consono ai nostri tempi. Al limite, e per celia (non senza ironia), il legittimo Re Polidoro sarebbe vestito e truccato come Berlusconi (l’eletto del popolo e capo legittimo), Antenore e Leucippo come Franceschini e Di Pietro, il Gran Sacerdote come D’Alema, Ilo come Pierferdinando Casini, Zelmira sarebbe una decisa Gelmini e Veltroni finirebbe tra i coristi. Non è però questa la strada che al Rof seguono Giorgio Barberio Corsetti e i suoi collaboratori (Christian Taraborrelli e Angela Buscemi) per le scene e i costumi. Non siamo nelle mitiche isole greche omeriche, come negli allestimenti visti negli ultimi anni, ma in un Novecento travagliato da guerre (forse balcaniche, oppure in Iraq o ancora in Afghanistan) e lotte cruente di potere e, secondo le intenzioni di Barberio Corsetti, l’intera opera sarebbe “un sogno degli spettatori”. Non mancano ovviamente uniformi di soldati in tuta mimetica. In breve, il drammone del benpensante Tottola diventa un “teatro epico” alla Bertold Brecht. Ma il conservatore, ove non reazionario, Gioacchino Rossini ha una vena ben differente da quella di Kurt Weill anche quando è alle prese con una tavolozza di stimoli musicali non sempre compiuti. Ad aggravare la situazione, ove mai ce ne fosse bisogno, seguendo i canoni del “teatri epico”, non c’è recitazione vera e propria: i cantanti, d’altronde, sono stereotipi di idee non personaggi. Inoltre, la scena unica, quasi sempre nell’oscurità, è dominata da un enorme specchio (Barberio Corsetti dovrebbe lasciare tale attrezzeria a Braunschweig e agli allievi di Svoboda, ossia a specialisti che se ne intendono) e da tronconi di statue: il primo oltre a mostrare scena, orchestra e spettatori da varie prospettive è anche schermo di proiezione per scene di tortura (siamo in una dittatura o no?); le seconde salgono e scendono sul palcoscenico senza un significato che appaio chiaro agli spettatori.

Ove ciò non bastasse, l’edizione “critica” utilizzata per lo spettacolo, firmata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell, fonde la versione napoletana con quella viennese e quella parigina. L’esito è una durata wagneriana di una tavolozza incompiuta. Lo stesso Rossini, in vita, non fece nulla per resuscitare “Zelmira”, ma riversò parte dalla musica in altri lavori. Per quanto riguarda la parte musicale, l’orchestra del Teatro Comunale di Bologna guidata da Roberto Abbado ha offerto una lettura pulita e ben calibrata: deve avere provato a lungo per solo quattro rappresentazioni. Dei due tenori, Gregory Kunde, pur goffamente vestito, (un Re usurpatore in doppio-petto da saldo ma con corona e scettro) si è districato bene nel ruolo nonostante le difficoltà con gli acuti e alcuni segni di stanchezza. Juan Diego Flórez (un Ilo in sahariana) è seguito da una tifoseria da curva Sud ed è stato applaudito a scena aperta sin dalla “cavatina” iniziale di agilità. Kate Aldrich, la protagonista Zelmira, è un mezzo soprano, mentre il ruolo venne concepito per la Colbran che era sia soprano sia mezzo: scansa gli acuti e superacuti e ha una dizione quasi incomprensibile.

Marianna Pizzolato (Emma) ha un’emissione perfetta e una dizione precisa e pure lei si tiene lontana dagli acuti. Alex Esposito, Mirco Palazzi, Francisco Brito e Sávio Sperandio sono le trucide macchiette previste dalla regia. Il coro, che un ruolo essenziale, è parso all’inizio uscire da un film di Carlo Verdone ma ha acquistato movimento e spessore via via che lo spettacolo avanzava. In sintesi: si sconsiglia che dello spettacolo resti traccia in dvd, mentre un cd può essere un’utile aggiunta alla discografia rossiniana. Un’ultima osservazione: questo allestimento di “Zelmira” pare sia costosissimo. Non sarebbe stato meglio distribuire le risorse su più repliche di spettacoli meno elaborati e tali da essere coprodotti con altri teatri o noleggiati in Italia e all’estero?

