venerdì 27 giugno 2008

PUCCINI E IL CINEMA Il Velino del 28 giugno

Uno dei meriti delle manifestazioni (e degli studi) innescati dai 150 anni dalla nascita di Giacomo Puccini è quello di riaprire un capitolo da molti poco considerato: quello dei rapporti tra il compositore ed il cinema. Puccini – è stato scritto in varie sedi – è stato l’ultimo dei grandi compositori italiani davvero internazionali. Nella sua maturità ha vissuto negli anni in cui il teatro in musica era sconfitto, come principale mezzo d’entertainment di massa e commerciale, dalla nascente settima arte. Era l’epoca in cui le battaglie tra le grandi case editrici musicali (ad esempio, Ricordi e Sonzogno) stavano per essere sostituite da quelle tra i maggiori produttori cinematografici. Julian Budden, uno dei maggiori studiosi pucciniani , ha scritto, correttamente, che “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Mentre altri compositori italiani (si pensi a Mascagni ed a Pizzetti) e stranieri (si pensi a Korngold ed a Prokogiev) venivano attrattiva dal nuovo strumento e dalla sue convenzioni, Puccini non ha mai composto musica da film ed i suoi rapporti con la cinepresa ed il suo lessico sono rimasti avvolti in un cono d’ombra.

Un saggio di Pier Marco De Santi, la mostra “Puccini al Cinema” ed una serie di proiezioni (oltre 40 film ispirati ad opere di Puccini o sulla vita del compositore) gettano una luce nuova ed interessante. De Santi scava nelle esperienze di Puccini come autore dilettante di un film muto (“Il Libeccio”, prodotto dalla Versilia Film) di cui non è rimasta traccia, nel suo gusto a farsi riprendere dalla macchina da presa, nel suo ruolo in documentari su sé stesso ed anche nella sua breve apparizioni (nel ruolo di gentiluomo maleducato) nel film commerciale “Cura di Baci” del 1916. Indaga, poi, su “Puccini spettatore”, in particolare di film tratti, in tutto il mondo, da sue opere. Analizza, poi, come il cinema abbia trattato le opere di Puccini , a volte bistrattandole- dagli anni del muto ad oggi oppure su come la musica pucciniana sia stata presa in prestito a supporto di film che, con il compositore lucchese, non avevano nulla a che fare.

E’ un lavoro minuzioso e stimolante di storia del cinema. Sarebbe utile integrarlo con un’analisi di quanto l’allora nascente settima arte abbia influenzato Puccini nella scelta delle sue opere e nei “tagli” specifici dati a ciascuna di esse. Ad esempio, è difficile immaginare “La Fanciulla del West” al di fuori del contesto dei film western oppure “Gianni Schicchi” senza le gags dei film muti di Chaplin e dei Fratelli Max oppure ancore “Turandot” senza i “colossal” americani ed italiani che, proprio in quegli anni, portavano via pubblico ai teatri d’opera per attirarlo verso sale cinematografiche. E’ questa interazione che merita di essere approfondita. Un approfondimento a cui l’iniziativa del Comitato per le Celebrazioni Pucciniane e la Fondazione Puccini danno, con “Puccini al Cinema” un contributo non secondario.

LA SEDUZIONE E' DONNA COME L'OPERA, Il Domenicale 28 giugno

Due dei maggiori festival musicali italiani dell’estate riguardano la seduzione, il Ravenna Festival iniziato il 13 giugno ed in programma sino al 19 luglio lo Sferisterio Opera Festival in calendario dal 24 luglio al 12 agosto. Delle due manifestazioni, la seconda è esplicitamente dedicata alla “seduzione”; è il terzo capitolo di una serie affidata a Pier Luigi Pizzi, dopo un Festival dedicato nel 2006 all’”iniziazione” ed uno nel 2007 al “gioco del potere” (in gran misura delle donne sugli uomini). A Ravenna, dove l’opera è parte di un caleidoscopio più vasto (concerti, commedie musicali, prosa, balletti), il titolo del Festival è “Erranti, eretiche, erotiche ..”. La “seduzione” quale e tale, quindi, è sottintesa, ma non resa esplicita. Diamo una scorsa ai programmi dei due festival per trarne alcune considerazioni.

A Ravenna, un nuovo allestimento della verdiana “La Traviata”, firmato da Cristina Mazzavillani Muti e 'spazializzato' dalle alchimie foniche di Luigi Ceccarelli, ha inaugurato la manifestazione. La declinazione al femminile del tema è scandita in una serie di cinque 'ritratti', commissionati ad altrettante protagoniste del teatro e della musica romagnole. Insieme alle 'visioni' (un incontro fra Norma e Medea) di Cristina Mazzavillani Muti, essi hanno l’obiettivo di dare vita a una serie di figure di donne d'eccezione, da una monaca 'commediografa' dell'anno mille come Rosvita all'eroina dei due mondi Anita Garibaldi. Seguono altre presenze (da Salomé a Juliette Greco) ed un omaggio al compositore italiano Giacinto Scelsi. Il festival è al femminile. E’ però da vedere se e quanto tratti d’”erranti, eretiche ed erotiche”. Specialmente d’eros, ce ne sarà molto meno di quanto annunciato. Di “seduzione” in teatro in musica non ce ne sarà quasi nulla.

In primo luogo, chiunque conosce “La Traviata” sa che tratta d’innamoramento , di passione e d’amore ma non certo di seduzione (la donna di vita Violetta non seduce il giovane provinciale Alfredo, ma i due cadono nelle braccia l’uno dell’altra); la seduzione e l’eros sono assenti dal melodramma italiano ottocentesco, specialmente da quello verdiano. Non è né erotica né errante né, ancor meno seduttrice, la monaca Rosvita autrice di straordinari “morality plays” da recitarsi in un convento di clausura. Anita Garibaldi aveva una forte propensione a combattere più che a sedurre. Norma e Medea, dal canto loro, sono state sedotte (ed abbandonate) al levarsi del sipario ed il loro obiettivo è vendicarsi nel modo pure più efferato (uccidendo i figli da avuti dal seduttore). Senza errare, professare eresia e dare sfoggio d’eros.

A Macerata, il Festival deve rivolgersi al teatro in musica francese, “Carmen” di Bizet ed ad una novità di Tutino per cogliere nel segno, ossia trattare di “seduzione”. Il primo titolo riguarda una vera mangiatrice d’uomini (argomento frequente del teatro musicale francese del Secondo Impero e della Terza Repubblica). Nella novità assoluta “The servant” di Tutino, dal film di Joseph Losey del 1963, s’intrecciano seduzioni ambigue, anche omo-erotiche. Già nel 2005, Tutino aveva presentato, a Macerata, una prima mondiale “Le bel indifferent” in cui Danilo Fernandenz, attore di origine uruguaiana, stava in scena tutto nudo per l’intera durata dell’atto unico, facendo anche la doccia ed utilizzando i servizi igienici posti sul palcoscenico. Ebbe eco di stampa, ma limitato successo.

Gli altri titoli sono distanti dal tema della seduzione. La “Cleopatra” di Lauro Rossi è forse stata una seduttrice prima dell’inizio dell’opera, nel corso della quale tenta di riconquistare Antonio, tornato a Roma da Ottavia; la regina egiziana è insensibile pure al suo antico innamorato Diomede. In breve, siamo alle prese con un grand-opéra padano – la definizione è del musicologo Giancarlo Landini – strutturato come “Aida”, “Gioconda”, “Adriana Lecouvreur”. E’ il 1876. Lauro Rossi compone nella tradizione verdiana: soltanto circa venti anni più tardi, con “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini l’eros e la seduzione sarebbero tornati (dopo una lunga assenza) nelle scene del teatro in musica italiano. La verdiana Odabella cerca, con la finzione non con la seduzione, di fermare “Attila” (a cui è intitolata l’opera in cartellone a Macerata) a non marciare su Roma; è una Giuditta in sedicesimo risorgimentale, che - attenzione !- induce alle nozze il re unno ma lo accoppa prima che siano adempiuti i doveri coniugali (e nonostante che Attila si sia già inginocchiato di fronte a Papa Leone I). E la pucciniana “Tosca”? La vera seduttrice del repertorio del lucchese è la già ricordata “Manon Lescaut” – “O tentatrice!” la chiama Des Grieuux nel duetto del secondo atto in cui , nel 1893 al Teatro Regio di Torino, l’eros torna prepotente sulla scena italiana. Pare che “Manon Lescaut” fosse stata presente nel programma iniziale dello Sferisterio Festival, ma sia stata sostituita, per ragioni di budget, con una “Tosca”, che non seduce e non è sedotta da nessuno ma finge di cedere, per un’ora, al “satiro” Scarpia (capo della polizia papalina) per infiggergli una coltellata nel dorso al primo tentativo d’abbraccio.
Vi ricordate il film “Sangue e Arena”? Nella prima versione (1922), Nita Naldi e Lita Lee combattevano tra di loro per portarsi Rodolfo Valentino ciascuna sotto le proprie lenzuola. Nella seconda (1941), Rita Hayworth e Linda Darnell braccavano (sempre per motivi di letto) Tyrone Power. Mutati i tempi, a Hollywood è stato progettato (ma mai realizzato) un più esplicito “Sesso e Arena”, con la vicenda trasportata dalla Spagna degli Anni 20 alla libertina Spagna di oggidì. Nulla di tutto ciò (tranne “Carmen”) a che fare con quanto in programma a Macerata, ma pare che la formula “Sesso e Arena” renda. Quattro anni fa l’Associazione che gestisce lo Sferisterio stava per chiudere bottega in quanto sommersa dai debiti. L’anno scorso, nell’arco di tre settimane, ci sono stati 25.000 spettatori paganti. Gli apporti di sponsor privati è ora di un milione d’euro la stagione. Una “seduzione” quindi più per sani motivi commerciali che per portare la seduzione in musica o la musica della seduzione al centro del Festival.

Non mancano né la seduzione in musica né la musica della seduzione. Sono, però, virtualmente assenti dal repertorio che più attira il pubblico italiano dei Festival estivi: il melodramma ottocentesco, specialmente quello verdiano. Nel romanticismo, la seduzione e l’eros hanno un ruolo centrale dell’opera tedesca e francese, ma spariscono da quella italiana – l’ultima opera “érotique” di un italiano è “Le comte Ory” di Rossini (ma per l’appunto in francese)- per riapparire alla fine dell’Ottocento e diventare centrali a quel teatro in musica del Novecento in gran misura condannato all’oblio perché coetaneo con il fascismo. La seduzione è centrale al barocco. Si pensi, per citare titoli notissimi, a “L’incoronazione di Poppea” di Monteverdi (dove la seduzione porta al potere politico assoluto) o a “La Callisto” di Cavalli (dove la seduzione giunge a dare un nuovo assetto alla stessa ecosfera). In effetti – come rileva acutamente Elvio Giudici – nell’epoca della controriforma il teatro in musica (specialmente a Venezia) fornisce un quadro sensuale, lascivo, libidinoso della società, in cui tutti seducono tutti e l’obiettivo principale è fare sesso (ottenendone anche altri vantaggi).

Questa estate il vero Festival della “seduzione” è il Festival Internationale d’Opéra Baroque a Beaune in Borgogna dove complessi italiani, quali quelli guidati da Antonio Florio e Ottavio Dantone, unitamente a complessi britannici e francesi, portano alcuni esempi del fior fiore del teatro in musica del Sei-Settecento italiano, britannico e tedesco-francese, dove la “seduzione” è le molla effettiva dell’azione scenica e musicale. Si svolge in un complesso religioso-ospedaliero costruito da una coppia d’anime pie del Quattrocento (l’Hôtel- Dieu des Hospice de la Charité). Potenza della “seduzione”. Quella vera.

