domenica 27 maggio 2007

LUIGI NICOLAIS CONFRONTA LE REGOLE E LA CRESCITA

Luigi Nicolais crede nella competizione come strumento di crescita (anche della pubblica amministrazione). Da uomo di scienza, prima ancora che di corridoi ministeriali, ama ricordare che competere viene dal latino cum petere, ossia cercare insieme. Ha, quindi, trovato interessante il libro di Mita Marra, ricercatrice al Cnr e docente alle Università di Napoli e Salerno, “Il mercato nella pubblica amministrazione – coordinamento, valutazione, responsabilità” . E’ soprattutto un testo che induce a sperare, anche in una fase in cui tutti scuotono la testa quando si parla di riforme che sotto-intendono un miglioramento della qualità della pubblica amministrazione. Il saggio, scritto sulla base di ricerche effettuate nell’arco di alcuni anni, esamina , in chiave neo-istituzionale, le riforme della pubblica amministrazione negli ultimi venti. Dopo una parte generale sulle riforme messe in campo principalmente dopo la crisi valutaria del settembre 1992 (quali le leggi sulla trasparenza, sulla partecipazione dei cittadini al procedimento amministrativo, sulla responsabilità dei dirigenti, sull’innovazione, sul controllo di gestione, sulla semplificazione, sui corsi-concorsi per l’accesso alla dirigenza tramite una fast track, percorso accelerato), lo studio esama tre casi di studio (la centralizzazione e l’innovazione tecnologica nelle procedure di acquisto di beni e servizi, la progettazione integrata a livello di quattro Regioni del Mezzogiorno - Basilicata, Calabria, Campania, Molise- e l’introduzione della concorrenza e della valutazione tra le aziende sanitarie). L’analisi non fa ricorso ad una strumentazione statistica ed economica per quantizzare, ad esempio, i benefici all’erario delle nuove procedure d’acquisto, il raffronto tra costi di coordinamento e costi di informazione nella progettazione regionale ed i vantaggi agli utenti (in termini di “valutazioni contingenti”) della concorrenza e valutazione nella sanità. Nicolais avrebbe apprezzato quantizzazioni ed un po’ di lavoro econometrico. Il libro, però, consente di apprezzare i risultati in parte già ottenuti e soprattutto quelli che si potrebbero ottenere perseguendo una strategia di governance della res pubblica basata sul mercato e che al mercato faccia riferimento. Un aspetto importante è il nesso, messo in evidenza, nella parte conclusiva tra i vari schemi di responsabilità sociale della Pa e le prospettive comunitarie. Segno che, guardando all’Europa, anche in questo difficile campo si guadagna.
A conforto di questa ipotesi, Luigi Nicolais ha trovato un’analisi non recentissima (ossia di circa 18 mesi fa) della Banca Mondiale – il World Bank Policy Research Working Paper No. 3623 – in cui si studia l’impatto della regolazione sulla crescita - The Impact of Regulation on Growth and Informality Cross-Country Evidence- L’analisi comparata della qualità della regolazione in una ventina di Paesi conclude che quanto più la regolazione è pesante tanto più i tassi di crescita sono bassi. Lo confermano un lavoro sulla regolazione delle biotecnologie in Gran Bretagna -"The Impact of Regulations on Firms: A Case Study of the Biotech Industry" di Filippa Corneliussen del centro di studio sulle biotecnologie della Università di Londra – pubblicato nella rivista Law & Policy e un’analisi dell’Università della Georgia su come la percezione della qualità e della indipendenza della regolazione incida sui processi di sviluppo - “Separation of Powers and Credible Commitments: Evidence from Perceptions of Regulatory Quality" di Anthony Bertelli e Andrei B. Whitford. Di fronte a questi testi, Nicolais vorrebbe che il suo gruppetto sulla qualità della regolazione fosse un po’ più spedito nel portare risultati.

giovedì 24 maggio 2007

TESORETTO IN FUMO, DPEF NELLA NEBBIA

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha confermato che il Dpef verrà presentato il 28 giugno , alla vigilia della Festa di Santi Pietro e Paolo (Patroni di Roma) ed in linea con le scadenze ufficiali (nel 2007 il termine perentorio del 30 giugno cade di sabato). Ci sarà poco da festeggiare. Specialmente se il Ministro dell’Interno Giuliano Amato fa avere a Romano Prodi & soci una copia del suo libro “Due anni al Tesoro” in cui si illustra non solo come predisporre un Dpef , ma anche quali devono essere le sue caratteristiche essenziali. In primo luogo, il documento deve analizzare gli esiti raggiunti rispetto agli obiettivi e alle problematiche di fondo proposti nel Dpef dell’anno precedente. In secondo luogo, deve delineare obiettivi e proposte del Governo per i tre anni successivi. Il nesso tra la prima e la seconda parte non viene presentata nel Dpef ma è il lavoro di selezione delle richieste dei vari dicasteri – un lavoro che viene svolto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e, se del caso, dalla Presidenza del Consiglio nella veste di mediatore. Tutto il resto sono abbellimenti, interessanti per gli studiosi di politica economica, ma hanno poco a che vedere con i due aspetti fondanti del nocciolo duro del Dpef.Prodi & Co sono in difficoltà sia sulla prima sia sulla seconda parte di tale nocciolo duro. A questo argomento, e non tanto al presunto “tesoretto”, è stato dedicato il minivertice tenuto a Palazzo Chigi domenica 20 maggio. In primo luogo, hanno poco o nulla da mostrare a proposito dei risultati nelle aree indicate nel Dpef dello scorso anno come cruciali per il riassetto e di finanza pubblica e di economia reale: pensioni, ammodernamento Pa, sanità, finanza locale che , secondo il Dpef del 7 luglio 2006, sarebbero stati il cuore del ddl sul bilancio annuale e pluriennale dello Stato (in gergo la finanziaria) il 30 settembre 2006. In effetti – come sappiamo – la finanziaria non ha neanche sfiorato questi temi centrali del Dpef. La manovra di aggiustamento di 39 miliardi di euro, ha riguardato per 15 miliardi aumenti di imposizione tributaria per ridurre l’indebitamento netto della Pa (in gergo il deficit) e per il resto altri aumenti tributari a fini redistributivi. Nell’aggiornamento del Dpef presentato all’inizio di settembre – è vero – si sottolineava che le quattro tematiche sarebbero state affrontate in via prioritaria in parallelo con l’iter della finanziaria ed in consultazione con le parti sociali e con le Regioni. In alcuni casi (il più rilevante è la previdenza) sono stati definiti anche termini perentori (entro la fine del mese di marzo).
Il quadro, però, è almeno imbarazzante. Per la previdenza siamo in alto mare: il Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa (TPS) ha sottolineato che o si giunge ad un accordo per una riforma adeguata entro il 30 giugno o entra in vigore la legge Maroni del 2004 con lo “scalone”, tanto deprecato dai sindacati; in effetti, le previsioni (e della Ragioneria Generale e del Ministero del Lavoro e delle istituzioni internazionali, come Commissione Europea, Ocse e Fmi) mostrano a tutto tondo che lo “scalone” non basta più: occorre anche rivedere i coefficienti di trasformazione (i parametri per trasformare in annualità, e quindi in assegni mensili, il montante dei contributi accumulati). In termini di ammodernamento della Pa si sono fatti passi indietro : non è chiaro se si sono o non si sono presi impegni cogenti in materia di contratti per gli statali (gli ormai famosi 101 euro al mese) , ma è certo che nulla si è fatto per il miglioramento degli uffici (meritocrazia e simili) e , in aggiunta, la formazione per la Pa è nel caos a ragione di una proposta (che non si sa se recepita o meno dal Governo) e dei ricorsi alla Corte Costituzionale presentati da alcune Regioni. In materia di sanità e di finanza locale, si possono mostrare solo gli incrementi delle addizionali delle imposte regionali – di cui nessun Governo si vuole vantare. Quindi sul raffronto tra obiettivi e risultati , solo timori. Quelli di fare sapere quanto non si è fatto ed i danni causati dal poco comunque realizzato (formazione, addizionali).
Il quadro macro-economico per il breve termine, poi, non è incoraggiante. Nel 2006 e nel 2007, la crescita italiana è stata al traino della Germania, che, secondo le previsioni dei 20 maggiori centri economici internazionali (sul tavolo di Palazzo Chigi il 20 maggio) ora tirerà meno: per il 2008 il pil tedesco aumenterebbe del 2% circa e quello italiano dell’1,5% - all’ultima conta la produzione industriale tedesca è cresciuta del 7,7% su 12 mesi e quella italiana dell’1,6%. In secondo luogo , il fallimento del negoziato Omc sugli scambi minaccia difficoltà per le quattro “A” dell’export italiano (Abbigliamento, Alimentazione, Arredamento, Automazione).
Andiamo adesso alle prospettive per il futuro. Secondo le quantizzazioni degli economisti di la voce.info (non certo collaterali all’opposizione) se si prendesse come indicatore le richieste presentate da Ministri e Ministeri a valere sul presunto “tesoretto” non basterebbero 25 di miliardi di euro. Ci verrebbe, quindi, un’altra maxistangata per dare corpo a quelle di queste richieste fatte proprie da Prodi & Co. In questi ultimi giorni di campagna elettorale per le amministrative: i) sostegno alle pensioni più basse, precari e ammortizzatori sociali, ii) sostegno alle famiglie a basso reddito, iii) piano casa, iv) innovazione e ricerca, v) infrastrutture. Inoltre anche se negli ultimi mesi è continuato il buon andamento delle entrate (frutto dei provvedimenti della XIV legislatura) , le uscite avanzano ad un ritmo ancora più baldanzoso come indicato dall’andamento delle necessità di cassa di via XX Settembre - nei primi quatto mesi del 2007 il fabbisogno del settore statale è stato addirittura superiore a quello registrato nei primi quattro mesi del 2006. Proseguendo di questo passo si va verso un aumento e di deficit annuale e di stock di debito . Da qui, i tremori. Nello ossa di Prodi & Co.

I NUMERI DEL GOVERNO PRODI COMINCIANO A SCRICCHIOLARE

Domenica 20 maggio, Festa dell’Ascensione, si è svolta un vertice del Governo (Prodi, D’Alema, Rutelli, Padoa-Schioppa, Letta e pochi altri) non tanto su come meglio allocare “il tesoretto” quanto su come impostare il Documento di programmazione economia e finanziaria, Dpef (che deve essere inviato alle Camere il 30 giugno). Il “tesoretto”, di cui tanto si è parlato, si è rivelato non proprio una bufala ma molto meno consistente (e molto più evanescente) di quanto stimato a fine marzo nella trimestrale di cassa - un soprappiù di entrate (rispetto alle previsioni di settembre) sui 10 miliardi di euro l’anno nel 2007 e nel 2008. In effetti, il Ministro dell’Economia TPS aveva avvertito che le stime erano fragili, ma il Presidente del Consiglio (guardando alle elezioni amministrative) aveva prontamente proclamato che il Governo aveva risanato la finanza pubblica ed avrebbe ora dato un colpo di reni per fare galoppare l’economia reale.
Ove il tesoretto esistesse, non ci sarebbe lo scontro con i sindacati del pubblico impiego (bacino elettorale tradizionale del centro-sinistra); i “patti per la sicurezza” tra Ministero dell’Interno e grandi città avrebbero un maggiore spessore (dato che le preoccupazioni per l’ordine pubblico sono in testa alle priorità degli italiani); i programmi per migliorare le infrastrutture proseguirebbero alla velocità di crociera acquisita nel 2005; e via discorrendo . Non solo il tesoretto non c’è (o non c’è più) ma all’ultima conta manca un miliardo circa di entrate dai condoni della scorsa legislatura e, quel che più preoccupa, la crescita delle entrate in generale espone marcati segni di rallentamento. La settimana scorsa, l’Agenzia delle Entrate ha inviato raffiche di cartelle. Il Vice Ministro delle Finanza Vincenzo Visco ha ricominciato le geremiadi sulla diffusione dell’evasione – una base analitica seria è il “Temi di discussione” della Banca d’Italia n. 618 (on line da alcune settimane) in cui si smentisce il teorema secondo cui gli italiani avrebbero scoperto la virtù tributaria non appena il centro – sinistra è entrato a Palazzo Chigi.
La preoccupazione maggiore del Governo, però, è che c’è molto poco da mostrare in materia di risultati nelle aree indicate nel Dpef dello scorso anno come cruciali per il riassetto e di finanza pubblica e di economia reale: pensioni, ammodernamento Pa, sanità, finanza locale. Nel Dpef del 7 luglio 2006, questi quattro capitoli erano in bianco (li avrebbe riempiti la finanziaria); lo sono ancora adesso. Questo candido pallore è alla base delle preoccupazioni evidenziate dall’Ue a latere degli incontri di Postdam il 18 ed il 19 maggio e degli avvertimenti della Commissione Europea secondo cui, nonostante i trionfalismi pre-elettorali, l’Italia resta “sotto osservazione” almeno sino alla primavera 2008.
Ove queste apprensioni sul quadro interno non bastassero, si aggiungono quelle provenienti dal contesto internazionale a fare paura a chi deve redigere il Dpef. In primo luogo, la crescita italiana è stata al traino della Germania, che, secondo le previsioni dei 20 maggiori centri economici internazionali (sul tavolo di Palazzo Chigi il 20 maggio) tirerà un po’ meno: per il 2008 il pil tedesco aumenterebbe del 2% circa e quello italiano dell’1,5% - all’ultima conta la produzione industriale tedesca è cresciuta del 7,7% su 12 mesi e quella italiana dell’1,6%. In secondo luogo – ben lo sa Enrico Letta per i suoi trascorsi a Viale Boston – il fallimento del negoziato Omc sugli scambi minaccia difficoltà per le quattro “A” dell’export italiano (Abbigliamento, Alimentazione, Arredamento, Automazione). Si profila, quindi, per Prodi & Co. il pericolo di dovere ammettere che a) il Depf del 7 luglio 2006 non è stato rispettato sotto il profilo delle politiche annunciate, b) l’aumento delle entrate (come dimostra il modello econometrico della Bce) deve attribuirsi ai Governi passati e non a quello da lui presieduto, c) la nuova manovra deve essere consistente, ma dal lato della spesa (perché abbiamo già il triste primato della più alta pressione fiscale-contributiva al mondo); d) e soprattutto deve essere fatta senza che se accorga la sinistra radicale (comunque non invitata al tè a Palazzo Chigi del 20 maggio). Ce ne è a sufficienza per essere inquieti (pur ostentando gioia e compiacimento in vista delle amministrative del 27 m