(Hans Sachs) 10 ago 2009 12:50





Alla c.a. Ruggero Guarini,Emanuele Gatto

Vi ho fatto inviare le foto di tutte le tre opere- oltre a “Zelmira”, “La Scala di Seta” e “Le Comte Ory”. Suggerisco di mettere “Zelmira” oggi, “Scala di Seta” a metà settimana e “Le Comte” lunedì prossimo. Sarò in Francia dal 15 al 24 e non so cosa vi invierò prima della fine del mese. Fatemi in ogni caso sapere a chi inviare
Giuseppe

Fischiato l’allestimento della prima del Rof
“ZELMIRA”, ROSSINI A 30 ANNI ERA GIA’ CONSERVATORE
Hans Sachs

La trentesima edizione del Rossini Opera Festival (Rof) è stata inaugurata la sera del 9 agosto con “Zelmira”. L’allestimento, le scene, i costumi e la regia sono stati fischiati da gran parte del pubblico dopo circa quattro ore di spettacolo nell’”Adriatic Arena”, lo stadio di pallavolo trasformato in teatro in attesa che il fatiscente Palafestival venga nuovamente reso agibile. La reazione del pubblico deve invitare la gestione del Rof ad una riflessione. Cerchiamo di spiegare perché è stata così rumorosa.
“Zelmira” è opera raramente eseguita in tempi moderni – venne rilanciata circa 20 anni fa con un’elegante (ma scorciata) produzione al Teatro dell’Opera di Roma e messa in scena in un differente allestimento Pesaro nel 1995. Anche se fu di grande successo nel 1822-26, pare che oltre alle due edizioni citate non ci ne siano state altre in tempi moderni. Ultimo lavoro del pesarese per il San Carlo venne concepita guardando a Vienna, dove tutta la compagnia del teatro napoletano andò in una lunga trasferta e l’opera venne acclamata e replicata per circa un mese; si disse che venne apprezzata soprattutto dal potentissimo Metternich che ne patrocinò addirittura un’esecuzione a Verona per il Congresso della Santa Alleanza. Venne rappresentata a Venezia; a Roma in parallelo in due teatri (Argentina e Valle) e quasi contemporaneamente all’Accademia Filarmonica. Andò, ovviamente, alla Scala ed in altri importanti teatri italiani. A Londra venne scelta per inaugurare la stagione rossiniana al King’s Theatre ed a Parigi venne ampliata, leggermente modificata (nel finale), all’inizio delle attività del Théâtre Italien. Poco dopo il silenzio sino al 1995, o giù di lì, ed anche da allora pochissime riprese.
Per una curiosa coincidenza il debutto napoletano di “Zelmira” avvenne pochi giorni prima che il compositore compisse trent’anni. Molto liberale sotto le lenzuola – non si faceva tanto scrupolo che il suo impresario Barbaja fosse l’amante della sua stessa donna, Isabella Colbran che , dopo pochi giorni dal lancio dell’opera (di cui era la protagonista) sarebbe diventata sua moglie, era già intimamente conservatore sotto il profilo politico. Era un “legittimista” – ossia a favore del ritorno dei “legittimi” sovrani sui troni delle rispettive dinastie dopo il tormentone rivoluzionario e napoleonico. Pur se l’arzigogolato libretto di Andrea Leone Tottola (basato su un drammone di tal Pierre-Laurent Burette che firmava con lo pseudonimo di Dormono de Belloy), si svolge ai tempi omerici, intrighi, tradimenti, parricidi veri e presunti hanno come fulcro centrale la legittimità dinastica in quanto elemento essenziale per quell’ordine che a Rossini era già tanto caro. Bruno Cagli considera un pregio del libretto quello di essere “un centone di situazioni melodrammatiche di forte connotazione” ed afferma che l’”opera un lavoro di supremo magistero in cui ogni dettaglio sembra sottoposto ad un vaglio spietato ed ogni elemento (del lessico rossiniano – n.d.r.) riproposto o ripensato ex-novo”. Una specialista rossiniana come Kathleen Kuzmick Hansell mette in risalto l’estremo virtuosismo delle parti vocali , l’orchestrazione piena di colore e fantasia , le soluzioni avanzate. Altri ancora, come Emilio Sala, vedono “Zelmira” come un ponte verso il melodramma belliniano (“Bianca e Fernando”, “Il Pirata”).
Il vostro “chroniqueur” è un scettico e considera “Zelmira” figlia d’occasione del proprio tempo sia drammaturgicamente sia musicalmente. Rossini aveva dato il meglio di sé pochi mesi di cominciare a comporre “Zelmira” con quel “Maometto II” così innovativo che nessuno comprese e fu un fiasco tale da essere coperto da una fitte coltre di oblio sino alla fine del Novecento (da allora viene riproposto continuamente in Italia ed all’estero). “Zelmira” rappresenta non solo un passo indietro ma l’inizio di una parabola discendente (pur se interrotta da capolavori assoluti come “Semiramide”, “Le Comte Ory” e “Guillaume Tell”); ha una struttura sghemba (con un secondo atto che dura meno della metà del primo), un lunghissimo finale primo (circa mezz’ora), vere e proprie gare di vocalità tra i due tenori protagonisti, una scrittura vocale per l’eroina eponima a pennello unicamente per la Colbran , nessuno sviluppo psicologico dei personaggi. Ciò