SE LA PSICOSI DELL'INFLAZIONE SI AUTOALIMENTA,. Libero del 28 giugno

Il dibattito in corso in Italia sul tasso programmato d’inflazione non è un fenomeno isolato oppure tipico del nostro Paese. In Germania, ad esempio, i sindacati della Lufthansa hanno chiesto un aumento salariale del 9,8% (per i tre anni di durata dell’accordo) motivandolo con le prospettive di un aumento dell’inflazione. In Gran Bretagna, 600.000 dipendenti d’enti locali (contee, comuni) sono scesi in sciopero per ragioni analoghe. Non è unicamente sul fronte dei prezzi dei fattori di produzione (come il lavoro) ma anche su quello dei prezzi dei prodotti e dei servizi: la Dow Chemical ha appena ritoccato, all’insù, i listini e lo ha motivato con il balzo del greggio; le compagnie aeree hanno imposto addizionali ai prezzi dei biglietti. E via discorrendo.
La corsa al petrolio, alle derrate ed a varie materie prime (i cui indici sono aumentati dl 94%, del 62% e del 32% negli ultimi 12 mesi) sono le mosche cocchiere di una nuova andata d’inflazione analoga a quella degli Anni Settanta (che arrivo a tassi d’aumenti generalizzati dei prezzi a due cifre)? Oppure sono il frutto di vampate speculative destinate a rientrare? Ho parlato con colleghi dei servizi studi della Federal Reserve e della Bce. Prevale la seconda ipotesi. Tuttavia, dagli Anni Settanta ad ora la disciplina economica è cresciuta e si è arricchita di nuovi rami e di nuovi filoni d’analisi. Mentre negli Anni Settanta (ed in Italia anche nella prima parte degli Anni Ottanta), un’ipotesi era che le indicizzazioni autoalimentassero l’inflazione (questo era il succo, ad esempio, del pensiero di Ezio Tarantelli ed è stato la base dell’Accordo di San Valentino e del decreto legge sulla sterilizzazione di alcuni punti di contingenza), oggi la molla che auto-alimenta gli aumenti dei prezzi e trasforma la speculazione su alcune merci e servizi in inflazione generalizzata è argomento di analisi di un nuovo ramo della disciplina: la “neuro-economia”. E’ un ramo discusso- è stato ad esempio molto criticato da Ariel Rubistein al congresso scientifico della Società Internazionale d’Econometria nel 2005 – ma che sta guadagnando sia terreno sia reputazione. Ne fornisce una valutazione equilibrata Douglas Bernheim dell’Università di Stanford nel saggio "Neuroeconomics: A Sober (But Hopeful) Appraisal" pubblicato a metà giugno come NBER Working Paper No. W13954. Il ramo coniuga la psicologia (che studia pensieri e percezioni) con l’economia che invece ipotizza razionalità di comportamento (quale la minimizzazione dei costi per raggiungere obiettivi). Analizza emozioni (quali la speranza e la paura) al fine di individuare le motivazioni alla base dei comportamenti effettivi. Fa perno più sugli esperimenti che sulla teoria pura; Daniel Kahneman ha ottenuto il Premio Nobel per l’Economia, proprio per il suo lavoro sperimentale in questo campo. In materia di finanza e di relazioni industriali, specialmente importante la “neuroeconomia della fiducia”, argomento di studio di Paul Zak del Centro per gli studi di neuroeconomia della Claremont Graduate University in California a cui si può scrivere (paul.zak@cgu.edu) per avere copia (su supporto elettronico) dei suoi ultimi lavori.
Non si parla di “neuroeconomia” unicamente nei cenacoli universitari e nei servizi studi delle autorità monetarie. Pur evitando di menzionare il vocabolo (ha un sapore troppo accademico), ne discutono, in interveste alla stampa britannica ed americana, Julian Callow, capo economista di Barclays Capital e Jacques Callioux della Royal Bank of Scotland per spiegare i dilemmi che confrontano oggi Governi, banche centrali, Governi ed associazioni di datori di lavoro. Il nodo sottolineano è come bloccare la trasmissione dei balzi di alcuni prezzi al resto dell’economia. Gli strumenti della “neuroeconomia” forniscono ricette migliori e più articolate di quelle della fine degli Anni Settanta (quando negli Usa si utilizzarono durissimi freni monetari, scatenando una minirecessione) e della prima parte degli Anni Ottanta (quando in Europa si punto sul tasso d’inflazione programmata per disinnescare il canale di trasmissione fornito dall’indicizzazione).
La “neureconomia” ha lavorato principalmente su argomenti micro-economici, dato il proprio carattere sperimentale, e non ha trattato specificatamente di quelli macro-economici, e, dunque, ancor meno di quelli della politica di bilancio e della moneta. Ci sono, però, alcune indicazioni indirette che possono essere utili a chi ha responsabilità di politica economica ed alle parti sociali. Uno studio delle Università di Tuebigen e del DWI di Berlino analizza come nell’età dell’incertezza e della neurosi inflazionistica da incertezza, il motore principale dell’iscrizione ad un sindacato è l’”avversione al rischio”. Tale “avversione al rischio”, secondo il lavoro, suggerisce anche moderazione salariale e priorità alla creazione d’occupazione (per chi non la ha e la cerca). Nell’ultimo fascicolo di “Intereconomics, Review of European Economic Policy” un altro studio d’origine tedesca sottolinea come la “flexicurity” (flessibilità del mercato del lavoro coniugata con elevati ammortizzatori sociali , specialmente per la riqualificazione) possa apportare un contributo positivo a disinnescare la trasmissione e il gonfiamento delle psicosi inflazionistiche. Queste indicazioni sono rafforzate da un’analisi comparativa dei Paesi Ue dal 2000 al 2005 – condotta dall’Università di Bologna ma pubblicata in Germania (IZA Discussion Paper No. 3502 ) da cui si evince che i più alti tassi d’occupazione e la maggiore moderazione salariale sono, di norma, associati con maggiori spese in politiche del lavoro, specialmente in politiche attive del lavoro, e minori rigidità.

giovedì 26 giugno 2008

UNA LADY MACBETH MELANCONICA, Milano Finanza del 27 giugno

L’ultima opera del 71simo Maggio è “Lady Macbeth del Distretto di Mzenck” di Dmitri Šostakovič, nell’allestimento che nel 1998 ottenne il “Premio Abbiati”. La vicenda è tratta da un racconto di Nicolai Leskov - una storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina L’vovna, borghese di provincia mal ammogliata, uccide tutti gli uomini che si porta sotto le lenzuola. La musica era, nel contesto degli Anni Trenta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare le partiture tradizionali d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, né con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti. Šostakovič era poco più che ventenne ma già noto.in Urss ed all’esteto. La prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 ebbe un esito trionfale tanto che l’opera venne ripresa a Londra, a Praga e a Cleveland, nell’arco di meno di 18 mesi. Dopo la prima esecuzione a Mosca, la mattina del 28 gennaio 1936, la “Pravda” pubblicò un editoriale non firmato, ma dettato dallo stesso Stalin, in cui si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora iniziò, per Šostakovič un processo di “mobbing” che durò sino alla fine degli Anni 50. Non compose opere per decenni. Nel 1963, propose una nuova edizione di “La lady Macbeth”, espurgata, però, nel testo, nella partitura ed anche nel titolo (diventato “Katerina Izmailova”). Sino a tempi recenti questa versione è quella vista più spesso in Italia. L’originale del 1934 è stato proposto nel 1947 al Festival di musica contemporanea a Venezia e negli ultimi anni a Spoleto, a Firenze, a Milano, a Catania, a Ravenna ed a Roma. L’edizione fiorentina del 1998 (regia di Lev Dodin, scene e costumi di David Borovsky, direzione musicale di Semyon Bichkov) è stata considerato esemplare. E, quindi, da riproporre a dieci anni di distanza dalla prima rappresentazione fiorentina. Il 21 giugno il teatro era pieno, nonostante si fosse nel primo caldo sabato estivo; il pubblico ha saluto con entusiasmo le tre ore e mezzo di spettacolo interrotte da un breve intervallo.
La regia Dodin (che ha curato la ripresa in prima persona) e le scene e costumi (riprese da Alexander Burovsky) sono rimaste identiche a quelle del 1998: un impianto unico per rappresentare i vari ambienti (dall’azienda agricola, al commissariato di polizia, alla radura dove sostano i condannati alla deportazione in Siberia). La direzione musicale, invece, è molto differente. La bacchetta di James Conlon non ha il fuoco e la concitazione di quella di Bichkov (o di quelle di Chung e Gergiev per ricordare altre edizioni recenti) ma è melanconica, ed a volte ironica (nella scena del commissariato ed in quelle in cui è presente un Pope ridotto a ridicola macchietta). Grande attenzione ai dettagli. Enfasi sui violoncelli e sui fiati piuttosto che sugli ottoni. Risalto agli intermezzi in cui la buca d’orchestra viene portata al livello del palcoscenico. Una “Lady”, quindi, più dolente che demoniaca. La incarna Jeanne-Michèle Charbonnet, simile ad una Madame Bovary russa (delusa dai vari uomini della sua vita) piuttosto che ad una furia sanguinaria. La affianca un vasto cast (oltre 15 solisti in 22 differenti ruoli), tutti abili sia nella recitazione sia nel canto, nonché con le “physique du rôle”.. Tra essi spiccano Sergej Kunaev (nel ruolo dell’amante della protagonista) e Vladimir Vaneev (in quello del suocero). Lo spettacolo dovrebbe andare anche in teatri come Parigi e Amsterdam con palcoscenici vasti come quello fiorentino.