I FONDI PENSIONE VANNO A CACCIA DI VIRTU'

Con l’attesa espansione dei fondi pensione (anche e soprattutto a ragione dell’utilizzo del tfr per alimentarli), si porrà anche in Italia il problema di come assicurare che gli accantonamenti di lavoratori ed imprese per la terza età non vengano investiti in attività peccaminose (tabacco, alcol pesanti, gioco d’azzardo, ove non peggio) ma in attività virtuose, o quanto meno di imprese “socialmente responsabili” (che non sfruttino il lavoro minorile nel terzo mondo ma impiegano i loro utili anche a beneficio della collettività). E’ già una caratteristica dei maggiori fondi pensione americani come quello dei dipendenti pubblici della California (le cui attività finanziarie sfiorano l’equivalente gli 800 miliardi di euro) o quello degli insegnanti (300 miliardi di euro). Questi ed altri maxi-fondi pensione hanno stabilito “codici etici” ; le imprese che non seguono detti codici, non possono fruire dei loro investimenti: è successo per un decennio alla Nike accusata di utilizzare subappaltanti dei Paesi in via di sviluppo che non osservavo i trattati fondamentali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sottoscritti dagli Usa e da gran parte dei Paesi in via di sviluppo. In aggiunta, l’indice Domini (che segue l’azionario di 400 imprese considerate socialmente responsabili) sostiene che la virtù rende: da quando è stato creato 16 anni fa, i suoi rendimenti annuali medi sono costantemente a quelli delle imprese quotate dell’indice Standard & Poor 500.

Ma chi conferisce il certificato di buona condotta e di responsabilità sociale (in breve di virtù) che consente di entrare a far parte dell’indice Domini ( e di essere apprezzato da fondi pensione ed altri investitori istituzionali)?

L’indice Domini è uno dei prodotti della KLD Research and Analytics , una società di consulenza di Boston che, negli ultimi tre lustri, è diventata, in materia, la fonte ufficiale della saggezza in materia e, soprattutto, è giunta ad annoverare tra i 420 propri clienti i “grandi” del mercato (maggiori investitori istituzionali, fondi pensione, intermediari finanziari e via discorrendo). Come si ottiene il diploma di virtù? KLD dispone di una quarantina di ricercatori, in gran parte giovani socio-economisti ed analisti finanziario, che lavorano, in gran misura, su fonti secondarie: le relazioni a supporto di bilanci preventivi e consuntivi delle spa quotate, inchieste giornalistiche, rapporti da volontari volenterosi da vari Paesi ed anche blogs. Un po’ come fa Transparency International per produrre ogni anno classificazioni di Paesi in base alla trasparenza delle procedure ed alla onestà dei politici e della pubblica amministrazione. In questo modo gli smart kids (ragazzi intelligenti) di KLD dicono di passare in rassegna 3000 imprese quotate con attività nei cinque continenti.

Per chi si intende di metodologia statistica, il metodo è quanto meno approssimativo. La virtù, in breve, è come la bellezza del noto proverbio britannico: sta negli occhi di chi guarda.

lunedì 21 maggio 2007

TOLLERANZA ZERO PIACE ALL'IMMIGRATO CHE LAVORA

La sicurezza è diventato uno dei problemi cruciali di un’Italia dove, sino a qualche anno fa, in molte città (specialmente di provincia) si tenevano aperte le porte delle case per l’intera giornata. I sondaggi condotti in occasione del primo compleanno del Governo Prodi convergono (quali che siano le divergenze sugli altri punti) nel sostenere che la sicurezza è ormai la principale preoccupazione degli italiani. Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato ha, senza dubbio, le migliori intenzioni e sottolinea correttamente che i più poveri ed i più deboli sono anche i più indifesi nei confronti della criminalità dilagante – tesi documentata ma coraggiosa in una sinistra che si immagina un mondo pieno di Robin Hood (che rubano ai ricchi per dare ai poveri) e dove sovente la comprensione per le sventure sociologiche del colpevole superano la commiserazione nei confronti della vittima.
I “patti per la sicurezza” che vengono varati in questi giorni (a quelli per Roma e Milano ne seguiranno presto per Torino ed altre maggiori città a rischio) o sono soltanto un primo passo oppure assomigliano a somministrare l’aspirina ad un ammalato che ha urgente bisogno di un intervento chirurgico. Da parte dello Stato centrale contemplano, principalmente, un maggior impegno immediato a fornire forze dell’ordine e la promessa di interventi per l’edilizia pubblica (case popolari per immigrati e rom); gli enti locali, nel contempo, provvederanno, sulle loro risorse, a creare centri di solidarietà , a più frequenti pattugliamenti da parte dei vigili, ed a decentrare enclave etniche di varie forme e guise (come le Chinatown che si stanno formando in varie città). L’onere finanziario grave soprattutto sugli enti locali, segnatamente i comuni. Sono note a tutte le ristrettezze della finanza pubblica, ma non si poteva destinare alla sicurezza il “tesoretto” (sempre che esista)? Oppure non si poteva affrettare le riforma della previdenza sia per meno penalizzare i giovani sia per avere risorse da dedicare alla sicurezza (data la priorità indicata dai sondaggi)?
Sono domande a cui devono rispondere il Presidente del Consiglio ed il Ministro dell’Economia e delle Finanze. Non il Ministro dell’Interno. Al Viminale, però, si potrebbero utilizzare le lezioni di alcuni casi in cui gli interventi per la sicurezza hanno avuto successo al fine di rendere più efficaci i “patti per la sicurezza”? Due ne vengano immediatamente alla mente: la riduzione della criminalità a New York negli anni in cui era sindaco Rudolph Giuliani ed il modo in cui nell’estate 2003 Nicolas Sarkozy (allora Ministro dell’Interno della Francia) ha sedato i moti suscitati dai cosiddetti “intermittents” (lavoratori dei media, delle arti e dello spettacolo a cui venivano ridotte le elevate indennità di disoccupazione di cui godevano per sei mesi l’anno – quando di solito lavoravano in nero). La ricetta è identica: tolleranza zero (accompagnata da una rete di tutele sociali soltanto per coloro effettivamente ai livelli di sussistenza). Un saggio fresco di stampa di un economista di nazionalità cinese in servizio all’ufficio studi del Fondo Monetario (Imf working paper n. 07/36) ci ricorda, sulla base di un’analisi comparata di 19 Paesi, come sia difficile realizzare il modello di “flexsicurity” attuato in Danimarca; dati dell’Interpol, in aggiunta, ci dicono che anche nel piccolo e solitamente pacioso Regno di Amleto il tasso di criminalità è aumentato notevolmente tra il 1995 ed il 2000 ( del 250% gli omicidi, del 50% i furti, del 10% i casi di violenza carnale) quando è stato introdotto il principio di “tolleranza zero” , reso più rigoroso dopo il ritorno del centro destra al Governo nel 2005. L’ultimo libro di Arno Tausch (un sociologo dell’Università di Innsbruck noto per essere filo-islamico) sottolinea, sulla base di una ricca analisi quantitativa, come una politica di “tolleranza zero” avrebbe il supporto di quelli che chiama i “mussulmani calvinisti”, i più disposti ad integrarsi nelle società d’immigrazione ed a contribuire alla crescita economica delle loro famiglie e dei Paesi di accoglienza.

IL CASO WOLFOWITZ E LA LEZIONE DI MCNAMARA

Con un comunicato stilato con cura in modo che tutti salvino la faccia, Paul Wolfowitz ed il Board della Banca Mondiale hanno annunciato, alla mezzanotte (ora italiana) tra il 17 ed il 18 maggio che dal primo luglio, con l’inizio del nuovo esercizio di bilancio, ci sarà pure una nuova guida all’istituto che da 1818 H Street, N.W, di Washington D.C. finanzia lo sviluppo dei Paesi in ritardo (dopo avere finanziato la ricostruzione di quelli distrutti dal secondo conflitto mondiale). Il comunicato solleva tanto Wolfowitz tanto “qualsiasi persona a lui associata” da illazioni ed, anzi, lo ringrazia per i risultati ottenuti, nel suo breve ma intenso mandato, non solo nella battaglia per lo sviluppo ma anche nella lotta alla povertà ed alla corruzione. Le dimissioni vengono motivate da condizioni oggettive di disagio venutesi a creare nelle ultime settimane e dalla necessità di nuove regole di governance per l’istituto.
L’”affare Wolfowitz” non riguarda solamente la Washington-che.può e coloro (come me) che hanno lavorato per oltre tre lustri in Banca Mondiale, ma noi tutti. Vediamo perché.
In primo luogo, sotto il profilo legale e procedurale la vicenda del potenziale od effettivo conflitto di interessi a ragione della relazione sentimentale tra Wolfowitz ed una dipendente della Banca Mondiale (iniziata quando il primo era al Pentagono) era stata chiusa da circa un anno dall’organo competente: il comitato per le questioni etiche della Banca. Lo stesso Board (Consiglio d’Amministrazione- CdA) della Banca era stato tenuto informato, nei dettagli, e del problema e della soluzione: se avesse avuto qualcosa da ridire aveva tutto il modo di farlo nella primavera – estate del 2006. Il caso è stato riaperta circa un mese fa da una lettera anonima rimbalzata con fragore sui media. E’ deflagrato adesso a ragione di varie determinante: a) la polemica anti-Bush in vista delle prossime presidenziali (sta per scoppiare una bomba ad orologeria mediatica nei confronti del Segretario di Stato Condoleezza Rice a motivo del ruolo, vero o presunto, della Chevron, di cui è stata Consigliere di Amministrazione, nelle tangenti nel programma Onu “oil for food” per l’Iraq); b) l’irritazione di Paesi a cui sono stati sospesi prestiti della Banca a causa della corruzione straripante nelle loro pubbliche amministrazioni; c) il nervosismo di un organico pletorico dell’istituto (che Wolfowitz stava cercando di sfoltire).
Per la prima volta fatti interni alla Banca vengono messi in piazza. Negli Anni Sessanta, ad esempio, l’istituto individuò nel proprio organico un funzionario che faceva la doppia spia (al tempo stesso per un Paese Nato ed uno dell’Est). Negli Anni Settanta, un dirigente della Banca dovette correre con un aereo preso a nolo da Taormina (dove era in vacanza) in Africa centrale per risolvere un problema di appalti e mazzette (che coinvolgeva pure un Ministro ed un Capo di Stato) prima che ne trapelasse notizia sulla stampa di Nairobi (a da lì rimbalzasse al resto del mondo). Negli Anni Ottanta, un dirigente dell’ufficio legale dell’istituto venne colto con la mano nella marmellata. Queste ed altre vicende – ben più gravi di una di letti e lenzuola- sono state risolte internamente e nulla è filtrato sulla stampa. Nessuno si è scandalizzato, ad esempio, per una storia d’amore tra il capo del personale della Banca e la sua segretaria, promossa a direttore del reclutamento.
La materia è delicata. Da un canto, la libertà del giornalismo investigativo è il sale della democrazia; da un altro, anche dove esiste una pluralità di editori puri, i giornali possono diventare preda di tendenze ideologiche come conferma un lavoro dell’Università di Chicago (Nber working paper N. W12707) in cui si costruisce un apposito indice quantitativo; da un altro ancora, attualmente, le Nazioni Unite e le organizzazioni ad esse associate godono un livello di fiducia molto basso e pessima stampa – due fenomeni che si rafforzano a vicenda. Con la globalizzazione, la gogna mediatica si internazionalizza.
In secondo luogo, Wolfowitz era arrivato in Banca Mondiale da vinto e si comportava da vincitore. L’incarico alla guida dell’istituzione finanziaria era un contentino dopo la virtuale sconfitta (a torto od a ragione) della strategia da lui elaborata nei confronti dell’Iraq; analogamente, nell’aprile del 1968, Robert S. McNamara venne inviato alla Banca Mondiale dopo il fallimento della “risposta flessibile” in Viet-Nam. McNamara non portò con sé neanche una segretaria, sapendo quanto coesa fosse la burocrazia dell’istituto; studiò con cura l’organizzazione, fece le proprie alleanze e nel giro di cinque anni rivoltò la Banca come un calzino (raddoppiando il volume di prestiti e l’organico). Wolfowitz non solo diede incarichi importanti a suoi stretti collaboratori del tempo passato al Pentagono ma si comportò come un elefante in un negozio di cristalleria. Ha indotto dirigenti di alto livello – dal capo dell’ufficio legale ad alcuni vice presidenti (tra cui un cinese che era il collaboratore più stretto del suo predecessore James Wolfensohn)- ad andarsene, sbattendo la porta (pur se con superliquidazioni). In breve, si creò in poco tempo numerosi nemici , dentro e fuori l’istituto. Lo aspettavano al varco alla prima occasione opportuna. Anche ritirando fuori (dopo un anno) una storia sentimentale che sembrava morta e sepolta (nei suoi aspetti istituzionali).
Wolfowitz – si badi bene- era animato da buone intenzioni specialmente nella lotta alla corruzione delle pubbliche amministrazioni dei Paesi in via di sviluppo – una delle determinanti principali della povertà dei Paesi in questione. Non aveva metabolizzato, però, che le burocrazie e le tecnocrazie contano di più dei Presidente, “precari” anche sotto il profilo etimologico in quanto con mandati a termine. E’ una lezione importante anche per noi in Italia dove le coalizioni di Governo rischiano a dover faticare a governare con dirigenze ministeriali plasmate da chi li ha preceduti e comunque dotate del proprio sistema di regole e della convinzione della propria permanenza (rispetto alla più o meno corta durata in carica dei politici posti alla loro guida).
In terzo luogo, la posizione dell’Europa in generale e dell’Italia in particolare a proposito del “caso Wolfowitz”. I suoi avversari - si è detto- erano dentro e fuori la Banca, ma principalmente a Washington. Naturalmente, l’India (a cui erano stati sospesi prestiti nell’ambito della lotta alla corruzione) ha organizzato vari Paesi in via di sviluppo per cercare di farlo mettere alla porta. Gli europei sono stati ambigui. La Germania ed i piccoli Paesi (principalmente l’Olanda) hanno fatto fronte comune contro Wolfowitz; in effetti, ambivano ad un osso molto più grosso – rinegoziare l’accordo implicito del 1944 in base al quale il Presidente della Banca Mondiale è americano e il Direttore del Fondo Monetario europeo e cogliere una sola fava due piccioni: far licenziare Wolfowitz, porre un europeo alla guida della Banca e, nell’occasione, dare il benservito pure allo spagnolo Rodrigo Rato (ex Ministro delle Finanze di Aznar) ora a capo del Fondo e di cui nessuno sembra essere contento. Il colpo non è riuscito a pieno, ma gli europei hanno avuto assicurazioni dall’Amministrazione Bush che per 1818 H Street, N. W. indicherà persona di gradimento all’Europa (si parla dell’Ambasciatore Robert Zoellick a lungo a capo della delegazione Usa per i negoziati commerciali internazionali).
Poco chiara la posizione dell’Italia. Innanzitutto, per una ragione istituzionale. L’ex condirettore della vigilanza in Banca d’Italia, Giovanni Majnoni, non rappresenta unicamente il nostro Paese nel Board della Banca ma anche l’Albania, la Grecia, Malta, Portogallo e Timor Leste – una “constituency” (in gergo) con obiettivi ed interessi non sempre convergenti – anzi piuttosto divergenti in materia di soluzione da dare al “caso Wolfowitz”. Inoltre, non sembra che da Roma (che ha la guida della colorita cordata) non sembra siano mai giunte istruzioni chiare su cosa fare. E si capisce perché: da un lato, il Governo Prodi non vuole alienarsi ulteriormente la Casa Bianca; da un altro, strizza l’occhio proprio ad alcuni di quei Paesi a basso reddito pro-capite le cui pubbliche amministrazioni vengono considerate (a ragione) da Wolfowitz una palla di piombo allo sviluppo.