spiega, a mio avviso, anche il modesto successo dopo i valorosi tentativi di rilancio negli ultimi tre lustri. Da un lato, il problema chiave del dramma in musica – la legittimità dinastica – non interessa più nessuno (dal 1830 o giù di lì). Da altro, l’elegante tavolozza orchestrale e i virtuosismi vocali guardano più al passato che all’avvenire in un’Europa dove andava in scena il “Freischütz” di Weber. Riccardo Bacchelli fu forse troppo severo nell’includerla tra le opere di Rossini “o stanche, o vuote, o stentate, o raffazzonate”. Stendhal utilizzò un linguaggio ancora più pesante. Forse, tutti i torti non li aveva. La rarità delle messe in scene è indicazione indiretta di come non si tratti di un lavoro tra i migliori del pesarese.
Un astuto teatro di regia risolverebbe in parte questi problemi ponendo al centro dell’opera il nodo della legittimità democratica, più consono ai nostri tempi. Al limite, e per celia (non senza ironia), il legittimo Re Polidoro sarebbe vestito e truccato come Berlusconi (l’eletto del popolo e capo legittimo), mentre Antenero e Leucippo come Franceschini e Di Pietro, il Gran Sacerdote come D’Alema, Ilo come Casini (Pierferdinando), Zelmira sarebbe una dedica e decisa Gelmini. Veltroni finirebbe tra i coristi.
Non è la strada che seguono Giorgio Barbieri Corsetti e i suoi collaboratori (Christian Taraborrelli e Angela Buscemi) per le scene ed costumi. Non siamo nelle mitiche isole greche omeriche come nei due allestimenti precedenti che ho visto in questi anni, ma in Novecento travagliato da guerre (forse balcaniche, oppure in Iraq od ancora in Afghanistan) e lotte cruente di potere – secondo le intenzioni di Barbiero Corsetti – l’intera opera sarebbe “un sogno degli spettatori”. Non mancano ovviamente uniformi soldati in tuta mimetica. In breve, il drammone del benpensante Tottola diventa un “teatro epico” alla Bertold Brecht. Ma il conservatore, ove non reazionario, Gioacchino Rossini ha una vena ben differente da quella di Kurt Weill anche quando è alle prese con una tavolozza di stimoli musicali non sempre compiuti. Ad aggravare la situazione (ove mai ce ne fosse bisogno), seguendo i canoni del “teatri epico”, non c’è recitazione vera e propria: i cantanti , d’altronde, sono stereotipi di idee non personaggi. Inoltre, la scena unica – quasi sempre nell’oscurità- è dominata da un enorme specchio (Barberio Corsetti dovrebbe lasciare tale attrezzeria a Braunsweigh ed agli allievi di Svoboda – ossia a specialisti che se ne intendono) e da tronconi di statue: il primo oltre a mostrare scena, orchestra e spettatori da varie prospettive è anche schermo di proiezione per scene di tortura (siamo in una dittatura o no?) , le seconde salgono e scendono sul palcoscenico senza un significato che appaio chiaro agli spettatori.
Ove ciò non bastasse l’edizione “critica” utilizzata per lo spettacolo – firmata da Helen Greenwald e Kathleen Kuzmick Hansell – fonde la versione napoletana, con quella viennese e quella parigina; l’esito è una durata wagneriana di una tavolozza incompiuta ; lo stesso Rossini, in vita, non fece nulla per resuscitare “Zelmira”, ma riversò parte dalla musica in altri lavori.
La parte musicale è apparsa di quella scenica. L’orchestra del Teatro Comunale di Bologna (dove l’opera non è in programma la prossima stagione e dubito che lo sarà mai) guidata da Roberto Abbado ha offerto una lettura pulita e ben calibrate: devono avere provato a lungo per solo quattro rappresentazioni. Dei due tenori, Gregory Kunde (pur goffamente vestito: un Re usurpatore in doppio-petto da saldo ma con corona e scettro) si è districato bene nel ruolo nonostante difficoltà con gli acuti e segni di stanchezza. Juan Diego Flórez (in sahariana) è seguito da tifoseria da curva Sud; è stato applaudito a scena aperta sin dalla “cavatina” iniziale di agilità. Kate Aldrich, la protagonista, è un mezzo soprano, mentre il ruolo venne concepito per la Colbran che era sia soprano sia mezzo: scansa gli acuti (per non dire dai superacuti) ed ha una dizione quasi incomprensibile. Marianna Pizzolato ha un’emissione perfetta e una dizione precisa; pure lei si tiene lontana dagli acuti. Alex Esposito, Marco Palazzi, Francisco Brito e Sávio Sperandio sono le trucide macchiette previste dalla regia. Il coro, che un ruolo essenziale, è parso all’inizio uscire da un film di Carlo Verdone ma ha acquistato movimento e spessore via via che lo spettacolo avanzava.
In sintesi, si sconsiglia che dello spettacolo resti traccia in DvD, mentre un cd può essere un’utile aggiunta alla discografia rossiniana. Un’ultima notazione: questo allestimento di “Zelmira” pare costosissimo. Non sarebbe stato meglio distribuire le risorse su più repliche di spettacoli meno elaborati e tali da essere coprodotti con altri teatri o noleggiati in Italia ed all’estero?