martedì 24 giugno 2008

TORNA A FIRENZE LA LADY CHE NON PIACQUE A STALIN Il Velino 24 giugno

Roma, 24 giu (Velino) - L’ultima opera del 71esimo Maggio Fiorentino è “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” di Dmitri Sostakovic, nell’allestimento che nel 1998 ottenne il “Premio Abbiati” (l’Oscar italiano per il miglior spettacolo lirico). Chiude in bellezza una manifestazione che si è estesa per oltre due mesi (dal 24 aprile al primo luglio) e che ha avuto alcuni elementi deboli, specialmente “Carmen”, spettacolo con il più alto numero di repliche ma non all’altezza dell’evento sia perché si tratta di un’opera molto rappresentata (ben cinque nuovi allestimenti questa estate) sia per la modestia della produzione. Si addice a un festival (che si dovrebbe caratterizzare per una serie di eventi unici) una “ripresa”? Nel caso di “Lady Macbeth del distretto di Mzensk” credo si debba, eccezionalmente, rispondere di sì. Lo spettacolo del 1998 (regia di Lev Dodin, scene e costumi di David Borovsky, direzione musicale di Semyon Bychkov) è stato considerato esemplare sia in Italia sia all’estero. Riguarda, poi, un’opera che ai tempi del “pensiero unico” non veniva quasi mai eseguita nonostante abbia avuto una serie di rappresentazioni esemplari in traduzione ritmica italiana, come si usava all’epoca, alla Fenice nell’ambito del Festival di Musica Contemporanea di Venezia nel 1947.
Dmitri Sostakovic aveva circa 25 anni quando scelse un racconto di Nicolai Leskov come spunto per “Lady Macbeth”, una storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina Lvovna, borghese di provincia mal ammogliata e assatanata, uccide gli uomini che si porta sotto le lenzuola (suocero e marito), il figlio del cognato e anche la nuova fidanzata del suo amante durante una deportazione della coppia omicida - lei e il suo ganzo - verso la Siberia. Bell’uomo, donnaiolo, viveur nella San Pietroburgo che stava diventando Leningrado, Sostakovic si considerava un comunista doc. Non lasciò la Madre Russia (come Stravinsky, Prokofiev e altri) ai primi bagliori della rivoluzione, ma intendeva contribuire a essa con il suo talento. L’opera avrebbe dovuto essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa, ovviamente alla donna post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e politicamente. La “Lady” in fin dei conti uccideva tre kulaki proprietari terrieri reazionari in un mondo in cui la polizia era corrotta e i pope chiudevano, in cambio di una buona offerta alla questua, non uno ma entrambi gli occhi pure di fronte agli omicidi. Sostakovic era convinto di andare sul sicuro dato il successo di pubblico (e di critica “socialista”) della versione cinematografica di Ceslav Savinki in cui (si era negli anni della transizione tra “muto” e “parlato”) sangue, sbudellamenti e torture varie venivano accentuati.
La musica – ha scritto il compositore - era “fatta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti”. La “Lady Macbeth” venne rappresentata la prima volta il 22 gennaio 1934 a San Pietroburgo con un esito trionfale. L’opera varcò i confini dell’Urss e venne ripresa anche a Londra, Praga e Cleveland. A neppure un anno e mezzo di distanza dalla “prima”, se ne annunciarono messe in scena a Bruxelles, Parigi e New York. Nel gennaio del 1936 arrivò, attesissima, al moscovita Bolscioi. La mattina del 28 gennaio, la Pravda pubblicò un editoriale non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, intitolato “Caos anziché musica nel quale si accusava l’opera di pornografia e cacofonia. Da allora (si era nel 1936) iniziò, per Sostakovic non ancora trentenne, un processo di isolamento che durò sino alla fine degli anni Cinquanta. Il compositore fu costretto a ritirare il lavoro, sua seconda e, per molti aspetti, ultima opera. Passò dal teatro alla musica, si buttò nella sinfonica per grande organico, nella cameristica e negli accompagnamenti ai film (eccezionale il componimento per un “Amleto”).
Solo dopo la morte di Stalin, ritornò, moderatamente, all’innovazione. Nella tredicesima sinfonia introdusse la voce solista (su testi di Evtuscenko). Nel 1963 propose una nuova edizione della “Lady Macbeth”, spurgata, però, nel testo, nella partitura e anche nel titolo (diventato “Katerina Ivanova”): è questa la versione conosciuta in Italia, principalmente tramite tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana e di Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna negli anni ’60 e ‘70. La “Lady Macbeth” del 1934 è riapparsa nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 e nel 2007 alla Scala e nel 1994 e 1998 a Firenze. Cosa irritò Stalin? L’opera è senza dubbio violenta con scene di stupro e di sesso in palcoscenico, ma il film di Ceslav Savinki lo è ancora di più. Alcune scene (quella del commissariato e della corruzione diffusa tra le forse dell’ordine) si riferivano all’epoca zarista, ma probabilmente la situazione non era cambiata molto durante il comunismo. In un breve saggio scritto nel 2006, in occasione del centenario della nascita di Sostakovic, ho sostenuto che alla radice del divieto ci fossero due elementi: la rivoluzione musicale e il successo all’estero di cui Stalin era invidioso e perplesso in quanto dava al mondo un’immagine della Russia differente da quella propagandata dal Pcus.
Due parole sullo spettacolo fiorentino. Nonostante regia, scene e costumi siano quelli del 1998, la direzione musicale è differente. La bacchetta di James Conlon non ha il fuoco e la concitazione di quella di Bychkov (o di quelle di Chung e Gergiev per ricordare altre edizioni recenti) ma è melanconica e a volte ironica come nella scena del commissariato e in quelle in cui è presente un pope ridotto a ridicola macchietta. Grande attenzione ai dettagli. Enfasi sui violoncelli e sui fiati piuttosto che sugli ottoni. Risalto agli intermezzi in cui la buca d’orchestra viene portata al livello del palcoscenico. Una “Lady”, quindi, più dolente che demoniaca. Più vicina forse a quella che Sostakovic intendeva rappresentare. E più tagliente nei confronti del comunismo. Anche per questo non piacque alle nostra intellighenzia sino alla fine degli anni Ottanta (l’edizione spoletina fu fortemente voluta da Gian Carlo Menotti) e pare che Walter Veltroni non la mandi giù ancora oggi.

ALEMANNO COPI DA NEW YORK, Libero 24 giugno

La situazione finanziaria ereditata dalla capitale dopo 13 anni di governo delle sinistre solleva non solo il problema delle responsabilità politiche (e, se del caso, amministrative) ma anche quello di come risolverla in un quadro – come l’attuale – di federalismo fiscale “incompiuto” e di quelle che possono essere le conseguenze di un’eventuale insolvenza della capitale sul resto d’Italia, in particolare sulle aree più produttive, quelle del Nord.

In primo luogo, se in Italia si fosse già realizzato il federalismo fiscale, le responsabilità sarebbero chiare: i romani avendo scelto per circa tre lustri amministratori che hanno gradualmente dato sempre maggiore rilievo all’effimero e sempre meno attenzione ai conti pubblici (e pur pieni di debiti si sono lanciati in un’operazione di “soccorso rosso” nei confronti della Regione Lazio per evitarne il commissariamento) sarebbero i soli a doversi assumere il compito di tamponare, in una prima fase, i conti della città e risanarli in una seconda. Ciò detto, resterebbero pur sempre le implicazioni sul resto d’Italia. . Una bancarotta di Roma avrebbe trascinato con se il resto d’Italia così come negli Anni Ottanta quello (paventato) d’Istanbul avrebbe colpito l’intera Turchia e negli Anni Settanta quello (evitato per un pelo) di New York avrebbe inflitto un colpo durissimo all’intera comunità internazionale.
Ciò per due ordini di motivi. Innanzitutto, il danno reputazionale al sistema Italia nel suo complesso: stime econometriche condotte negli Usa in occasione degli scandali finanziari degli Anni Novanta hanno rilevato che esso è tale a 16 volte il risarcimento di norma attribuito (dalla magistratura) ai danneggiati. Tale danno avrebbe riguardato l’intera Italia non solo la capitale, così come gli scandali dei rifiuti in Campania colpiscono tutto il Paese non solamente Napoli e la Regione – basta scorrere gli articoli della stampa internazionale in cui si mette sotto accusa tutta l’Italia (senza distinguere tra livelli di governo, maggioranza e opposizione e quant’altro). Inoltre, stime per quanto preliminari sulla base della matrice della contabilità sociale (che rappresenta le relazioni tecniche tra settori e tra flussi finanziari) indicherebbero verosimilmente che le aree maggiormente colpite sarebbero al centro-nord sia perché sono quelle che hanno maggiori crediti con Roma sia perché sono quelle dove un freno dell’economia romana porterebbe ad un maggior rallentamento. E’ interesse, dunque, del Nord e del resto d’Italia venire incontro a Roma. E prendere questa occasione anche come strumento aggiuntivo per attuare un efficace federalismo fiscale.
Su un quotidiano romano, ho sottolineato come la soluzione non sta in un approccio consociativo tipo Commissione Attali/Bassanini. Meglio prendere come esempio il risanamento di New York, attuato nella seconda metà degli Anni Settanta da Felix Rohatyn , a lungo alla guida di Lazard Frères e negli Anni 90 Ambasciatore Usa in Francia ed ai vertici di Lehman Brothers. Rohatyn creò la Municipal Assistance Corporation (Mac), una finanziaria costituita con le forze finanziarie ed imprenditoriali della città (ma anche con il supporto del Governo federale) che nell’arco di tre anni fu in grado di portare al pareggio del bilancio comunale e di cinque di tornare all’emissione d’obbligazioni comunali di alto “rating”. Gli atti della Mac sono pubblici e possono essere consultati on line anche oggi al http://newman.baruch.cuny.edu/digital/2003/amfl/index.htm. . Un’operazione analoga è stata fatta per il risanamento finanziario d’Istanbul in gran misura frutto della mente di Neçat Erder, economista prima all’Ocse e poi alla Banca Mondiale. La strategia è stata analoga: l’intervento (essenziale ma non sufficiente) del Governo centrale, ed un programma d’austerità delle spese municipali, come molla per indurre la finanza e l’industria privata in compra-vendita del debito municipale sul mercato secondario e di titolarizzazioni al fine di alleggerire il fardello sulla finanza comunale. New York degli Anni Settanta era l’hub della finanza internazionale; quindi, furono le forze della città ad attivarsi. Per Istanbul, si mosse tutta la Turchia (l’industria è localizzata quasi interamente in Anatolia).

LA SFIDA CONTRO LA DISOCCUPAZIONE SI VINCE PUNTANDO SULLA FAMIGLIA L'Occidentale 24 giugno

Gli esiti dell’ultima rilevazione Istat sulle forze lavoro (relativa al periodo che va dal 31 dicembre 2007 al 30 marzo 2008) è stata commentata su gran parte della stampa principalmente sotto il profilo dell’aumento di quello che viene giornalisticamente chiamato “il tasso di disoccupazione”, un indice che invece rappresenta il rapporto tra coloro che cercano lavoro senza trovarlo e la forza lavoro. A sua volta, la forza lavoro stima coloro i quali vogliono e possono lavoro sul totale di coloro in età da lavoro (convenzionalmente 15-64 anni). E’ un’ottica errata poiché il dato più significativo riguarda il numero degli occupati.
Nel primo trimestre 2008 il numero di occupati è risultato pari a 23.170.000 unità, con un aumento su base annua dell’1,4 per cento (+324.000 unità). Un rilevante contributo è stato ancora fornito dagli occupati stranieri a tempo indeterminato (+141.000 unità) e dalla permanenza nell’occupazione degli italiani con almeno 50 anni di età (+157.000 unità). In termini destagionalizzati e in confronto al quarto trimestre 2007, l’occupazione nell’insieme del territorio nazionale ha registrato un lieve incremento pari allo 0,1 per cento. Altro dato rivelatore che è che il tasso d’occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è aumentato di quattro decimi di punto rispetto al primo trimestre 2007, portandosi al 58,3%. Presi insieme i due indicatori vogliono dire non solo che l’occupazione continua a crescere ma soprattutto che un numero di coloro che, scoraggiati, hanno, in passato, lasciato il mercato del lavoro, ma sono ora tornati a fare parte della forza lavoro, quindi non solo possono (sono nei limiti d’età, non sono malati, non sono disabili, non sono in prigione), ma vogliono lavorare e nelle ultime settimane precedenti l’indagine Istat hanno effettuato azioni specifiche dirette a trovare un’occupazione.
Sono indicazioni incoraggianti. Pur se il tasso d’occupazione dell’Italia (al 58,9% della popolazione in età da lavoro) è ancora inferiore alla media Ue (ormai prossima al 65%). Una serie di misure per stimolare l’incremento ulteriore e dell’occupazione in termini assoluti e del tasso d’occupazione sono nel decreto legge e disegno di legge approvati la settimana scorsa e che costituiscono la prima fase dal programma triennale di politica economica. Tuttavia poco si potrà fare se non affrontiamo il nodo della bassa partecipazione delle donne alla forza lavoro, soprattutto nel Sud e nelle Isole.
Lo conferma un’analisi condotta congiuntamente da università britanniche, spagnole e svedesi in base di dati empirici di sette Paesi dell’Ue. Secondo lo studio, stanno emergendo quattro modelli distinti (quindi poco integrati) di mercati del lavoro nell’Ue; la loro variabile principale non è (come si riteneva negli Anni Novanta) il grado d’intervento pubblico nella regolazione del mercato del lavoro ma il valore che si dà al “tempo” disponibile per la famiglia ed alle pertinenti politiche economiche e sociali. Le differenziazioni più marcate riguardano il genere. Nei Paesi nordici, viene dato lo stesso valore al tempo degli uomini e delle donne; lo “universal breadwinner model” che ne risulta comporta alta partecipazione tanto di uomini quanto di donne nel mercato del lavoro, ampia diffusione del tempo parziale e di altre forme di flessibilità e tassi di occupazione elevati per ambedue i generi nel corso della loro vita attiva. Un modello differente è quello francese (viene chiamato il “modified breadwinner model”) dove le donne o lasciano il mercato del lavoro per dedicarsi alla famiglia (e tentano a volte di rientrarvi più tardi con vario grado di successo) o restano in rapporti di lavoro a tempo pieno per tutta la loro vita professionale. Ancora più marcata la differenziazione nei Paesi mediterranei (i due studiati sono Italia e Spagna): vi prevale un modello “aut aut”- “esci” o “resta a tempo pieno”, in cui la partecipazione femminile al mercato del lavoro è relativamente bassa ma le donne che trovano un’occupazione la mantengono a tempo pieno. Il quarto modello esaminato è quello del “maternal part-time work” prevenante in Germania, in Gran Bretagna e nei Paesi Bassi: la maternità è associata ad una riduzione della partecipazione nella forza lavoro meno marcata che in Francia e nei Paesi mediterranei, ma anche ad una forte diffusione del lavoro a tempo parziale in cui le donne restano anche quando i figli sono grandi. L’analisi conclude che il modello nordico è quello che produce la meno pronunciata differenza di genere nell’allocazione del tempo all’occupazione ed il miglior invecchiamento “attivo” dei lavoratori anziani. E’ il frutto di politiche coerenti di gestione del tempo e del reddito non di misure frammentarie ed a macchia di leopardo che caratterizzano gli altri modelli.
Ci sono, senza dubbio, elementi socio culturali di lungo periodo. Possiamo, però, pensare di incidere su queste determinanti senza una politica della famiglia ben articolata? Man mano che il programma triennale si articola è su questa politica che occorre puntare per avere anche in Italia un mercato del lavoro europeo.