sabato 19 maggio 2007

ALL’ALITALIA IN BILICO GLI SCIOPERI FANNO DA SCIVOLO

La settimana che inizia lunedì 21 maggio è cruciale per il futuro, anche a breve termine, dell’Alitalia ed inciderà non poco sull’economia del Paese in generale e di Roma (e del Lazio) in particolare. Il 23 maggio è convocato il CdA della compagnia per esaminare i conti (le stime non ufficiali parlano di perdite di un milione di euro al giorno nel primo trimestre). Il 24 maggio le tre cordate in lizza per rilevare la compagnia ( Ap Holding che controlla AirOne, i russi di Aeroflot con Unicredit Banca Mobiliare, e gli americani del fondo Tpg con MatlinPatterson e Mediobanca) . avranno accesso alla data room , ossia alle informazioni sino ad ora tenute riservate (quali quelle sulla redditività contabile per singole tratte) in modo da poter compilare offerte finali vincolanti (e tecniche e finanziarie) entro fine giugno. Nonostante le dichiarazioni incoraggianti del Ministro dell’Economia e delle Finanze Tomaso Padoa Schioppa al Parlamento, le informazioni (da nessuno smentite) che trapelano da Via XX Settembre sulle offerte preliminari sono inquietanti: Tgp (ed associati) valutano zero le azioni Alitalia detenute dal Tesoro; AirOne arriva a 10 cents; più elevata l’offerta dei russi, che resta però al di sotto dei 40 cents ad azione (rispetto alle ultime quotazioni di circa 0,90 euro rilevata a Piazza Affari). AirOne – si dice – è la cordata preferita da Prodi (per i lunghi vincoli di amicizia con Carlo Toto), ma la Lufthansa, alla guida della Star Alliance (di cui AirOne fa parte), ha espresso, in pubblico, serie perplessità sulla capacità di Tgp di gestire una società aerea con rotte intercontinentali.
E’difficile dire se la gara andrà in porto : Il Tempo è stato il primo quotidiano a sottolineare che non si tratta di un’asta ma di un beauty contest ossia spogli successivi delle offerte al fine di individuare quella che più si avvicina all’idea di ciò che la stazione appaltante vuole acquistare. Economisti molto ascoltati dal Presidente del Consiglio, come Carlo Scarpa e Marco Ponti, sostengono da tempo che l’Alitalia è tecnicamente fallita e che ora e si dovrebbe staccare la spina. Un eventuale esito positivo della gara porterà comunque ad un drastico ridimensionamento. Inoltre, la Corte di Giustizia Europea potrebbe trovare improprio il beauty contest (se qualcuno fa ricorso), annullare la gare e rendere inevitabile il fallimento. A quel che si sa, se controllata da Tpg o AirOne all’Alitalia si prospetta il futuro di una compagnia regionale (con riduzione di rotte, scali e personale). Con Aeroflot diventerebbe la linea di lusso di un vettore che è appena uscito da una drastica ristrutturazione. Non facciamoci illusioni: per l’Alitalia, i suoi dipendenti, per l’economia del Paese e del Lazio, queste ipotesi sono comunque migliori del fallimento. E’ bene aprire gli occhi : siamo allo S.O.S
In questo quadro, occorre chiedersi quali sono gli effetti delle agitazioni in corso (nonostante i divieti posti dalla Commissione di Garanzia e dal Ministro in persona): scoraggiano ulteriormente le tre cordate a formulare offerte che prevedano salvaguardie consistenti all’occupazione; in parallelo, inducono i clienti a scappare verso altri vettori. Allo S.O.S., il Governo dovrebbe rispondere introducendo nella fase finale della gara un’asta vera e propria asta. Ed i sindacati ristabilendo la pace sociale. Altrimenti, lo S.OS. diventerebbe un “Farewell Alitalia” con 50.000 disoccupati in più- di cui la metà tra Roma e dintorni.

FU VERO RISANAMENTO da Il Domenicale del 19 maggio

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ama farsi chiamare “il Professore”. Ne ha pieno titolo in quanto ordinario di economia e politica industriale dell’ateneo di Bologna sino al giorno in cui è sceso in politica attiva quando – è doveroso dargliene atto – si è messo anticipatamente in pensione pur avendo la facoltà di restare nei ruoli dell’Università. Ciò detto è utile precisare che - “il Professore” non ce la vorrà – non soltanto non è un econometrico ma la sua formazione di base, alla Facoltà di Giurisprudenza, non copriva aree di economia quantitativa. In seguito, la sua carriera pubblica è stata sia rapida sia convulsa con il risultato che le possibilità di aggiornamento sono state limitate. Inoltre, il Dipartimento Affari Economici di Palazzo Chigi, dove c’era un’équipe di economisti giovani di formazione e internazionale e quantitativa, è stato in pratica smantellato. Quindi, nell’esprimere valutazioni economiche, “il Professore”, in tante faccende affaccendato, ricorre principalmente sul proprio intuito.
E’ stato l’intuito, non l’analisi, a suggerirgli di presentarsi il 7 maggio, alla V giornata dell’economia organizzata dall’Unioncamere, come il gran risanatore e dei conti pubblici e dell’economia reale ormai compiuto, nonché a promettere che ormai non ci saranno più né “manovre dure” né “finanziarie di lacrime e sangue”. Preso dall’entusiasmo ha anche sottolineato come l’operazione fosse stata compiuta dal Governo in carica da meno di nove mesi. L’intuito e l’entusiasmo vanno premiati non solamente negli studenti. Vanno, però, criticati se i Professori si fanno trascinare troppo, dimenticando che, anche nel Regno di Oz (dove con una bacchetta magica si possono fare miracoli) occorre rispettare le proprietà matematiche e tenere conto dei risultati econometrici.
Esaminiamo l’intuito e l’entusiasmo del Professore utilizzando esclusivamente fonti internazionali (distinti e distanti dalle nostre beghe) , principalmente quelle della Banca centrale europea Bce) , disponibili on-line per chi voglia verificare le nostre cifre.
Innanzitutto, l’eventuale risanamento sprint, alla Speedy Gonzales in grado di correre con una velocità ben superiore a quella di settantenni come il Presidente del Consiglio ed il Ministro dell’Economia e delle Finanze. La Bce ha pubblicato nel luglio scorso il working paper 660 in un’elegante fascicolo che si può acquistare per pochi euro o scaricare gratis dal sito della Banca. E’ un lavoro di Elena Angelini, Antonello D’Agostino e Peter McAdam in cui si presenta e si analizza in dettaglia “il blocco Italia” del modello econometrico elaborato dalla Bce per giungere alle decisioni di politica monetaria di propria competenza. Pur utilizzando uno schema di identità e di equazioni leggermente differente da quelli di modelli analoghi elaborati dal Fondo monetario, dall’Ocse e dalle Nazioni Unite – tutti basati sul modello “Link” formulato dal Premio Nobel Lawrence Klein- conferma quanto già dimostrato da altri: in Italia il time lag (divario temporale) tra l’attuazione di misure di politica macro-economica ed i loro effetti è, a causa delle molteplici rigidità del nostro sistema, più lungo che in altri Paesi: 3-4 anni invece dei 2-3 prevalenti nell’insieme dell’Ocse. Ciò vuol dire che il risanamento, se c’è stato, è frutto delle politiche della XIV legislatura così come la crescita raso terra nel 2000-2004 è il risultato del forte aumento del carico tributario effettuato nel 1996 (la “tassa per l’Europa” ed altri balzelli). Analogamente, gli effetti di quella che il Professore ha chiamato “la manovra dura” del 2006 si avvertiranno, in termini di rallentamento della crescita, a partire dal 2009. E saranno guai per chiunque sarà l’inquilino di Palazzo Chigi.
Senza dubbio, un aggiustamento dei conti pubblici c’è stato: nel 2003-2005 l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni si aggirava sul 4% del pil, mentre le previsioni per il 2007-2008 lo portano al di sotto del 3% del pil. E’ da imputarsi all’ultima finanziaria? Non solamente lo vieta concettualmente il time lag a cui si è appena fatto riferimento, ma il Vice Ministro delle Finanze Vincenzo Visco, in numerosi interviste e dibattiti pubblici, ha correttamente sottolineato dei 39 miliardi di euro della manovra di bilancio soltanto 15 miliardi erano mirati alla riduzione del disavanzo (tanti quanti ritenuti necessari dal precedente Ministro dell’Economie e delle Finanze Giulio Tremonti), mentre il resto è da imputarsi a politiche redistributive (un pedaggio da pagare alla componente di sinistra radicale dell’Esecutivo).
Il quadro è meno incoraggiante se si guarda allo stock di debito pubblico- ancora al 104% del pil ed al debito previdenziale che in mancanza di interventi sfiorerà il 180% del pil nel 2011 (ultimo anno della legislatura). Il working paper n. 656 della Bce- ne sono autori Rolf Strauch, Manfred Kremer e Paolo Paesani – dice a tutto tondo che in questo campo siamo molto lontani dalla situazione di altri Paesi europei e che ciò non potrà non comportare tassi d’interesse più alti da noi che altrove. A riguardo, è doveroso ricordare che il Governo precedente nel passare le consegne a quello guidato dal Professore aveva pronti i dossier per ulteriori privatizzazioni dell’Enel e dell’Eni, nonché per la privatizzazione delle Poste e della Rai. Ciò avrebbe liberalizzato e reso più competitivo il sistema e fornito risorse al fondo per la riduzione dello stock del debito pubblico. Non se ne è fatto nulla. Si è, invece, iniziato un contorto beauty contest per cercare di cedere Alitalia agli amici degli amici (dando la massima discrezionalità alla stazione appaltante).
Eloquente anche il working paper Bce n. 634 (ne sono autori Sebastian Hauptmeier, Martin Heipertz e Ludger Schuknecht- nessuno dei quali, riteniamo, abbia motivi personali per criticare “il Professore”). Il lavoro esamina le riforme delle politiche e dei meccanismi di spesa pubblica nei Paesi industriali: l’Italia ha mirato basso (a ragione di gruppi e gruppuscoli corporativi) ed ha ottenuto poco. C’è molto da fare: la strada non è quella dell’aumento del carico tributario ma del dimagrimento , se necessario, per fame della macchina pubblica.

DINI FA I CONTI CON LE SUE PENSIONI RIFORMATE

Non è chiaro neanche all’interessato se ed in che misura è nel Palazzo o fuori dal Palazzo. E’ una sensazione che Lamberto Dini provò anche in più giovane età, quando all’inizio degli Anni 70, da co-manager del Dipartimento Africa del Fondo monetario internazionale (Fmi) , diventò “advisor” con sostanzialmente poco da gestire. Si era nella Washington dove frequentava la Paroisse d’expréssion français di R Street, N. W. (nel bel mezzo di Georgetown) ed il buon Père De Rocqois gli suggeriva di essere paziente. Virtù che lo ha premiato portandolo gradualmente a rappresentare l’Italia (ed altri Paesi) nel CdA Fmi, alla direzione generale della Banca d’Italia, alla guida del Ministero del Tesoro e a quella del Governo.
Ora a 76 anni compiuti il primo marzo si dovrebbe godere tranquillamente le “sue” pensioni – Fmi, Banca d’Italia, Parlamento-, nonché l’essere coniugato “bene” (si direbbe nella sua Firenze). Sono, però, proprio le “sue” pensioni a tormentarlo- ossia quelle della legge del 1995 a cui è associato il suo nome. Secondo l’impianto originario, alcuni aspetti chiave della normativa (i “coefficienti di trasformazione” per trasformare in annualità i montanti risultanti dall’accumulo dei contributi) , si sarebbero dovuti riesaminare circa due anni fa. Ora sono al centro di discussioni e negoziati che non si sa quando termineranno.
Forse verrà chiamato a dare un contributo. A tal fine ha trovato di grande utilità "Public Pension Reform: A Primer" (“Riforme dei sistemi previdenziali pubblici: una guida”) di Alain Jousten, appena pubblicato come IMF Working Paper N o. 07/28. Gli ha consentito un aggiornamento veloce su quanto avvenuto in questa materia nel corso degli ultimi dieci anni in cui si è dovuto dedicare alla politica pura. Dovrebbero leggerlo tutti coloro al tavolo della trattativa per il riassetto del sistema.
Dini ha anche scovato una vera chicca :” Outlook for the Defined Contribution Pension Market in Japan" (“Prospettive del sistema previdenziale contributivo in Giappone” di Akiko Nomura apparso nella “Nomura Capital Market Review”. Il sistema nipponico, introdotto cinque anni fa. è modellato, in parte, su quelli , contributivi, entrati in vigore in Italia ed in Svezia quasi contemporaneamente nel 1995, ma fa in gran misura perno su fondi pensione contributivi sostitutivi, in buona misura dell’intervento pubblico. In Giappone il periodo di transizione è sino al 2012. Allora i fondi contributivi avranno circa 8 milioni di iscritti ed una capitalizzazione di 10 milioni di miliardi di yen, mentre i fondi negoziati (nella contrattazione collettiva) non copriranno che il 20% dei lavoratori.
Ciò comporta un’analisi dell’influenza dei fondi pensioni sulla “governance” delle imprese – Urs von Ax (dell’Istituto svizzero di tecnologia a Zurigo) e Andreas Schafer (dell’Istituto universitario europeo a Badia Fiesolana) hanno esaminato l’argomento in "The Influence of Pension Funds on Corporate Governance", CER-ETH Center of Economic Research at ETH Zurich, Working Paper No. 07/63. La conclusione di analisi empirica del funzionamento di fondi europei ed americani è che, tutto sommato, incidono sulle decisioni di banche ed imprese molto meno di quanto non si creda. La determinante principale è la dispersione degli investimenti – diversificatissimi per contenere il rischio. Lo conferma uno studio di Graig Copeland dell’Employee Benefit Research Institute (Ebri) diretto specificatamente ad analizzare l’allocazione delle attività finanziaria nei vari schemi previdenziali sulla base dei dati disponibili più recenti, quelli del 2004 "Retirement Plan Participation and Asset Allocation, 2004"

venerdì 18 maggio 2007

LA FILLE A ROMA

A poche settimane dal successo alla Scala (dovuto in gran misura ai virtuosismi vocali di Désirée Rancatore e Juan Diego Floréz) arriva a Roma “La Fille du Régiment”. L’allestimento è lo stesso - quello concepito alla fine degli Anni Cinquanta da Franco Zeffirelli per il Teatro Massimo di Palermo e di cui Zeffirelli realizzò scene e costumi e Filippo Crivelli (allora suo assistente) la regia. Anche alcuni degli interpreti sono i medesimi (Francesca Franci nel ruolo della Marquise de Berckenfield, Anna Proclemer in quello della Duchesse de Krakenthorp). Mancano i grandi nomi di richiamo per il pubblico (come appunto Floréz) perché a Roma (dove si mettono in scena solo 6 repliche rispetto alle 9 di Milano) si punta, credo anche per ragioni di bilancio, su un cast in parte, meno conosciuto. L’orchestra, tuttavia, è affidata ad un concertatore conosciuto come Bruno Campanella.
L’allestimento Crivelli-Zeffirelli andò in scena a Palermo nel 1959. Dopo un decennio circa di oblio, è sbarcato a Roma nel 1968 e da allora ha girato nei maggiori teatri sia italiani sia stranieri (Dallas, Bregens, Ginevra, tra gli altri). E’ stato, di volta in volta, aggiornato nei dettagli ma l’idea di base (l’ispirazione alle stampe di Epinal sulle “campagne pacioccone” in epoca napoleonica resta immutata; le scene dipinte, i siparietti, i costumi sgargianti e le gags mantengono la freschezza di cinquanta anni fa (anche se oggi come allora travisano leggermente lo spirito del lavoro).
Accenniamo alla trama. Marie è cresciuta come un soldataccio in quanto abbandonata dal padre. L’esercito l’ha, in pratica, adottata e la fanciulla, pur assolvendo il ruolo di vivandiera, è diventata esperta nelle arti delle armi. In seguito si è innamorata del giovane svizzero Tonio, che l’ha salvata mentre stava cadendo in un burrone. Ma il sergente Sulpice (geloso come fosse suo padre) vuole ostacolarli poiché Tonio è tirolese (nella versione italiana la vicenda si svolge in Svizzera) e vuole, invece, che Marie sposi uno dei suoi soldati. L’intrigo si risolve quando la Marquise de Birkenfeld scopre in Marie una sua nipote (e successivamente la propria figlia) e, dopo una serie di divertenti peripezie, acconsente al matrimonio tra i due giovani.
Composta su commissione dell’Opéra Comique è una delle opere più popolari di Donizetti: tra il 1840 ed il 1875, unicamente a Parigi se ne contano più di 600 repliche. Nella lettura di Crivelli-Zeffirelli è un’opera comica. Più che un’opéra comique in senso stretto (anche se alcuni parti sono recitate, non cantate, come richiedeva lo stile della Salle Favart), è, a mio avviso, un melodramma leggero con una forte punta di ironia nei confronti del melodramma serio che proprio in quegli anni Donizetti stava sviluppando. Richiede un soprano di coloratura ed un tenore lirico di agilità in grado di affrontare una scrittura vocale spericolata, anche a ragione degli arricchimenti apportati dalla tradizione. Ad esempio, l’aria principale del tenore “Ah, mes amis”, nell’autografo donizettiano, prevede tre “do” acuti (e sono già un bel po’); con il passare dei lustri, viene offerta (ad esempio, da Pavarotti, Kraus e oggi da Juan Diego Florèz) con nove “do” sovracuti, con poco rispetto per la filologia ma trascinando il pubblico all'entusiasmo.Analogamente, le arie di Marie sono diventate esercizi di puro virtuosismo. Le acrobazie vocali spesso distolgono l’attenzione dall’eleganza strumentale di questo Donizetti raffinato come in pochi altri lavori.
L’aspetto migliore dell’edizione al Teatro dell’Opera di Roma è la cura con cui Campanella mette in risalto l’eleganza (e la leggera malinconia che sempre s’accompagna all’ironia) della scrittura orchestrale, evidenziando le delicate parti solistiche (che sovente si tende a soffocare). Sotto questo profilo è una “Fille” innovativa, oltre che di qualità. L’aspetto più discutibile (ma lo era in gran misura anche alla Scala poche settimane fa) è la dizione: il recitar cantando in francese è pieno di trabocchetti per chi non è di lingua madre. E della compagnia romana, nessuno è cresciuto Oltralpe. Solamente il coro, guidato da Gea Garatti Ansimi, si presenta con un francese credibile, frutto di molte prove e del numero comparativamente elevato di opere francesi programmate a Roma negli ultimi anni.
Cinzia Forte è una Marie credibile; nervosa all’inizio dello spettacolo (ha spinto troppo due sovracuti nella prima aria), è migliorata progressivamente nel corso della serata, meritandosi applausi a scena aperta da “Il faut partir, mes bons compagnons d’armes”. Bruce Sledge è stato chiamato a sostituire il previsto Tmislav Muzek: ha dimostrato ancora una volta di non essere più una promessa ma uno dei rari giovani tenori di agilità per questo repertorio. La sfida era evidentemente “Mes amis”: ha mostrato, senza tentare di strafare, tutta l’agilità necessaria tanto nell’ascendere quanto nello scendere dai terrificanti “do”. Il duetto “Depuis l’’instant où dans mes bras” è stato cantato con maestria: particolarmente morbido il cantabile di Sledge e brillante invece la seconda parte in cui il canto del soprano e del tenore prima si alterna e poi si unisce.
Il Sulpice di Alberto Rinaldi è ben calibrato nel timbro e nel fraseggio; è poi pienamente all’altezza dei due protagonisti nel terzetto “Tous les trois réunis” (in cui si avverte un piglio rossiniano – la eco de “Le Comte Ory”). La Marquise di Francesca Franci è improntata a grande equilibrio scenico e vocale: divertente nella esilarante scena della lezione di danza, toccante in “Quand le destina au milieu de la guerre”. La Duchesse de Krakenthorp di Anna Proclemer è una simpatica caratterizzazione con il limite però di una dizione francese lungi dall’essere corretta (aspetto che si nota particolarmente in un ruolo parlato).