lunedì 23 giugno 2008

IL PRESTIGIO DI ROMA E' QUESTIONE NAZIONALE, Il Tempo 23 giugno

Il primo passo è stato fatto: un anticipo (non una sovvenzione) di 500 milioni d’euro per le prime esigenze (quali evitare il fallimento di Ama e Trambus) e la nomina del Sindaco Gianni Alemanno a Commissario per condurre una ricognizione del debito capitolino e presentare un piano di rientro. L’anticipo ha fatto arricciare le sopracciglia a certi editorialisti ed anche ad alcune parti politiche. Probabilmente non hanno valutato quale sarebbe stato il costo al sistema Italia (e, quindi, anche e soprattutto al Nord) di un eventuale “insolvenza” della capitale. Analisi econometriche Usa in occasione di alcuni maxi-scandali finanziari (e conseguenti fallimenti) concludono che in termini di perdita di reputazione, il danno è pari ad almeno 16 volte la cifra attribuita dalla magistratura come risarcimento. Questa stima rivela che il tracollo di Roma avrebbe trascinato con se il Nord così come negli Anni Ottanta quello (paventato) d’Istanbul avrebbe colpito l’intera Turchia e negli Anni Settanta quello (evitato per un pelo) di New York avrebbe inflitto un colpo durissimo all’intera comunitaria internazionale.
Su Il Tempo del 16 giugno abbiamo ricordato come il salvataggio di New York sia stato fatto dalla Municipal Assitance Corporation inventata da Felix Rohatyn. Quello d’Istanbul è stato in gran misura frutto della mente di Neçat Erder, economista prima all’Ocse e poi alla Banca Mondiale. La strategia è stata analoga: l’intervento (essenziale ma non sufficiente) del Governo centrale, ed un programma d’austerità delle spese municipali, come molla per indurre la finanza e l’industria privata in compra-vendita del debito municipale sul mercato secondario e di titolarizzazioni al fine di alleggerire il fardello sulla finanza comunale. New York degli Anni Settanta era l’hub della finanza internazionale; quindi, furono le forze della città ad attivarsi. Per Istanbul, si mosse tutta la Turchia (l’industria è localizzata quasi interamente in Anatolia). Ancora una volta non è né carità né assistenza: la finanza, il commercio e l’industria di tutta Italia hanno esigenza di una capitale con un elevato grado di reputazione finanziaria. Così come l’oro di Roma appartiene tutta la Nazione, tutti gli italiani si devono fare carico di sostenere il Sindaco nel ripianare lustri di gestione irresponsabile. Le forze dell’industria, del commercio e della finanza di Roma devono essere le protagoniste. Date le cifre risultanti dalle analisi condotte dalla Ragioneria Generale dello Stato (e rese pubbliche il 20 giugno), sembra evidente che debbano essere affiancate da quelle del resto d’Italia. Non sarebbe la prima volta: nell’ultimo scorcio degli Anni Novanta sono stato coinvolto in prima persona nella rinegoziazione del debito della Regione Siciliana (per conto della Regione medesima); non fu difficile trovare un accordo con un grande istituto finanziario del Centro-Nord. Non per altruismo. Ma ragione degli interessi comuni in gioco.

domenica 22 giugno 2008

ANCORA PRESTO PER UNA MANOVRA SALVABORSE , Libero 21 giugno

In che misura la manovra di finanza pubblica appena varata dal Consiglio dei Ministri può incidere sulle turbolenze che da alcuni mesi turbano Piazza degli Affari (ed in 12 mesi hanno portato ad una contrazione del 20% circa il principale indice italiano di borsa)? E’ una domanda che si pongono molti. Tentare di dare una risposta vuol dire guardare non tanto alle reazioni immediate delle 48 ore successive il varo delle misure da parte del Cdm ma al medio periodo e tenere conto di vincoli generali.
Il primo di tali vincoli è che il nostro è un piccolo mercato ormai in gran misura integrato in quello europeo ed in via di rapida integrazione in quello atlantico (ove non mondiale). Le minacce di una recessione Usa (si guardi ad una recente analisi di Martin Feldstein presentata la settimana scorsa al Reuters Investment Outlook Summit a New York) incidono sui mercati molto, ma molto di più, delle promesse della manovra italiana di finanza pubblica. Ancora maggiore l’incidenza dell’ondata di scandali che travaglia la maggiore piazza finanziaria mondiale, Wall Street.
Una caratteristica poco notata, in ogni caso, è che i mercati azionari europei sono diventati molto più “volatili” da quando esiste l’area dell’euro. Arriva a questa conclusione uno studio pubblicato nel fascicolo di giugno del periodico “European Financial Management” in base di un’analisi empirica dell’andamento di 3515 titoli nei 12 mercati dei Paesi del gruppo di testa dell’unione monetaria nel periodo 1974-2004 (tale da non coprire quindi le turbolenze dell’ultimo anno e mezzo). E’ una “volatilità”, poi, differente da quella sul mercato Usa poiché tende a reagire positivamente e con forte rapidità a “news” (comunicati stampa, informazioni giornalistiche e televisive) anche in periodi di bassi rendimenti. Il messaggio dell’analisi econometrica è chiaro: non farsi prendere dall’entusiasmo se si stappano bottiglie di champagne (o di prosecco a Piazza Affari all’annuncio di un anticipo della finanziaria e di contenuti tali da indicare che la manovra è ispirata a serietà). Ove ciò non avvenga, inoltre, non demonizziamo le innovazioni ed i derivati: un bel saggio di Ernst Juerg Weber ci ricorda che i titoli strutturati di oggi hanno i loro antenati non nel mercato finanziario olandese nel Seicento (come racconta la pubblicistica) ma in una vasta finanziaria integrata che ai tempi dell’Impero romano si estendeva dalla Mesopotamia all’Egitto ellenistico ed erano basati su “futures” anche piuttosto complessi. E’ roba, dunque, antica: è unicamente responsabilità nostra (e del resto della comunità internazionale) se non siamo stati in grado di frenare (con un’attenta opera di regolazione e vigilanza) alcuni eccessi – quali quelli del “subprime”.
Ci sono, poi, alcune peculiarità finanziarie del nostro mercato. Un lavoro delle Università e di Siena nell’”International Journal of Modern Physics” – un periodico fortemente matematico ma che tratta anche di tematiche finanziarie ed aziendali- analizza la dinamica e la struttura delle principali società italiane quotate utilizzando strumenti affini a quelli impiegati nelle scienze naturali (quali il Minimal Spannino Tree MST, e lo Hierarchical Tree (HT). L’esito è l’individuazione di “clusters” ossia di gruppi d’unità simili o vicine tra loro, dal punto di vista della posizione o della composizione. Gli operatori ne tengono (più o meno consapevolmente) conto nella costruzione dei portafogli, accentuando la “volatilità” (quando le news portano ad entusiasmi) a cui abbiamo accennato.
Ciò spiega anche perché, nonostante la vulgata, i fondi azionari italiani (a cui spesso alcuni quotidiani fanno cassa da risonanza) non “battono i loro competitori consistentemente” Un’analisi dell’Università Cà Foscari di Venezia (University Ca' Foscari of Venice, Dept. of Economics Research Paper Series No. 12_08) smentisce con una ricchezza di dati questa ipotesi che pare basarsi unicamente su analisi a breve periodo (con intervalli di quattro mesi, non di 12). In Italia come nel resto del mondo i fondi azionari non generalisti – ossia che pongono l’accento soltanto su alcuni comparti di cui acquisiscono profonda conoscenza – fanno meglio degli altri.
A che conclusioni giungere? In primo luogo, non farsi prendere da facili entusiasmi di un mercato “volatile” (all’insù) ed a “clusters” e, tutto sommato, modesto nel conteso internazionale. In secondo luogo, si potranno afferrare meglio le tendenze e tracciare le prospettive quando la manovra avrà superato parte dell’iter parlamentare.