giovedì 17 maggio 2007

L’ABOLIZIONE DELLO “SCALONE” E’ UNA BATTAGLIA DI RETROGUARDIA

Nonostante l’ottimismo ostentato dal Presidente del Consiglio, il confronto sul futuro delle pensioni è diventato un scontro all’interno della maggioranza e delle forze politiche e sociali che ne fanno parte. In questo scontro, il sindacato sta facendo mosse sbagliate in modo macroscopico, forse per la prima volta da quando (circa 20 anni fa) è iniziato il dibattito sulle pensioni del futuro.
L’errore di fondo sta nel avere fatto diventare la soppressione del cosiddetto “scalone” (le misure che in base alla riforma del 2004 porterebbero, nel 2008, il limite di età per le pensioni di anzianità da 57 a 60 anni) il punto principale della trattativa – ove non lo stendardo delle richieste sindacali. Il Segretario della Cgil Guglielmo Epifani ha minacciato uno sciopero generale se il Governo non adotta speditamente provvedimenti per abolire, o quanto meno, modificare drasticamente lo “scalone”. Le altre maggiori confederazioni non potranno non accodarsi alla Cgil, anche se non hanno immediatamente seguito Epifani nella minaccia dello sciopero; hanno chiesto l’intervento, sullo “scalone”, del Presidente del Consiglio in persona (delegittimando i Ministri dell’Economia e del Lavoro).
Il braccio di ferro sullo “scalone” è diventato un simbolo analogo all’abrogazione o drastica modifica dell’art. 30 dello Statuto dei Lavoratori (quello sulla “giusta causa” per i licenziamenti) chiesto a gran voce, all’inizio della scorsa legislatura, da chi proponeva una liberalizzazione del mercato del lavoro.
Quanti sono gli interessati allo “scalone”? In primo luogo, portare a 60 anni l’età minima per fruire di pensioni di anzianità non riguarda quei lavoratori definiti “precoci” (perché hanno iniziato ad andare in fabbrica od in ufficio quando erano molto giovani – presumibilmente nella seconda metà degli Anni Sessanta). Essi, infatti, vanno in pensione di vecchiaia (non di anzianità) dopo 40 anni di contributi (effettivi e figurativi) con il sistema retributivo (ossia con trattamenti legati alle retribuzioni), quale che sia la loro età anagrafica. In secondo luogo, lo “scalone” non sfiora neanche gli addetti a lavori “usuranti” (per i quali sono state definite modalità specifiche in una serie di decreti dei Ministri del Lavoro, dell’Economia, della Sanità e della Funzione Pubblica).
Quindi, lo “scalone” fa paura principalmente ove non esclusivamente a chi progetta di andare in pensione retributiva in età ancora relativamente giovane per poter intraprendere una nuova attività oppure per dedicarsi interamente a quella che è già una sua seconda attività nello status di lavoratore dipendente. Utilizzando i dati Inps ed Inpdap, coloro potenzialmente interessati allo “scalone” sono circa 190.000 nell’arco dei prossimi tre anni – ossia 63,000 l’anno. Si affievolirebbe l’interesse di molti di loro ad andare in pensione a 57 anni se avessero piena contezza che il meccanismo di aggiornamento dei trattamenti (collegato all’indice del costo della vita degli operai, non all’andamento dei salari, nonché con ulteriori penalizzazioni per le pensioni più elevate) comporta, anno dopo anno, una perdita consistente di tenore di vita relativamente a chi decide di mettersi in quiescenza più tardi. Quindi, lo scontro riguarda un numero relativamente limitato di uomini e donne, verosimilmente più fortunati di molte altre categorie, pur se poco informati sulle conseguenze di medio e lungo periodo di andare in pensione a 57 anni: i loro trattamenti verrebbero decurtati severamente in termini reali dal momento del pensionamento alla soglia dei 75 anni (quando le esigenze di ciascuno probabilmente aumenteranno).
La richiesta di abbattimento dello “scalone” è una posizione perdente, come, da parte di alcuni esponenti dell’attuale opposizione, cinque anni fà si rivelò perdente l’irrigidimento sull’abrogazione o drastica modifica dell’art. 30 dello Statuto dei Lavoratori – misura che, tutto sommato, interessava una manciata di imprese. Lo è ancora di più per un sindacato che nel 1995 ha ottenuto che il periodo di transizione da pensione retributive a pensioni contributive durasse 18 anni (non 3 come in Svezia o mediamente 5 come nell’altra ventina di Paesi che hanno varato riforme analoghe). Ed ha così già dato un privilegio consistente a 10 milioni di persone, molti dei quali delle fasce medio-alte della società italiana.

COSA PROVOCA I FLUSSI DEI FONDI D'INVESTIMENTO

Da un anno e mezzo, è in atto un deflusso dai fondi comuni d’investimento. Le determinanti sono numerose. Da un lato, le banche puntano a vendere agli sportelli prodotti più remunerativi per i loro bilanci. Da un altro, ci sono state scelte (poco accorte) delle società di gestione del risparmio verso attività forse più promettenti ma meno trasparenti. Da un altro ancora, l’andamento particolarmente non esaltante dei fondi obbligazionari – la forma verso cui si stanno orientando un numero crescente dei circa 500 fondi pensione autorizzati ad operare in Italia ed ora rivolti ad attirare i flussi di tfr incentivati dal trattamento tributario.
Sono fenomeni soltanto italiani? E’ una fase transitoria di un mercato mobiliare che solamente negli ultimi 20 anni ha assunto caratteristiche di una piazza finanziaria matura e tale da tenere testa alle altre dell’Europa continentale? Le polemiche sulla stampa specializzata italiana additano il ruolo delle banche, e dei “borsini” agli sportelli, tesi ad acquisire una quota di mercato sempre maggiori del mercato del risparmio gestito, a volte senza avvertire i clienti che i loro solerti funzionari li stanno indirizzando verso strumenti a rischio; nonostante le esperienze degli ultimi, potrebbero annidarsi trappole come quelle dei “Cirio-bonds” e dei “Parmalat-bonds”. E’ una strategia di marketing occasionale o parte di un disegno complessivo teso a rafforzare il ruolo di alcuni istituti di credito rispetto ad altri?
Alcuni studi recenti, disponibili on line, contribuiscono a rispondere a questi interrogativi. Un’analisi effettuata dal dipartimento finanza dell’Università dell’Arizona approfondisce l’andamento, su base mensile, dei flussi (e deflussi) di risparmio utilizzando un vasto campione di fondi comuni (prevalentemente americani) nell’arco di tempo 1997-2003 ed utilizzando una metodologia statistica molto avanzata che consente di individuare alcune regolarità di comportamento in passato non rilevate. Anzitutto, gli acquisti e le vendite da parte degli investitori producono flussi lordi molto persistenti; la persistenza dei flussi lordi è più significativa dell’andamento come strumento per predire flussi futuri; non tenerne conto, quindi, può portare ad analisi errate in materia di andamenti e flussi; il comportamento degli investitori varia in misura significativa a seconda delle tipologie di fondi e tali differenze incidono sui flussi lordi; alcune categorie di investitori valutano la performance dei fondi (e reagiscono di conseguenza) su un arco di tempo molto più breve di quanto si pensasse sulla base di ricerche precedenti. Il gruppo dell’Università dell’Arizona sta conducendo uno studio comparato su 46 Paesi; le indicazioni preliminari confermano queste conclusioni.
Un’analisi dei fondi obbligazionari rivolta principalmente all’Europa non agli Usa è stata condotta dall’Università di Rotterdam ed è in corso di pubblicazione sul Journal of Banking and Finance. Riguarda la persistenza (dei flussi e dei flussi lordi) e la performance relativa di 3459 fondi obbligazionari nel periodo 1990-2003. Dimostra che i fondi che hanno avuto una performance debole in passato, continuano tendenzialmente ad averla tale anche in futuro. Una serie di raffronti statistici sia all’interno del campione sia con fondi al di fuori del campione indica, in maniera robusta, che una strategia basata sui rendimenti del passato, se perseguita con persistenza, può fornire ritorni elevati nel medio e lungo termine (nonostante periodo fiacchi in cui è bene trattenere emozioni ed entusiasmi per nuovi prodotti).
A conclusioni analoghe arriva un altro studio dell’Università di Amsterdam , in partnership con la Robseco Assett Management. Riguarda un periodo più lungo di quelli dei lavori precedenti: il 1986-2006 ed il mercato giapponese, oltre a quelli Usa ed Ue. Si concentra, poi, sull’azionario (e sui relativi fondi azionari): bassa volatilità porta a rendimenti elevati se corretti per tener conto dei rischi relativi. Il corollario è che gli investitori pagano prezzi eccessivi per azioni e fondi con un alto elemento di rischio.
Torniamo alle domande iniziali. Sulla base di queste analisi, ancora fresche di inchiostro e di cui due in corso di pubblicazione, il fenomeno non è soltanto italiano, ma può essere di breve periodo, come lo è stato in mercati più maturi dove ci si è accorti che la perseveranza rende e che occorre fare attenzione a non farsi incastrare con quotazioni eccessive in prodotti che sembrano dinamici ma sono soltanto molto rischiosi. La stessa strategia di marketing degli istituti bancari ha respiro corto e potrebbe essere costretta a mutare indirizzo nei prossimi mesi.
17 Maggio 2007 cirio-bonds fondi di investimento parmalat-bonds

martedì 15 maggio 2007

MORTI BIANCHE, RISULTATO DI TROPPE E CONFUSE REGOLE

L’inchiostro era caldo nell’appello lanciato il primo maggio dal Presidente della Repubblica in materia di infortuni sul lavoro quando ne sono stati annunciati altri: due morti il 2 maggio nella provincia di Cosenza. Il ritmo non è cambiato nei giorni seguenti. Nel 2006 ci sono stati un milione di incidenti e 1250 morti in 12 mesi: quattro al giorno, al netto dei festivi. Nei primi mesi del 2007, la situazione non è migliorata: 144 vittime soltanto in gennaio e febbraio. L’Italia ha il triste record , tra i Paesi dell’Ue, di essere quello con la più alta incidenza sia di infortuni sia di incidenti mortali sul posto di lavoro.
Quale ne è l’origine? Vogliamo proporre un’ipotesi tanto controcorrente da sembrare iconoclasta: le troppe regole (e la troppa confusione di regole su regole) fa sì che l’applicazione sia lasca e la vigilanza applicata poco e male da un ispettorato del lavoro pur volenteroso e ben intenzionato. Un libro autobiografico di successo (Luigi Furini “Volevo solo vendere la pizza” Garzanti) racconta le peripezie con la normativa sul lavoro (ed in particolare sull’igiene e la sicurezza) di un giornalista cinquantenne il quale, senza prospettive di carriera e deluso, decise qualche anno fa di diventare un piccolo imprenditore aprendo una pizzeria per asporto (un negozietto di 30 metri con forno, banco e servizi igienici) per produrre e vendere pizza al taglio. La vicenda si è svolta non in quel Mezzogiorno che, a torto od a ragione, viene considerato pasticcione od in quella Roma ritenuta, a ragione o a torto, confusionaria, ma in quel di Pavia (dove la pubblica amministrazione è efficiente, il senso civico alto, il capitale sociale consistente ed il controllo sociale elevato). Dopo una mezza dozzina di corsi obbligatori (ma a caro prezzo) in igiene e sicurezza del lavoro, diecine di pratiche e di bolli, ispezioni e controlli di ogni genere, il nostro è tornato a fare il cronista, dopo una perdita di 100.000 euro, la chiusura della piccola bottega, il licenziamento di un paio di collaboratori ed un esaurimento nervoso. Il libro è divertente (per questo è giunto già alla quinta edizione) ma amaro. Non solo nei confronti della burocrazia ma delle miriade di regole nazionali, regionali, provinciali, comunali e del vero e proprio labirinto da esse creato.
Nel lontano 1993 ciò era stata il tema di un convegno tenuto a Roma dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (agenzia dell’Onu non certo barricadiera od iperliberista e nei cui organi di governo sono rappresentati i sindacati): eloquente il titolo – la “grande fuga dal diritto del lavoro”. Lo aveva già scritto in un saggio mirabile un economista tra i beniamini della sinistra, Albert Hirschman: di fronte a troppe regole si scappa- nel sommerso, nell’alegale, ove non nell’illegale. Anche chi è preposto a vegliare alla loro applicazione non sa che pesci pigliare.
Nella XIII e XIV legislatura, sulla scia di una serie di studi Ocse, si è messo l’accento sull’analisi dell’impatto e dei costi della deregolazione al fine di farla dimagrire. Sono stati commissionati studi empirici per appurare i costi delle regole sulle imprese (nella consapevolezza che quando sono troppo alti, la tendenza a scappare diventa forte). Poco si sa dei risultati ottenuti: pare che si sia giunti a rilevazioni affidabili solo in pochi comparti (quali i vivai ed i forni). Nulla si sa in materia di nesso tra le troppe regole, la scarsa possibilità di applicarle e monitorarle, da un lato, e gli incidenti e le morti sul lavoro, dall’altro. Con l’attuale legislatura, l’enfasi è cambiata: l’accento sul miglioramento della regolazione non sul suo drastico snellimento. Sono stati creati una serie di comitati a questo scopo: aspettiamo i risultati prima di valutarli. Forse, sarà necessario il calendario biblico.
Dato che si continua a legiferare e regolare per l’eternità (in Italia non esiste una norma generale in base alla quale dopo un determinato numero di anni una legge ed una regola, se non riapprovata, è abrogata), l’Himalaya regolatorio cresce. E gli infortuni pure.

IMMIGRAZIONE IL GOVERNO SCEGLIE LA COMPLESSITA'

In Italia ci sono 3 milioni di immigrati regolari (la metà donne) e circa 700.000 clandestini. Nelle nostre scuole studiano oltre 600.000 figli di immigrati. Il disegno di legge di legge delega varato dal Governo ed ora all’esame del Parlamento ha l’obiettivo di facilitare l’integrazione sociale degli immigranti e deve essere letto congiuntamente con il ddl varato il 6 agosto sulle nuove (e più facili) regole per la concessione della cittadinanza. Sono due aspetti della stessa strategia: da un lato, agevolare le cittadinanza agli immigrati legalmente residenti in Italia per almeno cinque anni senza interruzione, nonché ai loro figli (specialmente se nati su territorio italiano); da un altro, promuovere l’immigrazione regolare e la concessione di permessi di soggiorno a chi lavora e contribuisce al fisco; da un altro ancora, rendere più severe le sanzioni nei confronti dei clandestini e di chi li sfrutta. L’obiettivo è “l’effettiva integrazione linguistica e sociale” dello straniero in Italia. Il diavolo, però, si nasconde nei dettagli.
In primo luogo, il disegno di legge delega è complesso e macchinoso. Prevede un vasto numero di decreti delegati espropria ancora una volta il Parlamento delle sue prerogative . Mettersi su un percorso complicato (come quello previsto dal testo del ddl) cozza con la semplificazione in atto in generale nell’Ue (quali il sistema a punti, adottato da molti Stati Ue e che Danimarca e Gran Bretagna stanno introducendo, per incoraggiare flussi qualificati, trasparenti ed effettivamente richiesti) Occorre, da un lato, riflettere sulla compatibilità dei dettagli con la normativa europea che dal 2004 (quando l’immigrazione fu il tema centrale del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue ) si sta producendo. Da un altro, se si persegue sulla via indicata, occorre chiedersi perché, se in materia come l’immigrazione si sceglie la complessità, perché si tiene in piedi la barocca architettura messa in atto a Palazzo Chigi per la semplificazione legislativa. E’ un comportamento strabico.
In secondo luogo, lo strabismo riguarda le misure in materia di formazione per “l’effettiva integrazione linguistica e sociale”. Nell’attuale settennato di programmazione dei Fondi strutturali 2007-2013 , l’integrazione sociale è considerata prioritaria; le risorse, quindi, non fanno difetto. Si potrebbe pensare di formare nelle medesime strutture sia gli stranieri che vogliono acquisire l’integrazione “linguistica e sociale” per restare in Italia sia i quadri ed i dirigenti dei Paesi in via di sviluppo che vengono da noi per formazione manageriale e tecnica: si otterrebbero importanti sinergie . Per anni, questa funzione è stata svolta dalla Scuola superiore delle pubblica amministrazione (Sspa) nelle proprie sedi al Sud. In base alla normativa in vigore, la Sspa dove chiudere i battenti il 15 giugno per essere sostituita da un’Agenzia il cui regolamento, ancora in corso di perfezionamento, è contestato da parte dello stesso Esecutivo e dai sindacati. I corsi per l’”effettiva integrazione” verrebbero presumibilmente affidati a imprese con fini commerciali. La tangentopoli della formazione nel primo scorcio degli Anni 90 ha mostrato che ciò ha dato luogo a forme di capolarato, che potrebbero essere agevolate dall’autosponsorizzazione prevista dal ddl (e tale, come già sollevato da esperti del settore, da poter diventare preda di cartelli criminali). Siamo ancora in tempo per mantenere in piedi le sedi della Sspa nel Sud e dedicarle, anche con finanziamenti europei, a questo obiettivo.

SU ALITALIA PRODI CERCA DI METTERE A SEGNO UN ALTRO COLPO

Entra in dirittura di arrivo il beauty context per la cessione dell’Alitalia. Beauty context è un termine tecnico che indica gare effettuate per spogli successivi delle offerte al fine di individuare quella che più si avvicina all’idea di ciò che la stazione appaltante vuole acquistare. Si distingue dall’asta di cui parla spesso il Presidente del Consiglio in quanto un’asta deve essere basata su un capitolato dettagliato e puntuale e sul raffronto, tecnico e finanziario, delle offerte rispetto a tale capitolato. Il beauty contest è la procedura utilizzata da Francia, Germania, Italia ed altri Paesi per la vendita delle licenza utms e già messa in atto nel 1994 per la concessione al secondo gestore di telefonia mobile. Il metodo viene impiegato di raro per beni e prodotti industriali, tranne che nel caso di una forte componente di ricerca ed innovazione.
Queste notazioni sono essenziali per afferrare a pieno i contenuti politici oltre che economico-finanziaria dello scarno comunicato del Ministero dell’Economia secondo cui tutti e tre candidati in corsa per la privatizzazione di Alitalia restano in gara nella fase finale, la due diligence per arrivare a offerte definitive vincolanti. I tre sono Ap Holding che controlla AirOne, i russi di Aeroflot con Unicredit Banca Mobiliare, e gli americani del fondo Tpg con MatlinPatterson e Mediobanca. Il comunicato precisa che i tre contendenti saranno ammessi alla “data room” dal 24 maggio e che il termine di presentazione delle offerte definitive è previsto per la fine di giugno.
Il comunicato non precisa se le cordate possono essere ampliate, facendo entrare altri partner (in condizioni di soci di minoranza). Non indica neanche se la stazione appaltante ha definito a questo punto una definizione più precisa e più trasparente del concetto di “italianità”. Non si tratta di mere dimenticanze. Se non giungono, tra oggi e domani, ulteriori chiarimenti, queste lacune (su punti della procedura che potranno rivelarsi cruciali negli stadi ulteriori) denotano che la stazione appaltante (ossia Prodi, TPS & Co.) vuole fruire della più ampia discrezionalità (come è comunque caratteristica di un beauty contest rispetto ad un’asta. Assumono un rischio calcolato: che a fronte di un ricorso di un contendente non soddisfatto delle decisioni che verranno prese, la Corte di Giustizia Europea non impugni la gara. Il rischio è calcolato in più ragioni: le condizioni finanziarie dell’Alitalia, da due anni considerata “tecnicamente fallita” e quindi poco appetibile; la possibilità di compensare in altro modo eventuali contendenti scontenti; le lunghissime procedute Ue.
Sotto il profilo superficiale, il nocciolo politico sarebbe nelle conversazioni (non tanto riservate) tra il Ministro delle Finanze russo, Alekseij Kudrin, ed il Ministro italiano dell’economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Il primo avrebbe rassicurato il secondo della serietà dell’offerta Aeroflot. In effetti, il gioco è più complesso. Romano Prodi ha centrato due colpi negli ultimi mesi, nel percorso per costruirsi un serie di aziende collaterali tali da fare forza alla sua pattuglia di parlamentari e membri del Governo ed ottenere così lo scettro del nascituro Partito Democratico: l’operazione San Paolo-Intesa e la conclusione della vicenda Telecom. Il resto dell’Unione ne è consapevole. La triade di grandi aziende collaterali al gruppo prodiano non piace affatto a molti elementi della sinistra. Non vogliono che vada a segno anche la terza boccia: la cessione dell’Alitalia alla Air One, considerata, a torto o a ragione, collaterale a Prodi. Questa dimensione politica interna è pure più importante di quella internazionale: gli accordi tra Eni e Russia, l’esigenza di controbilanciare la partnership mediterranea (sta riacquistando prospettiva pure l’intesa Autostrade-Abertis) con alleanze ad Est. In breve, gli alleati non gradiscono che Prodi (ed i suoi) si rafforzino tanto da rendere impossibile uno sfratto da Palazzo Chigi il giorno che chi ha gli elettori lo riterrà opportuno. Quindi, le pressioni per dare la facoltà di ampliare al Monte dei Paschi di Siena (o ad altri) la cordata AP Holding, sostenuta da Intesa-San Paolo (istituto bancario colleteralissimo a Prodi) pare non abbiamo avuto, per il momento, effetto. Sarebbero state rintuzzate pure quelle per dare una definizione più stringente (e dunque più favorevole ad AP Holding) del concetto di “italianità”.
L’offerta dell’Aeroflot (in partnership con Unicredito) si basa su un piano industriale la cui credibilità sta crescendo di giorno in giorno: far diventare l’Alitalia la quinta “A” di un sistema Italia basato su Abbigliamento, Alimentazione, Arredamento, Arte. L’Alitalia diventerebbe la costola di superlusso di una grande compagnia mondiale. Solamente prima classe, poltrone comodissime, televisioni al plasma, telefoni satellitari, cucina a bordo da Vissani, stampe d’autore alle pareti, uniformi firmate Valentino. L’Aeroflot è interessata ad avere un ramo di superlusso perché non è più l’aviolinea “proletaria” dove si viaggiava ammassati in poltrone strettissime, agli ordini di hostess robuste e con accanto passeggeri con galline in cesti di vimini. Ha affrontato una dura ristrutturazione , riorganizzato le proprie tratte, dato la priorità sul mercato dell’Eurosia e si è dotata di una flotta di 88 jet, di cui 52 Tupelov e Ilyushin, 25 Airbus ed il resto suddiviso tra Boeing e McDonnel-Douglas. Ha appena ordinato 22 Aibus A350-XWB. Con i conti in ordine è pronta ad entrare alla grande nel mercato del lusso (non solo eurasiatico o per i nuovi magnati della Russia e dell’Asia centrale) ma mondiale. E per una parte della maggioranza (che non ama Prodi) ciò calza a pennello.
L’ultima fase del beauty contest si annuncia turbolento. Allacciate le cinture.

sabato 12 maggio 2007

MILLE E UNA NOTA : L'ISLAM IN MOSTRA da Il Domenicale 12 maggio 2007

Tra i corsi in programma nella scuola di management pubblico dell’Università di Harvard, uno dei più frequentati da uomini e donne in mid-career è quello in “Musica nella via della seta”; in queste settimane, uno dei corsisti è un diplomatico italiano, inviato nel Massachussetts del nostro Ministero degli Affari Esteri proprio in quanto viene addestrato ad una carriera veloce e brillante. E’ un corso da cui si vede un’altra faccia dell’Islam rispetto a quella spesso nelle prime pagine dei giornali: una civiltà aperta e tollerante (i migliori cantori del Bukkhara erano, e sono ancora oggi, ebrei) , con un forte senso della spiritualità (anche dove è stata dominata per decenni dall’ateismo di Stato), nonché con una strumentazione ed una scrittura vocale che, quando in Europa si era ancora nei secoli bui del Medio-Evo, anticipavano quella che sarebbe stata la musica rinascimentale ed addirittura il canto di coloratura del Seicento e del Settecento. Secondo alcuni musicologi, in particolare, la coloratura, il canto di agilità, nonché la preferenza per le voci bianche, sarebbero giunti in Europa dall’Asia e dal Medio Oriente.
Avendo lavorato a lungo (quando ero in Banca Mondiale) in quelle parti del mondo ho avuto contezza in prima persona della musica e, in minor misura, del visivo dell’arte islamica. Nel 1969, potetti apprezzarla in Egitto e soprattutto a Mopti (la “Venezia-del-Mali”, porto fluviale sul Niger e centro commerciale di carovane dal Mediterraneo al Regno Dogon sulle montagne ai confini con quello che oggi è il Burkina Faso). Negli Anni Settanta ed Ottanta, mi recavo di frequente a Khartoum ; nel miglior ristorante (“El Busan”) della enorme (e polverosissima) megalopoli, si cenava al lume di candela ed accompagnati da musica e canto struggenti (non certo per turisti – rarissimi nel Sudan). In queste settimane, sino al 3 giungo, si può assaporare la cultura e la musica dell’Islam a Parma. Nella città emiliana, ha preso l’avvio una mostra sulle corti dell’Asia centrale (introdotta, nei primi giorni, da una serie di concerti), che visiterà Parigi, Londra e Lisbona prima di costituire il nucleo fondamentale del Museo permanente dell’Aga Khan i cui battenti si apriranno a Toronto nel 2009. Un’occasione unica per percorrere, nelle sale della Pilotta, due strade parallele, ma convergenti, intitolate rispettivamente a “La Parola di Dio” e a “Il potere del Sovrano”- segno chiaro e netto della separazione tra potere divino e potere temporale che per secoli ha caratterizzato l’Islam, nonostante in varie denominazioni della religione (oggi seguita da un quarto dell’umanità) le funzioni politiche e quelle religiose si trovino spesso affidate alla stessa carica.
Prima di soffermarci sul visivo, qualche parola sulla musica – in quanto pochi sono gli italiani che hanno ascoltato la musica islamica in generale e quella dell’Asia centrale in particolare. E’ una musica, al tempo stesso, aristocratica e popolare, tanto radicata da sopravvivere al comunismo sovietico (che nei confronti dell’Islam non fu meno tenero di quanto non fosse nei confronti del cristianesimo). Musica, poi, divisa in due netti filoni: uno (caratteristico delle civiltà nomadi) in cui i protagonisti sono i bardi (analoghi ai nostri trovatori e ancora di più ai cantastorie sino a tempo recenti frequenti nel nostro Mezzogiorno) con le loro lunghe narrazioni cantate a puntate (epiche la cui lunghezza era spesso pari a 30 volte quella dell’Iliade); uno (tipico, invece, delle società sedentarie) in cui musica e canto sono imperniate sulla rivelazione della parola di Dio ed hanno la doppia funzione di comunicarla ed esaltarla. Anche nelle sterminate storie cantate dei bardi, però, Dio è sempre presente – pur se nel fondale od in quello che specialisti di economia e finanza chiamerebbero “il sottostante”.
La rivoluzione sovietica del 1917 ha tentato di contenere questa tradizione musicale, istituzionalizzando l’offerta in forma centralizzata, introducendo temi collegati al “socialismo reale”, imponendo parametri musicali europei. Molti musicisti dell’Asia sotto il gioco russo – come vedremo – sono stati forzati all’emigrazione, ma la tradizione è rimasta radicata. Oggi, anche con il supporto di organizzazioni culturali come quelle dell’Aga Khan, è in corso un’intensa attività per salvaguardare tale patrimonio culturale e renderlo accessibile internazionalmente. I concerti di Parma verranno ripetuti a Parigi, Londra, Lisbona ed altre città e sono accessibili in pregevoli DvD.
Ad introdurre la mostra di arte delle corti islamiche, con un concerto di gala al Regio e quattro concerti nell’auditorio “Voltoni del Guazzatoglio” del Palazzo della Pilotta, sono stati quattro assaggi di suoni e suggestioni dell’Asia centrale. In primo luogo, un “capriccio” (forma libera) – si direbbe in lessico moderno – afgano per rubâb (liuto) e tabla (coppia di percussioni di origine indiana): dopo la lunga mesta prima parte, intrisa di melanconia e nostalgia, ritmica ma ben temperata (in cui il tabla fa da contrappunto al rubâb) , i due musicisti dialogano vivacemente tramite i loro strumenti in uno scherzo sempre più vivace tanto da diventare frenetico. In secondo luogo, i canti del Bukkhara, nell’Ubzekistan, vicino alla mitica Samarcanda. I loro cantautori sono ebrei, da decenni trasferiti nel Queens di New York (dove si tramandano l’arte di generazione in generazione), in seguito non a persecuzioni da parte dei mussulmani ma all’antisemitismo profondo dei russi comunisti nei lunghi anni dell’Impero sovietico. Quello che colpisce nel vasto repertorio di brani vocali e strumentali tramandati (con aggiornamenti ed aggiustamenti) dall’inizio del secondo millennio, è la netta preferenza per voci maschili molto “alte” (da controtenore più che da tenore), l’assenza di voci da baritono o da basso (presenti, invece, in canti ebraici ancorati alla tradizione europea, quali quelli che si ascoltano, ad esempio, nelle sinagoghe americane) nonché vocalizzi di agilità non differenti da quelli dei castrati che avrebbero fatto impazzire Corti e pubblico europeo nel Seicento e nel Settecento. In terzo luogo, i canti mistici del Pamir tagiko, alla falde quasi dell’Himalaya. Forte l’accento sulle tonalità e sulle ottave alte (mentre in Europa e nella tradizione medio-orientale copta il misticismo è spesso associato a voci di basso, come peraltro avviene nella musica slava e specialmente nella liturgia ortodossa), nonché sul ritmo, tanto che dal canto si scivola nella danza. In quarto luogo, infine, la musica spirituale dell’Azebarjan: netta la distinzione tra i languidi canti sentimentali (uno è intitolato “L’amore degli amori”) ed invece il ritmo incalzante di una canzone presa da un film patriottico sovietico; anche in quest’ultima, però, è presente il richiamo all’Alto.
Anche grazie agli utili pannelli ricchi di didascalie, la mostra (170 opere) consente una presa diretta di contatto con quell’Islam spesso chiamato “moderato”, così profondamente differente da quello radicale del terrorismo e della jihad (guerra santa). La parte su “La parola di Dio” è articolata in quattro parti: il Corano (nelle trascrizioni dei versetti , con decorazioni floreali e geometriche, sin dal IX secolo), il mondo di misticismo e di devozione (nelle immagini, spesso miniature su tela o pergamena, che accompagnavano libri religiosi o più semplicemente a carattere educativo), il cambiamento di misticismo e devozione attraverso i tempi (da segnalare le rappresentazione dei dervisci e delle discussioni tra saggi , tali da evidenziare il forte senso del movimento); il giardino visto come Paradiso (con copertine in lacca della fine del Cinquecento che sembrano anticipare il Liberrty). Laica la parte della mostra dedicata a “Il potere del Sovrano”. Il percorso è cronologico dai fatimidi (diretti discendenti di Maometto) ai moghul (che conquistarono l’India e posero fine ai regni dei Rajput); una sezione, tuttavia, riguarda l’educazione al potere- il cammino del Principe. Nell’insieme, si vede un mondo di smalti smaglianti, di dipinti stilizzati ma ricchissimi, di cristalli di roccia e ceramiche variopinte, di conoscenza profonda del resto del pianeta (sorprendente il dettaglio degli abiti degli ambasciatori occidentali, specialmente quelli delle Corti di Francia e Gran Bretagna), di un arte calligrafica complessa ed elegante. Grande raffinatezza, dunque, all’amore per il particolare.
Nulla di più distante, quindi, dello scontro tra civiltà ipotizzando in molta pubblicistica di questi ultimi anni. La grandezza, anche economica, dell’Islam si è appassita per numerose determinanti – prime fra tutte le complicate regole di successione ed il blocco alla nascita di società a responsabilità limitata che hanno impedito uno sviluppo capitalistico analogo a quello formatosi in Occidente. La mostra ed i concerti, però, ribadiscono che esiste un vastissimo Islam della tolleranza e dell’eleganza. Più che uno spiraglio in una porta che a volte sembra ermeticamente chiusa.