venerdì 20 giugno 2008

ALITALIA : E' LEGGE IL DECRETO SUL PRESTITO PONTE MA I PROBLEMI RESTANO

Il Senato ha convertito in legge il complicato provvedimento mirato a dare ossigeno ad Alitalia ed il tempo al coraggioso Bruno Ermolli per cercare di mettere insieme una cordata finanziaria ed industriale che rilevi la compagnia. In un primo momento con decreto legge del 22 aprile 2008, il Governo aveva concesso alla società di aviazione civile un prestito di 300 milioni di euro. Con un secondo, il 27 maggio hanno dato ad Alitalia la facoltà di imputare l’importo del prestito in conto capitale. In parallelo, come da copione, l’11 giugno la Commissione Europea ha iniziato un’indagine formale per appurare se il prestito (e la facoltà di trasformarlo in apporto in conto capitale) rappresentino un “aiuto di Stato” contrario alle regole dell’Ue in materia di concorrenza. Le principale compagnie (non solo europee) si sono rivolte alle autorità di Bruxelles e di Lussemburgo sostenendo che l’intervento è una sovvenzione discorsiva del mercato.
Il presidente dell'Enac, Vito Riggio, nel contempo, ha convocato una riunione con il presidente dell'Alitalia, Aristide Police, ed i vertici della compagnia aerea ''per un aggiornamento sulle condizioni economiche e finanziarie del vettore e sui programmi per la gestione dell'incremento di traffico durante la stagione estiva''. Prestito/contributo o meno, è a rischio una modifica della licenza che limiterebbe i voli alle prenotazioni già effettuate. Alla Magliana si è visibilmente preoccupati poiché i dati sulle prenotazioni confermano il crollo a picco già rilevato nell’ultimo quadrimestre.
Nei commenti giornalistici a questa nuova ondata di notizie, si tende a sovrapporre l’aspetto giuridico con quello industriale. Per giungere ad una valutazione ponderata è essenziale, invece, tenerli distinti. Sugli aspetti giuridici, molto calzante il parere di Pietro Maria Paolucci, Direttore dell’osservatorio per le strategie europee sulla crescita e l'occupazione, un dirigente della Presidenza del Consiglio sempre particolarmente attento ai problemi sociali . “Ci si dovrebbe chiedere: può Alitalia essere considerata realtà imprenditoriale, caratterizzata dal riconoscimento di diritti speciali o esclusivi, ovvero dall’affidamento della gestione di servizi d’interesse economico generale, in capo a singole imprese, le quali in un contesto caratterizzato da diversi gradi di liberalizzazione del mercato, potrebbero esercitare ulteriori attività in regime di concorrenza? Se la risposta è affermativa ci sarebbe l’esigenza di disporre di informazioni dettagliate sulla struttura finanziaria ed organizzativa interna delle imprese stesse, con particolare riguardo ai dati contabili afferenti alle diverse attività esercitate, con scritture contabili distinte per le diverse attività che consentano di individuare costi e ricavi afferenti a ciascuna di esse, con la specificazione dei metodi di imputazione e di ripartizione adottati. Nei circa venti anni d’applicazione della precedente direttiva del 1980 (80/723/CEE), - ci ricorda Paolucci - risulta che la Commissione europea quasi mai abbia avanzato richieste assimilabili a quelle previste dall’art. 5 riguardo alla “documentazione delle assegnazioni di risorse”, ragione per cui si è ritenuto che prevedere uno strumento stabile di stoccaggio di informazioni rilevanti su dati “delicati” (erogazioni finanziarie alle imprese pubbliche) poteva essere considerato come uno strumento di “appesantimento” o, peggio, di controllo sull’attività di altri soggetti istituzionali”. In breve, non si pregiudica od anticipa un verdetto negativo della Commissione Europea (sul prestito/contributo) ma si mette in evidenza come, sotto il profilo giuridica, un esito positivo rappresenterebbe un’anomalia rispetto ad una prassi consolidata in materia di diramazione di informazione atte a distinguere le componenti , per così dire, “puramente di mercato” da quelli “di interesse pubblico”. Il nodo giuridico, quindi, c’è. Non è una questione di lana caprina ma un ostacolo effettivo.
Anche ove si superasse ci sarebbe quello economico-finanziario. Su L’Occidentale del 16 giugno abbiamo esaminato quali sono le condizioni delle valorizzazioni azionarie delle compagnie aree utilizzando indicatori mondiali e casi specifici. La nostra analisi ha preceduto d’alcuni giorni quella dell’Amministratore Delegato di AIATA, Giovanni Bisignani , a lungo alla guida di Alitalia. A suo parere, “l’unica soluzione per salvare Alitalia in questo momento 'e' quella dell'amministrazione controllata. Serve al piu' presto un commissario straordinario -ha detto a margine di un convegno a Bruxelles- che tagli il piu' possibile per rendere piu' sostenibile una situazione finanziaria drammatica, anche a causa del gasolio sempre piu' caro'”. Ha aggiunto che “rispetto ad uno, due mesi fa la situazione nel settore aereo e' notevolmente peggiorata, e si e' fatta drammatica soprattutto a causa del caro-gasolio, con molte compagnie che rischiano di fermarsi”'. “Con una flotta aerea come quella di Alitalia, piuttosto vecchia - ha spiegato - il costo del carburante e' la principale voce di spesa. Basti pensare che in media per le compagnie del sistema IATA il gasolio rappresenta il 35-40% del totale dei costi. Ma con una flotta vecchia si va ben oltre il 50%”.
E’ da mettere in conto che l’amministrazione controllata di Alitalia (ipotesi sempre più vicina) verrà presentata dall’opposizione come un fallimento del Governo Berlusconi. Tuttavia, la barocca ed inconcludente procedura seguita dal dicembre 2006 dal Governo Prodi e i veti sindacali rispetto all’accordo con AirFrance-Klm sono il vero ultimo capitolo del mesto epilogo in corso in questi giorni.

“IL GIOCATORE” TRA LE SLOT MACHINES, Il Velino del 20 giugno

Alla Scala è in cartellone sino al 30 giugno “Il Giocatore” di Sergej Prokofiev. E’ un’opera rara che in Italia è stata presentata solamente una volta – sempre nella sala del Piermarini – una dozzina d’anni fa nel corso di una tournée del Teatro Teatro Mariinkij di San Pietroburgo in Italia. E’ una coproduzione con la Staatsoper unter Den Linden di Berlino (dove ha debuttato con grande successo in primavera ed è in cartellone nel 2009- anzi pare che verrà replicata una dozzine di sere ogni anno per i prossimi cinque anni) L’allestimento è curato dal giovane Dmitri Tscherniakov (autore pure delle scene e dei costumi). E’ contro la messa in scena che si è accanita la critica , specialmente quella di sinistra che, di norma, applaude alle attualizzazioni di opere del passato ed ai messaggi “sociali” che da esse si possono ricavare. Tscherniakov ci porta in una Roulettenburg (è questo il nome della città tedesca in cui si svolge l’opera, tratta da una novella di Dostojevkj moderna un po’ dimessa. E’ una delle tante città di provincia dell’Europa centrale dove l’attività centrale è il casinò con annesso albergo (o viceversa): si fornica, si gioca d’azzardo, ciascuno cerca di imbrogliare il proprio vicino. Non siamo – come nel libretto scritto da Prokofiev nel 1915-16 - in una stazione termale di lusso (con annesso gioco d’azzardo) simile a Marienbad od a Baden Baden, all’inizio del Novecento dove russi ricchi ed annoiati intrecciano storie di corna con la roulette.
L’albergo è dimesso; accanto ai due tavoli di roulette abbondano le slot machines; le stanze hanno appena l’essenziale. Il quadro che se ne ricava è crudo: di vacanzieri russi provenienti da un mondo in disfacimento in cui il protagonista, fondamentalmente “un bravo ragazzo” aitante pur se con qualche difetto (ama le carte e si vuole scopare la figlia del generale) finisce un vero e proprio vortice. Porta sotto le lenzuola la ragazza (mentre il generale ne fa di cotte e di crude con una Blanche del demi-monde parigino) , ma non riesce a godersela davvero perché ormai ossessionato dalla roulette e dai soldi facili. L’opera presenta una società malata (dal gioco d’azzardo in un’ipotetica stazione termale dal nome rivelatore di Roulettenburg) ed è incentrata sul principio della “disonestà vittoriosa”- chi bara accalappia il successo. L’opposto della morale del realismo socialista. Quanto Prokofiev ne scrisse il libretto e ne compose la musica era la Russia pre-rivoluzionaria (ma fu la rivoluzione bolscevica a bloccarne la prima, nonostante che fosse stata inserita in cartellone e ne fossero state fatte numerose prove). Prokofiev lo sappiamo – emigrò negli Usa ed in Francia; l’opera venne messa in scena a Bruxelles (in francese) nel 1929. Da allora le riprese sono state rare, anche in quanto il lavoro richiede una trentina di solisti (molti dei quali in più ruoli).
La regia di Tscherniakov mostra che poco o nulla è cambiato: la Russia post-sovietica è unicamente più provinciale e più pacchiana di quella d’antan , ma ancora una volta (come in quella sovietica) premia la disonestà. E’ un messaggio attualissimo (ed in linea con la direzione musicale di Daniel Barenboim e l’ottimo ensemble della Staatsoper. Ma a sinistra queste verità non piacciono.

NOTE PER L’ANNO DI PUCCINI, L’ULTIMO DEI COMPOSITORI ITALIANI INTERNAZIONALI, Il Foglio del 20 giugno

Il 2008 è, per tutto il mondo che ruota attorno all’opera lirica, “l’anno pucciniano” poiché ricorrono i 150 anni dalla nascita del compositore (il 22 dicembre 1858 a Lucca). Non si è travolti da una vera e propria valanga d’esecuzioni – come avvenne nel 2006 in occasione dell’”anno mozartiano”. Sei dei dieci lavori di Puccini per il teatro sono o di “repertorio” o nei cartelloni abituali dei teatri. Altri due (“Il Trittico” e “La Rondine”) compaiono con una certa frequenza, pur se non con l’assiduità di “Manon Lescaut, “La Bohème”, “Tosca” , “Madama Butterfly”, “Fanciulla del West” e “Turandot”). Di rara rappresentazione scenica soltanto le due opere giovanili: “Le Villi” e “Edgard”. In un’epoca in cui il cinematografo stava soppiantando l’opera lirica come spettacolo di massa, Puccini fu l’ultimo compositore italiano ad essere un vero autore internazionale. Tra l’altro, molti compositori americani oggi di successo si riallacciano direttamente a Puccini tanto nella scrittura orchestrale e vocale quanto nella drammaturgia.
Il 15 giugno, l’inaugurazione del nuovo Parco della Musica Puccini a Torre del Lago – una superficie totale di 6600 mq, una cavea all’aperto di 3370 posti, uno spazio scenico di 660 mq, una buca d’orchestra di 190 mq, un foyer coperto di 1200 mq ed un auditorium, anch’esso coperto di 495 posti, ad un costo di 17 milioni di euro coperto da enti locali e fondazioni private- è stata un’occasione per riflettere sulle “inquietudini moderniste” del compositore. E’ questo il titolo del concerto inaugurale dell’orchestra e del coro del Teatro alla Scala, replicato a Roma il 18 giugno nella Sala Santa Cecilia della capitale con leggere modifiche dovute all’indisposizione di uno dei solisti.
Nella prima metà del Novecento, Puccini guardava verso nuove frontiere. Non era l’unico a farlo: Casella, Dallapiccola, Malipiero ed altri lo facevano quanto e più di lui ma, da un lato, non hanno avuto una fama internazionale analoga alla sua e, dall’altro, su di essi grava ancora la “damnatio memoriae” poiché coetanei con il Ventennio (mentre pochi ricordano dell’iscrizione del lucchese al PNF sin dalla prima ora e dei progetti da lui presentati a Mussolini e respinti per la difficoltà di dare ad essi una copertura finanziaria). Puccini era anche un figlio della seconda metà dell’Ottocento e del modo di fare musica e teatro in musica in quel periodo.
Il concerto diretto da Chailly a Torre del Lago ed a Roma coglie efficacemente queste “inquietudini moderniste”. La versione del 1892 del preludio di “Edgar” mostra come il nostro rivaleggiasse con Verdi (più che lanciarsi verso nuovi orizzonti). La fine del primo atto di “La Bohème” e l’intermezzo di “Manon Lescaut” svelano invece come lavorasse su sentieri simili a quelli su cui si sarebbe mosso Janaceck. Il finale di “Suor Angelica” anticipa la dodecafonia. Quello di “Turandot”, nella versione originaria messa a punto da Franco Alfano sugli appunti del maestro (non in quella corrente manipolata da Arturo Toscani), assorbe la lezione di Debussy e prefigura quella di Richard Strass. All’appello delle “inquietudini” manca il brano che forse desta più interrogativi: il finale de “La Rondine”, drasticamente non melodrammatico nonostante esprimesse una situazione tipica del melodramma.
C’è una lacuna di rilievo, non tanto nel programma del concerto quanto nelle “inquietudini moderniste” da scavare in occasione del 150nario: una messa in scena della prima edizione di “Madama Butterffly” (quella che crollò alla Scala nel 1904 – di solito si rappresenta la quarta edizione , riveduta per l’Opèra di Parigi nel 1906) con un Pinkerton apertamente razzista, una Cio-Cio-San, piccola (ma generosa) prostituta che rifiuta il denaro offertole dall’americano, nonché la suddivisione dell’opera in due soli atti. Un’edizione critica, a cura di Julian Smith, è stata allestita (nel 2000) dalla Welsh National Opera e da allora appare frequentemente nei teatri stranieri, ma solo di tanto in tanto in quelli italiani. E’ una versione inquietante che meglio di quella rappresentata correntemente esprime le inquietudini moderniste di Puccini.
Julian Budden, uno dei maggiori studiosi pucciniani , scrive che “con “Turandot” la tradizione dell’opera italiana, che durava più di tre secoli, giunse alla sua conclusione”. Puccini ne era drammaticamente consapevole; restò sconvolto all’ascolto, ad un’esecuzione privata, dell’abbozzo di “Die Tode Stadt” (“La città morta”) del ventunenne Erich Korngold , opera da qualche anno tornata in cartellone con successo a Vienna, Madrid, Barcellona, Salisburgo, Ginevra ed altrove. Ormai anziano e malato, comprese che le sue “inquietudini moderniste” erano destinate a rimanere tali. Ossia incomplete e non attuate.