DAMIANO INDAGA SU DOVE VANNO I SALARI UE

Da qualche tempo, l’Unione Europea (Ue) non richiede più i Nap (National action programs , programma di azione nazionali) per raffrontarli tra i 27 Stati membri e estrarne le prassi migliori al fine delle politiche dell’occupazione e del lavoro. Il Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, Cesare Damiano, è tuttavia preoccupato da indicazioni secondo cui , nonostante i proclami della Commissione Europea sulla riduzione del tasso di disoccupazione nel Vecchio Continente, la situazione è molto meno incoraggiante di quel che sembri. Soprattutto per i giovani che hanno difficoltà ad avere accesso al mercato del lavoro “primario” o regolare (con contratti a tempo indeterminato) e per coloro che vengono espulsi in età matura ma non anziana.
Lo conferma un lavoro teorico di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore dell’Università Partenope di Napoli “A New Regional Geography of Europe? The Labour Market Impact of the EU Enlargements" (“Una nuova geografia economica d’Europa- L’impatto sul mercato del lavoro dell’allargamento dell’Ue”) pubblicato in Germania come IZA Discussion Paper No. 2620. L’analisi pone l’accento sugli aspetti micro-economici del cambiamento strutturale e sulle asimmetrie che sta provocando nel mercato del lavoro, con un aggravio degli squilibri (soprattutto territoriali nel gruppo di Stati originari dell’Ue).
A conclusioni analoghe giungono Antonio Menezes, Dario Sciulli e José Antonio Cabral Vieria dell’Università delle Azzorre in un altro IZA Discussion Paper (il n. 2627) "Wage Persistence and Labour Market Institutions: An Analysis of Young European Workers" (“Rigidità salariali e istituzioni del mercato del lavoro: un’analisi relativi ai giovani lavoratori europei”). Utilizzando dati dal 1995 al 2001 per 13 Paesi dell’Ue a 15 tramite una complessa strumentazione statistica giungono alla conclusione che l’elevato livello di protezione per chi ha un impiego e l’alto grado di contrattazione collettiva nazionale hanno l’effetto di comprimere i salari dei giovani (e di accentuare relazioni contrattuali a termine) .
L’innovazione tecnologica supera questo ostacolo? Una rassegna della letteratura condotta da Marco Vivarelli dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Piacenza ( "Innovation and Employment: A Survey", “Innovazione ed occupazione: una rassegna) afferma che la teoria secondo cui le forze di mercato assicurazione una compensazione completa per il risparmio di lavoro iniziale (connesso al processo di innovazione) ha applicazione concreta solamente nel lungo termine. Lo conferma uno studio di Bruno Contini dell’Università di Torino e di Claudia Villosi dell’Università del Piemonte Orientale : "Worker Mobility, Displacement, Redeployment and Wage Dynamics in Italy" (“Mobilità dei lavoratori, perdita del posto di lavoro, nuova occupazione e dinamica salariale in Italia).Il campione è rappresentato da lavoratori a tempo pieno tra i 20 e 50 anni nel periodo 1986-91 (prima, quindi, che con i vari pacchetti Treu e legge Biagi iniziasse il processo di liberalizzazione del mercato del lavoro). Tuttavia, parte delle tendenze evidenziate sono ancora in azione.
Come possono rispondere le politiche a queste sfide? Amara la conclusione di Calin Arcalean , Gerhard Glomm, Ioanna Schiopu e Jens Sueddekum in uno studio comparato condotta all’Università dell’Indiana ("Public Budget Composition, Fiscal (De)Centralization, and Welfare", “Composizione della spesa pubblica, decentramento fiscale e politiche sociali”). L’analisi è teorica ma non priva di riferimenti empirici: il decentramento ed il federalismo contribuiscono positivamente all’accumulazione di capitale ed alla crescita, ma rendono più difficile la formulazione e l’attuazione delle politiche sociali.

venerdì 11 maggio 2007

PENSIONI:TPS HA UN ASSO NELLA MANICA ED UN TALLONE D'ACHILLE

Nel confronto con i sindacati, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa (TPS) ha almeno un asso nella manica. Ma non lo mette, per il momento, sul tavolo. Probabilmente perché teme di mostrare il suo tallone di Achille.

Il confronto Governo-parti sociali ha numerose sfaccettature: l’adeguatezza delle pensioni minime e la tutela dei più deboli, la revisione dei coefficienti per trasformare (in futuro) il montante di contributi accumulati in rendite annuali, i requisiti essenziali per fruire di pensioni di anzianità. Tra questi e tanti altri, l’ultimo citato (in gergo lo “scalone” in base al quale, a normativa vigente (“la riforma Maroni” del 2004), ha assunto un valore simbolico. In modo speculare ed analogo, al confronto sull’abolizione dell’art.18 (relativo alla “giusta causa” per i licenziamenti) dello Statuto dei Lavoratori che caratterizzò la prima parte della scorsa legislatura. L’asso nella manica sta nei numeri per smontare lo stendardo costruito sullo “scalone”: tanto TPS quanto i sindacati sanno che nell’arco dei prossimi tre anni coloro potenzialmente interessati alla misura sono circa 190.000 persone- ossia 63.000 l’anno (un potenziale elettorale, per intenderci, ben inferiore a quello dei tassisti). Quelli che effettivamente opterebbero per pensioni di anzianità a 57 anni sono verosimilmente molto meno. Lo dicono non solo i dati Inps sull’esperienza del recente passato ma anche indagini campionarie effettuate proprio dai sindacati per accertare la consistenza del gruppo sociale che sarebbe, per così dire, danneggiato (quanto meno nelle aspettative) dalla “riforma Maroni”. A conclusioni analoghe giunge un raffronto internazionale dei pensionamenti anticipati in 19 Paesi condotto dall’Università di San Gallo in Svizzera (un istituto di alta formazione e ricerca distinto e distante dalle nostre beghe) e pubblicato proprio in questi giorni dall’istituto tedesco di studi sul lavoro.
E’ comprensibile che, dopo avere fatto una battaglia contro lo “scalone”, i sindacati si tengano la cifra ben stretta al petto. E’ meno comprensibile che lo faccia anche TPS; l’effetto sarebbe ancora maggiore se i 190.000 su tre anni (o 63.000 l’anno) venissero giustapposti ai veri beneficiari della riforma del 1995: i 10 milioni di uomini e donne che continuano ad avere titolo alle pensioni retributive, ben più generose delle pensioni retributive che si applicheranno a chi non aveva iniziato a versare contributi prima del 31 dicembre 1995 o delle pensione miste “pro rata” per tutti gli altri (chi aveva meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995).
L’asso nella manica diventerebbe ancora più efficace se venisse coniugato con i dati sul futuro dello stato patrimoniale dell’Inps quali si ricavano dai documenti del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale del Ministero del Lavoro, disponibili su Internet. Sono molto più eloquenti dei rimbrotti periodici del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), l’ultimo dei quali giunto proprio mentre iniziava il confronto (in salita) Governo-parti sociali. In sintesi, senza aggiustamenti (quali il progressivo innalzamento dell’età effettiva di pensionamento e la periodica revisione dei coefficienti di trasformazione), il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro nel 2030.
Perché TPS non mette queste cifre al centro del negoziato? Le interpretazioni sono due : una riguarda il passato recente e l’altra il futuro prossimo. Sono due aspetti dello stesso tallone d’Achille: lo indeboliscono, infatti, rispetto agli altri Ministri ed ai sindacati. Per quanto attiene al passato recente, ha perso credibilità, e si è indebolito, dopo avere ingoiato quello che in gergo giornalistico si chiama “lo scippo del trf a favore dell’Inps” (le misure delle legge finanziaria per depositare presso l’Inps parte delle somme a titolo di tfr non destinate a fondi pensione). Per quanto riguarda il futuro nutre in cuor suo la speranza di seguire il percorso di Carlo Azeglio Ciampi e di Lamberto Dini – essere la riserva della Repubblica per un Governo “tecnico” che emergerebbe dai contrasti sempre più laceranti nella maggioranza. E’ convinto, a torto od a ragione, che perché tale prospettiva si realizzi il confronto sulla previdenza con i sindacati e la sinistra radicale deve essere duro, ma non troppo. Utilizzando armi come l’Fmi, l’Ocse, l’Ue – tigri di carta rispetto ai più casarecci ma tanto parlanti dati nostrani.

Riferimenti

Dorn David, Suoza- Poza Alfonso "'Voluntary' and 'Involuntary' Early Retirement: An International Analysis", IZA Discussion Paper No. 2714. Per il testo, rivolgersi a david.dorn@unisg.ch

Le analisi del Nucleo di Valutazione della Spesa Previdenziale sono disponibili a www.lavoro.gov.it

IL RITORNO DEI GRANDI BOJARDI DI STATO

Ora nell’Italia della transizione non solo “beaurocrats are in business” (come la Banca Mondiale intitolò alcuni anni fa un proprio libro sugli esiti della prima ondata di privatizzazione nei 5 continenti) , ma i bojardi di Stato stanno tornando alla grande. Bloccato il programma di privatizzazioni (Enel, Eni, Rai, Poste) definito dal Governo in carica alla fine della XIV legislatura (e delineato nel Dpef del 2005 per il 2006-2009), i bojardi non solo siedono in posizione chiave di Palazzo Chigi, ma stanno rispuntando da per tutto.
Il caso più eclatante è quello della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp): dagli organi di governo e di gestione (un consigliere ogni 7 dipendenti) vengono mandati a casa tecnici di finanza come Luigi Fausti, Mario Sarcinelli e Luigi Roth per sostituirli con espressioni della maggioranza, un termine elegante per indicare ciò politici non rieletti (o non ripresentati alle elezioni dai loro stessi partiti) ed ora in cerca di collocazione. Nell’ambito della Cdp, poi, è stata creata da alcuni mesi una sgr, il nuovo fondo per le infrastrutture, F2i, on l’apporto della Cariplo, della Fondazione Mps, della Fondazione Crt, della Fondazione Carisbo, oltre che delle due principali banche del paese, Intesa Sanpaolo e Unicredit e da due sponsor internazionali di rango, Lehman Brothers e Merrill Lynch. Lo guida Vito Gamberale , la cui carriera è il “cursus honorum” del bojardo di Stato Anni 80. Oltre un mese fa, gli è stato chiesto: a) di quali infrastrutture si prenderà carico – se di quelle della “legge obiettivo” (di cui tuttavia vuole occuparsi il Ministro Di Pietro ed ha pieno titolo per farlo) o di altre, ed in tal caso, di nominarle; b) se si utilizzeranno Special Purpose Vehicles (Spv), uno strumento finanziario ad hoc, per ciascuna iniziativa oppure per ciascun comparto e se la tecnica utilizzata sarà il BOO (Build, Own, Operate) o il BOOT (Build. Own, Operate, Transfer); c) quale sarà l’analisi finanziaria ed economica che verrà effettuata; d) se le infrastrutture (da finanziarie) verranno viste come un investimento in capitale fisico e finanziario oppure come uno strumento di politica economica oppure ancora come una finestra di opportunità e, soprattutto, e) per quale ragione é la Cdp è in F21 - una garanzia pubblica a progetti privati, pilotaggio delle scelte operative verso obiettivi di politica economica, cattura di utili e di dividendi (se sono elevati).
Sino ad ora, la risposta è stata equivalente a quel passaggio dell’Epilogo dei dogmi politici del Cardinal Mazzarino in cui si sottolinea che “a sole due massime restringevano gli antichi filosofi la lor più sincera filosofia, e sono le seguenti: sopportati e astieniti”. Proseguendo la lettura, il capitolo del Cardinale (il bojardissimo della Francia di Luigi XIV) continua sulla esigenza di non mostrare ciò che non è indispensabile mettere in campo per ottenere i propri obiettivi profondi.
Ritorno dei bojardi, alla grande, anche in Alitalia. L’asta, ridotta da mesi a beauty contest (gara a chi meglio corrisponde ai criteri di bellezza, peraltro mai specificati, della stazione appaltante – ossia di Prodi & Co.), sta diventando spappolata oltre il prevedibile. Dopo la presentazione delle offerte preliminari, si annuncia che verranno autorizzati cambiamenti ed ampliamenti di cordate, e capitolati dettagliati differenti dai loro progetti preliminari. In effetti, si sta cercando di far sì che la bellezza negli occhi di Prodi & Co. assomigli molto a quella di Air One (controllata se da un bojardo da chi ai bojardi è stato sempre molto collaterale). In tale modo, la bojardia (collaterale al partito-aziende che sta creando il Presidente del Consiglio) avrebbe il monopolio della tratta Milano-Roma. All’anti-trust non resterebbe che piangere.

giovedì 10 maggio 2007

TELEFONICA E’ GIA’ UN CAMPIONE EUROPEO

Il tormentone Telecom è arrivato al suo epilogo (quanto meno della attuale puntata della lunga saga iniziata con la privatizzazione poco più di dieci anni fa). Nelle puntate, il nodo dei vari giochi dell’Opa era chi, tra i protagonisti del piccolo ma variopinto capitalismo italiano (con un po’ di mezzi propri e , soprattutto con tanti mezzi altrui), si sarebbe seduto sulla rendita di un ex-monopolio ancora di fatto in posizione dominante sul mercato italiano della telefonia e degli annessi e connessi ad essa collegati. Differente il tema della puntata o del “canto” che terminerà quando la Consob avrà esaminato i patti parasociali Telco e si saranno tenute le prime sessioni del nuovo CdA di Telecom. E’ stato messo l’accento da vari esponenti del Governo sulla esigenza di mantenere “l’italianità” dell’azienda, o quanto meno del suo controllo. Mancando disposizioni normative specifiche in materia (come esistono, invece, negli Stati Uniti), si è fatto ricorso ad interventi, a torto od a ragione, considerati irrituali ed impropri da uno dei contendenti , la AT&T. Al resto del mondo industrializzato d’occidente (si vedano i commenti nell’ultimo fascicolo del settimanale “The Economist”) si è data la chiara impressione che in Italia si sia ancora ad uno stadio in rapporti extra e preteristituzionali contano di più del funzionamento del mercato. La cordata italiana ha comunque pagato un prezzo finanziario elevato (come sottolineato da Contrarian del 9 maggio) per dare corpo a queste indicazioni. Non è dato da sapere quanto vi rientrerà.
Oramai questa puntata fa parte del passato. Nell’immediato, occorre chiedersi (è il compito della Consob) quanto sono pregnanti come quella della maggioranza qualificata per molte delibere di Telco per le strategie future di Telecom e per la contendibilità di mercato dell’impresa. Nel medio e lungo periodo, gli interrogativi di fondo riguardano se l’alleanza Telefònica-Telecom (in cui la prima pare avere se non lo scettro del principe almeno il posto del conducente) può diventare uno dei quei “campioni europei” vagheggiati (poco più di due anni fa) in quel “rapporto Beffa” (dal nome Jacques Beffa, industriale francese di rango) non solo come risposta alle multinazionali di stampo americano ma come fulcro di una politica industriale europea tesa all’innovazione tecnologica ed organizzativa. Occorre anche domandarsi come mai tale “campione nazionale” viene da quella Spagna che un quarto di secolo fà è stata accettata un po’ a malincuore nell’Unione Europea (Ue) dove le è stato dato, per una diecina di anni, il ruolo di socio “junior” che avrebbe dovuto fare una lunga strada prima di potere avere pari dignità con i “Patri Fondatori”. Se, infine, siamo alle prese con un “campione europeo” (pur se ancora in formazione) il dibattito sulla rete fissa, sulle competenze delle nostre Authority assume una rilevanza relativamente differente rispetto alle questioni di lana caprina in questi giorni croce e giurista dei nostri giuristi, specialmente di quelli specializzati in diritto delle comunicazioni.
Delle tre domande, la più difficile a cui dare una risposta esauriente è la prima. Guidata da Cesar Allerta, Telefonica è diventata una multinazionale sui generis: insieme a Vodafone, è nel mondo delle tlc fisse una delle rare s.p.a. che fattura più all’estero che in Patria ed, all’estero, ha una presenza fortissima in America Latina. . Inoltre ha uno stock di debito abbastanza contenuto. Con l’operazione Telecom, sopravanza in fatturato e capitalizzazione consolidata gli altri due giganti europei del settore di estrazione pubblica: France Télécom e Deutsche Telekom. I programmi e le strategie, in breve il business plan, di Telefònica restano abbastanza riservati . Anche se non si dispongono di elementi quantitativi concreti per dire se dietro l’operazione c’è molto di più che entrare in un mercato interessante della Vecchia Europea (l’Italia) e razionalizzare le proprie operazioni in America Latina, si può affermare che ora Madrid ha una “call option” per bloccare operazioni ostili su sussidiarie extra-europee. Tale “call optino”, se esercitata, è la base per diventare il “campione europeo”, superando i francesi ed i tedeschi.
La Spagna si è preparata con cura alla competizione europea mettendo l’accento (come sottolineò l’economista americano Charles Kindleberger) sul capitale umano- in primo luogo l’istruzione. Pochi sanno, o ricordano, che nel 1970 (in epoca ancora franchista ma con una classe dirigente che già guardava all’integrazione europea) la Spagna intraprese una radicale riforma del proprio sistema di istruzione (con il supporto tecnico dell’Unesco e finanziario della Banca Mondiale). Il frutto più noto fu l’istituzione del Politecnico di Barcellona , oggi riconosciuto, a livello mondiale, come delle migliori istituzioni di ingegneria e management. Il sottostante del Politecnico era una profonda riforma della scuola e dell’università. Mentre l’altro maggior Paese mediterraneo dell’Ue (l’Italia) restava ancorato alla “riforma Gentile” degli Anni Venti, la Spagna chiamava i migliori cervelli mondiali in tema di istruzione e formazione. Sono settori in cui la fase di gestazione è lunga – almeno due generazioni. Oggi se ne vedono i frutti: mentre l’Italia si de-industrializza, la Spagna ha la capacitazione di dare vita ad un “campione europeo” nell’alta tecnologia-
Se tale capacitazione (ancora potenziale) diventa capacità effettiva ed il controllo, tramite Olimpia, è il passaggio importante per dar vita ad un “campione europeo”, le disquisizioni giuridiche sulla rete riguardano (come spesso avviene) in che modo normare il passato, piuttosto che guardare all’avvenire. Lo mostra a tutto tondo Antoine Martin della Federal Riserve Bank di New York in un saggio che apparirà sul prossimo numero della Review of Economic Dynamics (ma che si può richiedere al’autore: antoine.martin@ny.frb.org) e che i giuristi delle Authority dovrebbero leggere con cura: ciò che conta è la struttura di governance tale da assicurare, a livello europeo non unicamente italiano, un livello adeguato di investimenti perché la rete (europea) sia efficiente.
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mercoledì 9 maggio 2007

ICI E CATASTO: LA BATOSTA SULLA CASA

“Never say never”- “Non dire mai giammai”. Questo era il titolo di un film di James Bond del lontano 1965, che ebbe tanto successo da essere prodotto una seconda volta nel 1983 (sempre con Sean Connary in uno dei ruoli principali, ma con una nuova casacca a ragione del passaggio degli anni e quindi del differenziale di età). Romano Prodi se lo dovrebbe ricordare, anche se preferisce le serate di parapsicologia a quelle al cinema. Ha appena detto che non avrebbe più orchestrato una finanziaria di “lacrime e sangue” , caratterizzata da forti aumenti dell’imposizione (che ha colpito principalmente i ceti medio bassi) ed annuncia un nuovo salasso sulle famiglie (ancora una volta specialmente sui ceti che hanno come unico bene di consumo durevole e, al tempo stesso, di investimento la propria casa). La annuncia in modo un po’ contorto, come ha fatto per reintrodurre quella imposta di successione che quasi tutto il mondo ha abrogato (e che adesso anche la Francia di Sarkozy si appresta a cancellare). Allora è ricorso principalmente a ritocchi della imposta di registro. Adesso, lo strumento è la revisione delle valutazioni catastali – da cui consegue un forte aumento dell’Ici e di tutta l’imposizione collegata ai trasferimenti di immobili tra persone fisiche e tra persone giuridiche.
Ci sono aspetti tecnici complessi. In breve, le aliquote Ici (e del resto dell’imposizione immobiliare) sono state stabilite sulla base dell’ipotesi (allora realistica) che i catasti gestiti dai Comuni erano e sarebbero rimasti in un caos tale da rendere difficile l’aggiornamento periodico delle stime di valore degli immobili e relative rendite (attuali o potenziali). Tale ipotesi – affermano gli esperti di Prodi – adesso non è più vera grazie alla digitalizzazione dei dati catastali. E’ verosimile che molti piccoli comuni (degli 8000 esistenti) siano ancora distanti dalla digitalizzazione (ma i più piccoli possono fare gli aggiornamenti a mano e comunque, nell’aggregato, pesano poco). E’, però, una realtà che la tecnologia è venuta in aiuto anche agli uffici più scassati (ad esempio, quelli del Comune di Roma che non hanno ancora esaurito le pratiche per il condono edilizio del 1986). La tecnologia – ci ricorda un bel libro di Luigi Fenizi- ha fatto sì che il Novecento passa essere chiamato “il secolo crudele” perché ha reso possibili i gulag comunisti ed i lager nazisti. La tecnologia può pure essere lo strumento per trasferire somme enormi dalle famiglie al fisco tramite la tassazione di un patrimonio che , lo si ripete, è sovente il principale bene di consumo durevole per le famiglie.
Per afferrare il significato dell’operazione sulla società è errato basarsi sulle stime (peraltro tutte approssimative ) che circolano in questi giorni (ed ancor meno su quelle in cui si progettano detrazioni o deduzioni per fare meglio ingoiare la pillola). Si colpisce al cuore delle famiglie. Prodi dovrebbe leggere e meditare l’ultimo saggio di due economisti di rango come Alberto Alesina e Paola Giuliano “The Power of Family” appena pubblicato come Harvard Institute of Economic Research Discussion N. 2132. Nel lavoro rigorosamente quantitativo e comparativo (copre 70 Paesi) si individua i legami familiari (ed il “focolare familiare” in cui si formano) come la determinante di base per la produzione di beni sociali, per una più alta partecipazione nella forza lavoro da parte specialmente dei giovani e delle donne, della mobilità anche geografica . “I nostri risultati – concludono – indicano un’influenza significativa della forza dei legami familiari sui risultati economici”. Ma è in tutt’altre faccende affaccendato.

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