giovedì 19 giugno 2008

IL GIOCATORE VINCE TUTTO Milano Finanza 20 giugno

Sergej Prokofiev aveva poco più di vent’anni, quando, nel 1915-16, scrisse il libretto de “Il giocatore” ispirandosi ad un racconto di Dostojevkj, e compose la musica dei rapidi quattro atti affollati da una quarantina di personaggi. La musica rispecchia il periodo dadaista e futurista dell’autore il quale, affascinato dal cinema, voleva riproporre i ritmi incalzanti del “muto”. L’opera presenta una società malata (dal gioco d’azzardo in un’ipotetica stazione termale dal nome emblematico di Roulettenburg) ed è incentrata sul principio della “disonestà vittoriosa”- chi bara accalappia il successo. L’opposto della morale del realismo socialista. Prokofiev, “figlio geniale ma capriccioso” della Russia (la definizione è del musicologo Tommaso Manera), ebbe con il regime autoritario un rapporto complicato: lasciò la Patria all’inizio di una “rivoluzione proletaria” per lui “problematica”, ma vi ritornò mentre stava cominciando il terrore stalinista. Nel 1917 l’opera era stata inclusa nel cartellone del maggior teatro di San Pietroburgo, ma venne accantonata nonostante fossero state fatte numerose prove. La “prima” mondiale ebbe luogo nel 1929 a Bruxelles (ed in una versione francese curata da Prokofiev in persona). Da allora le riprese sono state rare, anche in quanto il lavoro richiede una trentina di solisti (molti dei quali in più ruoli).
L’edizione coprodotta dalla Scala (dove è in scena sino al 30 giugno) con la Staatsoper di Berlino (dove ha debuttato in primavera ed è in programma anche nel 2009) ci porta in una Roulettenburg moderna un po’ dimessa, dove si propone l’apologo amaro di un mondo in cui ciascuno cerca di imbrogliare il proprio vicino. L’allestimento è curato dal giovane Dmitri Tscherniakov (autore pure delle scene e dei costumi). I più tradizionalisti alzano le sopracciglia poiché si aspettano una stazione termale di lusso (con annesso gioco d’azzardo) simile a Marienbad od a Baden Baden, nonché un’ambientazione inizio Novecento. La messa in scena è, però, in piena armonia con la direzione musicale di Daniel Barenboim che dilata i tempi cesella la partitura e dà spazio a singoli gruppi di orchestrali (i fiati, gli strumenti a corda) al fine di dare rilievo non tanto ad una raffigurazione grottesca della società (come nell’edizione di Valery Gergev vista 12 anni fa in occasione di una tournée del Teatro Mariinkij in Italia) quanto al progressivo degrado di un “bravo ragazzo” (il protagonista Aleksej) in un mondo in disfacimento. Si perde in tempi “futuristici”: la durata complessiva è circa 140 minuti rispetto ai 115-121 delle versioni discografiche correnti. Ma il messaggio dell’apologo risulta attualissimo. Si avvertono, inoltre, interessanti anticipazioni di quella che sarebbe stato il teatro in musica dell’ Europa Centrale degli Anni Trenta.
Alla “prima”, gran parte del pubblico della Scala ha risposto con entusiasmo a tale lettura . Al successo ha senza dubbio contribuito la squadra di cantanti attori – in gran misura russi e tedeschi, ma anche molti italiani tra i caratteristi. Ciò mostra il vantaggio di disporre di un organico fisso ed affiatato (come avviene alla Staatsoper e negli altri teatri “di repertorio”). Tra tutti spicca Misha Didyk, il protagonista, un tenore generoso il cui ruolo è particolarmente difficile non solo per la continua presenza in scena ma pure in quanto la vocalità è imperniata quasi costantemente sul registro di centro.

mercoledì 18 giugno 2008

LO SCUDO DELL'ANALISI ECONOMICA CONTRO LE BOMBE ED I KAMIKAZE , Amministrazione Civile n. 2/2008

Da anni, il nesso tra terrorismo ed economia è, prepotentemente, alla ribalta. Da un lato, in Italia, e nel resto d’Europa, l’allarme terrorismo è elevato: si paventano attacchi a siti storici, a reti di trasporto, ad autostrade dell’informazione ed ad altri possibili obiettivi di gruppi che intendano coniugare stragi con alto contenuto mediatico, come peraltro annunciato in televisioni arabe da dirigenti di Al Quayda all’inizio di aprile. Da un altro, ogni giorno i giornali e le televisioni sono pieni di notizie su attentati terroristici in Medio Oriente, in particolare in Iraq, nonché di minacce ai Paesi europei impegnati nell’operazione, sanzionata dalle Nazioni Unite, di aiutare il tormentato Paese a traghettare verso la democrazia e verso la convivenza tra differenti gruppi etnici e religiosi. Da un altro ancora, proprio mentre sembrava, che si fosse computato e scritto tutto sui costi diretti ed indiretti dell’attentato alle Torri Gemelle, un’analisi, curata da Bertrand Maillet e Thierry Michel della Università Panthéon Sorbonne , e pubblicata sul numero di agosto 2005 della “Review of International Economics”, ha concluso che pure in termini meramente economico-finanziari (e senza tenere conto delle perdite di vite umane) si è trattato del danno maggiore accusato dalla comunità internazionale dalla crisi delle borse del 1987 e del terzo più grave dei nove più grandi incidenti censiti nei libri di storia dell’economia e della finanza. Maillet e Michel utilizzano un indicatore statistico innovativo (analogo alla scala Richter per misurare il grado dei terremoti). Il computo è stato fatto da accademici francesi, di rigorosa formazione matematica, che non possono certo essere tacciati di lavorare per l’Amministrazione americana della Presidenza di George W. Bush o di simpatizzare per la politica seguita dalla Casa Bianca in questi anni.
Un lavoro ancora più recente “A law and economics perspective on terrorism" di Nuno Garoupa (Università di Lisbona) , Jonathan Klick (Florida State University College of Law) e Francesco Parisi (George Mason University School of Law) edito dalla George Mason University – traccia un bilancio di quanto realizzato dall’ “economia del terrorismo” (un raggruppamento disciplinare riconosciuto in molte università americane ed europee ma ancora poco seguito in Italia) negli ultimi 30 anni in termini di comprensione dell’andamento dell’economia di un Paese e di strumenti per contrastare il fenomeno del terrorismo. E’ noto che il fenomeno aumenta l’avversione al rischio, comprime sia i consumi sia gli investimenti ed incanala il risparmio verso attività a basso rendimento; tutto ciò ha l’effetto di ridurre di circa un terzo la crescita reale rispetto a quella potenziale. Questa è una spiegazione del rallentamento dell’economia europea dall’inizio del decennio poiché nel Vecchio Continente non si è risposto all’attacco dell’11 settembre (ed ai grandi attentati di Madrid e Londra) con lo scatto di vitalità che ha caratterizzato la reazione americana. L’Europa – sostiene un saggio Antje Wiener nel numero di gennaio 2008 del “Journal of Common Market Studies” – è molto meno attrezzata soprattutto concettualmente alla lotta al terrorismo ed all’utilizzazione, a questo fine, dell’analisi economica. Il contributo di Garoupa, Klick e Parisi è particolarmente utile, sotto il profilo operativo: mette in discussione alcune ipotesi di base della letteratura dell’ultimo trentennio – principalmente quella secondo cui il terrorista sarebbe, dal punto di vista economico, “un agente razionale” – , esamina i dettagli delle normative anti-terrorismo varate negli ultimi anni, sottolinea in che misura tali dettagli tengano conto dei paradigmi dell’”economia della criminalità” (disciplina molto più antica dell’”economia del terrorismo” ed a cui circa venti anni fa la Società Italiana degli Economisti ha dedicato un Congresso Scientifico) e propone un meccanismo economico per far sì che il terrorista (o chi è a conoscenza di terroristi) venga “incentivato” a collaborare con le autorità.
Interessante vedere come avendo a propria disposizione dati realmente unici (le biografie dei terroristi-suicidi palestinesi), un economista di Harvard ed uno della Rand Corporation siano giunti – in un lavoro recente. lo NBER Working Paper No. W12910 – a conclusioni in parte analoghe a quelle di Garoupa, Klick e Parisi: seguendo principi rigorosi di selezione economica (quali quelli della selezione del personale o delle scelte di mercato) i terroristi più maturi e più istruiti vengono scelti per le missioni suicide più che fanno più danni all’infrastruttura (ossia al capitale fisico) e causano più perdite di vite (ossia di capitale umano) anche tra i civili.
In effetti, l’”economia del terrorismo” esplora, soprattutto, come la cassetta degli attrezzi può servire a combattere il fenomeno. Si distingue nettamente dalla “finanza del terrorismo” che analizza sia quali sono le fonti d’approvvigionamento finanziario del terrorismo sia quali le implicazioni d’episodi di terrorismo sui mercati finanziari quali le Borse; interessante notare a riguardo che un’analisi quantitativa recentissima dell’Università di Zurigo basata su una rassegna di episodi di terrorismo in 11 Stati nell’arco di 25 anni, conclude che gli impatti sui mercati finanziari anche di attentati con grande richiamo mediatico, sono, tutto sommato, trascurabili. Ancora una volta, l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è, per le sue conseguenze anche solamente finanziarie quali quelle riassunte in apertura di questa nota, un’eccezione rispetto ai numerosi episodi trattati nello studio.
In una prima fase, l’”economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto il suo centro all’Università di Chicago dove è di casa l’assunto che milioni di teste ragionano meglio di una sola e che il mercato (reale o virtuale) è il veicolo per farle incontrare e trarre da esse il meglio. Grazie ai lavori del centro sull’”economia del terrorismo” di Chicago è stato, ad esempio, possibile simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai entrati nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da 30 a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno pure sviscerato l’”effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: posto un argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventato il cenacolo Usa più importante di studi di “economia del terrorismo”; la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie ad elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico e comunicativo. Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio od a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi- strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti, analoghi a quelli analizzati nella teoria economica dell’informazione e della comunicazione.
Può interessare notare che in Italia l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi tre lustri, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre dal 2000 circa si tengono presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA) corsi e percorsi formativi d’economia dell’informazione e comunicazione con enfasi su tematiche quali il mercato del lavoro, la previdenza, il processo di formazione del bilancio dello Stato, i beni e le attività culturali di immediato interesse per dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni. In un Master in Economia dell’Informazione, tenuto nel 2003-2004, una sessione è stata dedicata all’”economia del terrorismo”. La SSPA ha anche pubblicato due volumi su questi argomenti- uno è il frutto di una conferenza internazionale tenuta presso la Reggia di Caserta in collaborazione con la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite. Altre Scuole Superiori potrebbero considerare corsi e percorsi formativi specialistici su questi temi, anche in collaborazione con il Nato Defense College a Roma e con lo Staff College delle Nazioni Unite a Torino..
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’”economia della felicità” ed in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche (come l’opera lirica). Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal della Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino. Le analisi più immediate, e di più immediato effetto, sono rivolte alla strumentazione economica per disinnescare la rete finanziaria del terrorismo. Circa cinque anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica, ha documentato che almeno tre miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal Governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi ed una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam ed i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (Brs) a Basilea ed in istituti di credito giapponesi. Di questi 2.45 miliardi di dollari, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Brs – è stato restituito al (nuovo) Governo irakeno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie – dice il rapporto - sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Irak; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli chiamati a bombetta proprio per questa ragione, nei nichilisti all’inizio del Novecento. Le briciole vanno a terrorismi “caserecci”, spesso nipoti (spirituali) delle bande terroristiche tipo quelle, niente affatto islamiche. che imperversavano in Italia ed in Germania negli Anni 70; non devono necessariamente approvvigionarsi tramite rapine in banca in quanto, nell’epoca dell’integrazione economica internazionale, si dispone di reti diffuse – da centri più o meno sociali, a certe comunità d’immigrati, od anche di figli di immigrati, a focolai dell’irredentismo islamico.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse per l’”economia del terrorismo” è proprio quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati della Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economiche: i giovani mussulmani, cresciuti negli Usa od in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto) ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà- e della democrazia e del mercato rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega – come si è accennato in precedenza- la scelta di terroristi maturi e istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti. Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano oppure considera il suicidio-eccedio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Per comprendere i risvolti della tattica occorre avere dimestichezza con la “teoria economica del suicidio”, elaborata una trentina di anni fa da Daniel Hamermesh e Neal Soos , ed aggiornarla alla luce dei contributi su opzioni reali di Avinash Dixit e Robert Pyndick. Nella decisione di diventare un kamikaze entra non solo il valore “zero” attribuito al resto della propria vita ma il valore dell’”opzione negativa”, “liability option” nel linguaggio dell’economia e della finanza, (l’eccidio) che si pone in capo ai propri nemici come strumento di guerra per frenarne i valori (quelli economici non sono mai distinti da quelle culturali ed etici). I nemici si distinguono dagli avversari perché sui secondi si mira alla vittoria, mentre dei primi si cerca la distruzione ed eliminazione fisica.
Quali alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrosismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey della Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal della Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria;: negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa-(l’agenzia delle entrate) Usa ed il Comptroller of Currency (una direzione generale di del Ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna. In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione abbassando l’attenzione dei media ed aumentando, al tempo stesso, il costo opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey , il decentramento politico ed amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuole dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire anche poiché, per ragioni non economiche, “combattere il terrorismo a tutti i costi” è un obiettivo importante per tenere alto il morale. I leader del terrorismo si oppongono ad una strategia negoziale , e che offra alternative, proprio per le stesse ragioni: mantenere le loro truppe unite ed in continua tensione. Lo conferma un’analisi di Eli Berman (della scuola californiana di Todd Sandler) nella monografia “"Hamas, Taliban and the Jewish underground: an economist's view of radical religious militias" (“Hamas, i talebani, le milizie ebree sottotraccia: il punto di vista di un economista sul terrorismo radicale religioso”). Modelli economici basati sulle teorie delle scelte razionali spiegano che atti di violenza gratuita distruggono opzioni alternative e rafforzano la lealtà di gruppo.
Aumentare gli aiuti a Paesi dove c’è terreno fertile per il terrorismo al fine di fare sì che gli aratri rimpiazzano le bombe? E’ la speranza di tante anime belle e della cooperazione allo sviluppo. Un’analisi di Michael Mandler e Michael Spagat (ambedue dell’Università di Londra) pubblicata dal Centre for Economic Policy Research (“Foreign aid designed to diminish terrorist atrocities can increase them") dimostra, sulla base di teoria economica ed evidenza empirica, che si tratta di un’ipotesi errata: gli aiuti affinano le spade dei terroristi, dentro e fuori i confini nazionali.




Per approfondire il tema tramite di lavori recenti e di facile reperimento in telematica:

Benmelech E., Bellebi C. “Attack Assignments in Terror Organizations and the Productivity of Suicide Bombers" NBER Working Paper No. W12910


Berrebi C., Lakdawalla D. “How Does Terrorism Risk Vary Across Space and Time? An Analysis Based on the Israeli Experience" Rand Corporation, 2007

Berman E., Laitin D. "Religion, Terrorism and Public Goods: Testing the Club
Model" NBER Working Paper No. W13725
Chesney M. , Reshetar G. "The Impact of Terrorism on Financial Markets: An Empirical Study" (in corso di pubblicazione presso l’Università di Zurigo) ; si può richiedere il manoscritto a mchesney@isb.unizh.ch oppure a reshetar@isb.uzh.ch
Keohane D. "The Absent Friend: EU Foreign Policy and Counter-Terrorism" JCMS: Journal of Common Market Studies, Vol. 46, Issue 1, pp. 125-146, January 2008
Kerjan E-M. Pedell B."How Does the Corporate World Cope With Mega-Terrorism? Puzzling Evidence from Terrorism Insurance Markets" Journal of Applied Corporate Finance, Vol. 18, No. 4, pp. 61-75, Fall 2006
Kunreeuther H., Kerian E-M. “Evaluating the Effectiveness of Terrorism Risk Financing Solutions", NBER Working Paper No. W13359
Wiener A. "European Responses to International Terrorism: Diversity Awareness as a New Capability?" in JCMS: Journal of Common Market Studies, Vol. 46, Issue 1, pp. 195-218, January 2008


Giuseppe Pennisi è professore stabile alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. E’ stato Dirigente generale presso i Ministeri del Bilancio e del Lavoro e per 15 anni funzionario e dirigente della Banca Mondiale. E’ autore di vari libri di analisi economica e collabora assiduamente a quotidiani e periodici.

LA CAPITALE IMPARI DAGLI USA Il Tempo 16 giugno

Il nodo della crisi finanziaria della capitale è un tema di rilievo e priorità nazionale, analogo a quello che negli Anni 70 si presentò a proposito di New York (quando, anche in Europa ed in Giappone si temette che un eventuale tracollo finanziario del Comune della città avrebbe messo a repentaglio l’economia Usa e la finanza internazionale). Le cause sono ormai scritte a tutto tondo nel referto della Ragioneria Generale dello Stato: tre lustri d’effimero hanno non solo ridotto al lumicino i servizi ai cittadini (dalla pavimentazione stradale al sociale) e minacciano una crisi dello smaltimento rifiuti analoga a quella della Campania, ma lasciato le casse vuote e almeno 7 miliardi di euro, nonché crediti inesigibili (in quanto basati sul “soccorso rosso” alla Regione). Il giudizio politico sulle responsabilità della situazione spetta ai romani (i quali, in gran misura, lo hanno già dato).
L’essenziale è trovare una via d’uscita di breve e di medio e lungo periodo. Nel breve periodo, è interesse, non solo dovere, dell’Italia di venire incontro alle esigenze immediate: garantire (con una dotazione straordinaria di circa 600 milioni d’euro) per evitare il “default”, ossia l’insolvenza. Il danno internazionale all’immagine ed alla finanza del Paese sarebbe enorme. In secondo luogo, sempre nel breve periodo, è essenziale che, da un lato, la legge finanziaria contenga misure strutturali (riduzione dei fondi comunali di contropartita alla Legge Obiettivo, anticipi del federalismo fiscale) e, da un altro, che Roma accetti una fase d’austerità sull’effimero, una drastica riduzione del numero di aziende partecipate ed un ricambio del loro management (non certo privo di ruolo nelle vicende finanziarie degli ultimi 15 anni). Nel medio periodo, la soluzione non sta in un approccio consociativo tipo Commissione Attali/Bassanini. Meglio dimenticare chi la propone e prendere come esempio il risanamento di New York, attuato nella seconda metà degli Anni Settanta da Felix Rohatyn , a lungo alla guida di Lazard Frères e negli Anni 90 Ambasciatore Usa in Francia ed ai vertici di Lehman Brothers.
Rohatyn creò la Municipal Assistance Corporation (Mac), una finanziaria costituita con le forze finanziarie ed imprenditoriali della città (ma anche con il supporto del Governo federale) che nell’arco di tre anni fu in grado di portare al pareggio del bilancio comunale e di cinque di tornare all’emissione d’obbligazioni comunali di alto “rating”. Gli atti della Mac sono pubblici e possono essere consultati on line anche oggi al http://newman.baruch.cuny.edu/digital/2003/amfl/index.htm. Vale la pena ricordare che un’esperta di fama internazionale come Gretchen Morgeson ha di recente proposto, sul “New York Times”, di utilizzare il metodo Rohatyn – ed un istituto internazionale modellato sulla Mac per risolvere la crisi finanziaria dei mutui subprime.
La finanza e l’imprenditoria romana hanno la capacità di non essere secondi a nessuno. E di mostrare di essere in grado di sostenere il Sindaco nel risanamento della capitale.

CENSURE LIRICHE Il Foglio del 13 giugno

Nell’arco delle prossime due settimane (alla Scala ed al Maggio Musicale Fiorentino) si possono ascoltare due opere russe che irritarono Stalin (tanto da metterne al bando una ed impedire la rappresentazione dell’altra). Pare non siano mai piaciute a Walter Veltroni. La prima è la nuova produzione, in coproduzione con la Staatsoper di Berlino, de “Il giocatore” di Sergej Prokofiev (alla Scala del 16 al 30 giugno ; la seconda è la ripresa de “La Lady Macbeth del distretto di Mzensk” di Dmitri Šostakovič (dal 23 al 26 giugno) in un allestimento di Lev Dodin che dieci anni fa ottenne il “Premio Abbiati” (l’Oscar della musica lirica). Rivisto dal regista e dallo scenografo, viene presentato con un nuovo cast.
“Il giocatore” è stata composto nel 1915-16 (quando l’autore era giovanissimo). La seconda è stata concepita tra la fine degli Anni Venti e l’inizio degli Anni Trenta e, dopo la “prima” (in quella che allora era l’Urss) fu un immediato successo internazionale, ma piombò su di lei un interdetto di Stalin in persona.
Prokofiev aveva poco più di vent’anni, quando, ispirandosi ad un racconto di Dostojevkj, scrisse il libretto de “Il giocatore” e compose la musica dei rapidi quattro atti affollati da un vasto numero di personaggi. La musica velocissima: rispecchia il periodo dadaista e futurista dell’autore che, affascinato dal cinema, voleva riproporre i ritmi incalzanti del “muto”. Presenta una società malata (dal gioco d’azzardo in un’ipotetica stazione termale dal nome di Roulettenburg) ed è incentrato sul principio della “disonestà vittoriosa”- chi bara accalappia il successo. L’opposto della morale del realismo socialista. Prokofiev, “figlio geniale ma capriccioso” della Russia (la definizione è di Tommaso Manera), ebbe con il regime autoritario un rapporto complicato, lasciò la Patria all’inizio di una “rivoluzione proletaria” per lui “problematica”, ma vi ritornò (gradualmente) mentre stava cominciando il periodo peggiore del terrore staliniano, compose nel 1950 l’oratorio più celebrato dal comunismo internazionale (“Siate vigili per la Pace”), e morì quasi alla stessa ora di Stalin tanto che del suo decesso diede notizia un giornale americano quattro giorni dopo e la “Pravda” ben sei giorni più tardi.Alla Scala, l’allestimento di Dmitri Tscherniakov, con la direzione musicale di Daniel Barenboim, ci porta in una Roulettemburg moderna ed un po’ dimessa, dove, con tempi incalzanti (un solo intervallo), si ripropone l’apologo amaro di un mondo in cui ciascuno cerca di imbrogliare il vicino.
Nonostante inserita nel cartellone del Marijnkij (il teatro principale di Pietroburgo) per la stagione 1916-17 e nonostante messa in prova, la sua “prima” venne bloccata del “grande fratello”. Avvenne (in traduzione francese e con la musica rimaneggiata) nel 1929 a Bruxelles.
Dmitri Šostakovič scelse un racconto di Nicolai Leskov per “La lady Macbeth del distretto di Mensk”- una storiaccia di sesso e sangue in cui la protagonista, Katerina L’vovna, borghese di provincia mal ammogliata ed assatanata, uccide tutti gli uomini che si porta sotto le lenzuola. L’opera sarebbe dovuta essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa – ovviamente alla donna post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e politicamente. Che l’argomento fosse considerato accettabile, lo dimostra che Šostakovič ne avesse avuto contezza tramite una versione cinematografica di Cesar Savinki C’era, però, la musica:“fatta appositamente alla rovescia, in modo da non ricordare affatto la classica musica d’opera, da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il linguaggio musicale semplice e comprensibile a tutti”.
“La lady Macbeth” ebbe la prima rappresentazione il 22 gennaio 1934 al “Malyi” (il teatro più piccolo di Pietroburgo) con un esito trionfale i cui echi furono tali da giungere oltre i confini dell’Urss, tanto che – cosa insolita in quegli anni - venne ripresa anche Londra, a Praga e a Cleveland, nell’arco di meno di 18 mesi. La mattina del 28 gennaio 1936, la “Pravda” pubblicò un editoriale non firmato, ma dettato dallo stesso Stalin, ed intitolato “Caos anziché musica”: si accusava il lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora (si era nel 1936) iniziò, per il compositore non ancora trentenne, un processo di “mobbing” che durò sino alla fine degli Anni 50. Si allontanò dal teatro in musica, nonostante avesse progettato di continuare la tetralogia sulla donna e stesse studiando anche altri libretti. Si buttò nella sinfonica per grande organico. Solo dopo la morte di Stalin, ritornò, moderatamente all’innovazione: nella tredicesima sinfonia introduce la voce solista (su testi di Evtušcenko). Nel 1963 propone una nuova edizione de “La lady Macbeth”, espurgata, però,nel testo, nella partitura ed anche nel titolo (diventato “Katerina L’vovna”): è questa versione che viene conosciuta in Italia, principalmente tramite tournées dell’Opera di Zagabria, di Lubiana ed anche di Sarajevo a Napoli, Genova e nei circuiti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna tra gli Anni 60 e 70. “La lady Macbeth” del 1934 si è ascoltata soltanto nel 1947 al festival di musica contemporanea di Venezia, nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 e nel 2007 alla Scala e nel 1994 e 1998 a Firenze.

PERCHE' PER ALITALIA (E AIRONE) IL QUADRO SI COMPLICA

Con l’avvicinarsi della prima “rata” della manovra economica (dovrebbe essere varata dal Consiglio dei Ministri del 18 giugno), l’attenzione sulle vicende dell’Alitalia è uscita delle prime pagine dei giornali (e in gran misura anche dalle pagine economiche). E’ stato convertito in legge il decreto con cui si da respiro alla compagnia per un certo lasso di tempo (se si tratta di 6 o di 12 mesi è questione di lana caprina che lasciamo ai barracuda-esperti) . La Commissione Europea ha iniziato l’indagine sulla natura dell’intervento – se si tratta o meno di aiuto di stato. Come avevamo avvertito su “L’Occidentale” del 6 giugno, molte illazioni e la forte dose di allarmismo che ha caratterizzato l’inizio del mese è parsa scemare.
Ciò non vuole dire, però, che la situazione sia oggi meno critica di quanto non fosse alcune settimane fa. Lo è probabilmente più di allora non soltanto per un elemento di cui parla gran parte della stampa – l’aumento dei costi, specialmente per il carburante, a ragione dell’andamento dei corsi del petrolio e la diminuzione della domanda di trasporto aereo che caratterizza qualsiasi fase di decelerazione dell’andamento economico nei principali Paesi industriali ad economia di mercato, Usa in primo luogo. Lo è anche e soprattutto a ragione di un fenomeni che non ha sino ad ora attratto neanche l’attenzione della stampa specializzata (se non quella del comparto dell’aviazione civile): il vero e proprio tracollo, a livello mondiale, della valorizzazione azionaria delle compagnie aeree.
Abbiamo fatto quattro conti: dall’aprile 2007 ad oggi, il Dow Jones Wilshire Index – un indicatore poco noto in Italia ma che riflette l’andamento dell’azionario dell’aviazione civile a livello mondiale – ha segnato una contrazione del 40% mentre il Morgan Stanley Capital Index (World) ne ha riportata una dell’8,5%. In sintesi, in una fase in ogni caso di stanchezza sui mercati azionari mondiali (crisi subprime, preoccupazioni su una possibile recessione Usa, fallimento virtuale nel negoziato multilaterale sugli scambi, incertezze sui movimenti dei cambi), le compagnie aree hanno avuto risultati molto peggiori della media di tutti i comparti. Conrad de Aennlle si è chiesto, sul supplemento economico del “New York Times”, quali sono le strade per chi ha nel proprio portafoglio azioni di compagnie aeree: a) scappare (vendendo); b) cercare di “comportarsi da eroe”; d) restare nel comparto per cercare di identificare con grande attenzione dove collocare i propri risparmi.
Brian Nelson di Morningstar (una nota società di consulenza in materia di investimenti) suggerisce ai suoi clienti di lasciare il settore: un anno e mezzo fa Nelson aveva previsto il tracollo di US Airways (le cui azioni valevano allora, a Wall Street, $ 600 ed oggi appena $ 5). Nella sua lettera riservata agli operatori tratteggia un quadro apocalittico: il forte delle valorizzazioni sarebbe l’anti-generale di una serie di procedure fallimentari. Più possibilista Andrew Light, che segue il settore per Citigroup (molto esposta nel comparto): suggerisce di tenere azioni AirFrance-Klm e Lufthansa (nell’aspettativa di una ripresa del mercato europeo) e di puntare su Ryanair e Easyjet nella prospettiva della chiusura delle attività di altre piccole “low cost” europee nate come funghi in questi ultimi anni.
Tutto ciò ha due implicazioni molto serie per Alitalia (e per AirOne): a) da un lato, le banche sono maggiormente restie ad investire nel settore in generale; b) da un alto, gli stessi potenziali partner industriali internazionali hanno i loro problemi e mordono il freno.

ROBIN HOOD TAX: IN TEMPI DI CRISI VA CORRETTO ANCHE IL MERCATO, Libero 18 giugno

Domani, mercoledì 18 giugno, il Consiglio dei Ministri prenderà in esame l’impalcatura generale della manovra economica da attuarsi nei prossimi tre esercizi finanziari ed una serie di provvedimenti immediati per rimettere in sesto i conti pubblici. Dallo scorso dicembre (quando si profilava già il crollo del traballante Governo Prodi), Libero Mercato ha quantizzato – con l’ausilio di una strumentazione econometrica molto semplice – il “buco annunciato” in dimensioni molto vicine a quelle che il nuovo Esecutivo ha, successivamente, riscontrato. L’Italia ha reiterato l’impegno assunto nei confronti del resto dei Paesi dell’area dell’euro di giungere al pareggio di bilancio d’esercizio entro il 2011 e di cominciare a ridurre in maniera sostanziale il peso del debito pubblico sul pil. La correzione da effettuare (rispetto al “tendenziale”, ossia a cosa avverrebbe se non si intervenisse) è stimata in circa 35 miliardi su tre anni. I quesiti principali sono come scaglionarla nei tre anni e l’importanza relativa da dare all’aumento delle entrate ed alla riduzione delle spese. Secondo le indiscrezioni che circolano nei Palazzi, si cercherebbe di fare una manovra upfront , ossia incentrata sul primo anno (quando la correzione sarebbe di 13,1 miliardi). Questa sarebbe una strategia corretta anche per l’effetto psicologico che avrebbe su cittadini ed imprese, oltre che sull’estero: sarebbe, infatti, un’indicazione concreta che l’Italia è in grado di prendere decisioni difficili e di farlo all’inizio della legislatura.
Più complicato il riparto tra misure per aumentare le entrate e provvedimenti per ridurre la spesa. I due schieramenti che si sono fronteggiati prima delle elezioni si sono impegnati a ridurre la pressione fiscale e contributiva. Non a farla crescere. Quello che ha vinto lo ha fatto con maggiore energia e persuasione dell’altro. Noi di Libero Mercato abbiamo sostenuto questa strategia anche e soprattutto perché in un contesto di mercati aperti una pressione fiscale-contributiva prossima al 45% del pil ci rende non competitivi rispetto ad aree dove non supera il 30% (Usa, Canada) o non sfiora il 25% (Paesi emergenti).
Tuttavia, è difficile concepire una manovra interamente dal lato della spesa, per coraggiose che siano le proposte di Renato Brunetta diretta a ridurre i costi della burocrazia ed ambizioso che sia il processo di semplificazione guidato da Roberto Calderoli. Vorrebbe dire posporre gran parte della spesa in conto capitale (con effetti negativi di medio e lungo periodo sulla competitività del sistema Italia) e bloccare non solo nuove assunzioni nel pubblico impiego (pure in aree dove ce n’è esigenza) ma anche i rinnovi contrattuali (innescando una dura conflittualità). Significherebbe inoltre venire meno ad impegni importanti in materia di politica per la famiglia.
In questo quadro, si pone quella che è chiamata, in gergo giornalistico, la Robin Hood Tax e che molti giornalisti chiamano tassa mentre è invece un’imposta sugli utili eccezionali avuti, nell’attuale congiuntura economica, da alcuni settori – innanzitutto l’industria petrolifera ma anche, come evidenziato ( domenica 15 giugno) da Il Corriere della Sera pure altri comparti, specialmente quelli in cui la regolazione è stata lasca. Dell’imposta ancora non si conoscono né gli aspetti tecnici né il gettito che si stima di ricavarne. Su questi punti torneremo quando saranno disponibili i dati essenziali.
E’ naturale che nei confronti dell’imposta si alzi una levata di scudi da parte dei diretti interessati (i settori che dovranno pagarla). Più difficile spiegare i mal-di-pancia di quelli che chiamerei i “liberisti delle feste comandate”, liberali che passano da una crisi (intellettuale) ad un'altra e, tra una geremiade e l’altra, si ricordano unicamente degli aspetti più superficiali delle regole del mercato.
Sotto il profilo della storia economica, le imposte sugli utili eccezionali sono, di norma, introdotte in circostanze di difficoltà economiche speciali. Negli Usa, la prima è stata messa in atto nel 1863 in Georgia in occasione della guerra di secessione. Ancora, dal 1917 al 1921 è stata in vigore un’imposta federale sugli utili eccezionali (con aliquote che arrivano all’80% dei profitti aggiuntivi rispetto a quelli riportati negli anni precedenti il conflitto, ma esentavano parte dei nuovi investimenti). Misure analoghe sono state applicate, negli Usa, dal 1933 al 1935, dal 1940 al 1943 e dal 1950 al 1953. Un’imposta addizionale del 40% sugli utili delle società petrolifere stava per essere varata dal Congresso americano nell’ambito di una politica energetica volta al risparmio delle fonti non rinnovabili. Sono state formulate proposte in questa direzione sia subito dopo l’11 settembre 2001 (a supporto della guerra contro il terrorismo) sia per finanziare la guerra in Iraq. Questi cenni all’evoluzione di un’imposta federale di questa natura in un Paese tradizionalmente a tassazione relativamente bassa (rispetto all’Europa) mostrano come c’è un nesso forte con le situazioni di conflitto armato ma anche che l’imposta è stata applicata anche in momenti di gravi difficoltà (la depressione degli Anni Trenta) senza che ci fosse una guerra in atto od in potenza.
In momenti di difficoltà economiche – lo scriveva anche Hayek in “A Road to Serfdom”- le imperfezioni di mercato si acuiscono, i costi del riassetto non sono simmetrici e, quindi, la mano pubblica deve intervenire (nel modo più neutrale possibile) non solo per ragioni d’equità distributiva ma anche e soprattutto per sostenere il buon funzionamento del mercato e rendere, per tutti, meno lunga e meno pesante la transizione verso un nuovo equilibrio. Questa giustificazione analitica ha il supporto di numerosi studi empirici: l’ultimo (in ordine di tempo) è nel libro, datato maggio 2008 (ed appena giunto in Italia), in cui l’American Economic Association produce un florilegio dei migliori saggi presentati al suo ultimo Congresso Scientifico (tenuto in gennaio a New Orleans). Si tratta di un lavoro di Gilbert Metcalf sulle “tax expenditures” (deduzioni d’imposta) per raggiungere obiettivi di politica energetica. Più vicina a noi una raccolta di saggi sulla tassazione in Europa curata da Krister Anderson, Eva Eberthartinger e Lars Oxelheim. Dai testi citati si ricava che per i liberali che non sono in crisi e che non si ricordano di essere tali unicamente in occasione delle feste comandate si dovrebbe andare verso un sistema ad aliquota unica (od a due-tre aliquote al massimo), privo di detrazioni e deduzioni particolaristiche ma corredato di imposte ad hoc dirette a ridurre imperfezioni di mercato (quali quelli sugli utili eccezionali derivanti da fasi di gravi difficoltà economica).